Cinque gustosi piatti tipici romani

Alberto Sordi, che spesso nei suoi film ha parlato dei piatti tipici romani, in

Venezia a parte (visto che ci abito ad un’ora di treno), credo che la città che ho visitato più spesso a fini turistici in vita mia sia Roma: una città che, come diceva Italo Calvino per i libri, è un classico perché non smette mai di dirti quello che ha da dirti.

Certo, come in ogni città italiana anche nella nostra capitale non mancano le pecche, le cose che non funzionano (io, che mi ci son dovuto muovere recentemente con due passeggini, tre figli e una suocera al seguito segnalo soprattutto le carenze a livello di mezzi di trasporto), però c’è anche da andare orgogliosi di tanta bellezza.

E quando parliamo di bellezza, com’è d’uso nel nostro sito, non intendiamo solo bellezza artistica: perché Roma ha anche ottimi musei, splendidi panorami, una tradizione letteraria e cinematografica invidiabile, grandi realtà sportive ma anche una cucina particolarmente appetitosa.

E proprio su quest’ultimo aspetto vogliamo concentrarci oggi tramite la nostra guida alla storia e ai gusti di cinque gustosi piatti tipici romani.

 

1. Bucatini all’amatriciana

Che la si chiami amatriciana in italiano o direttamente matriciana in romanesco, la salsa originata nella cittadina laziale di Amatrice (e poi importata nella capitale dai molti osti che da quella città provenivano) è forse la più celebre della cucina romana.

Tanto celebre da essere ormai usata in tutta Italia senza soluzione di continuità come uno dei condimenti più tipici della pasta.

Bucatini all'amatriciana

Ma che sia profondamente laziale è dimostrato soprattutto dagli ingredienti di cui è composta: il guanciale, il pomodoro e soprattutto il pecorino, tutti prodotti classici della tradizione culinaria romana.

Non solo: l’amatriciana nasce dalla gricia, altra salsa tipica di Roma però soppiantata ormai dalla più famosa figlia e nota quindi come «l’amatriciana senza il pomodoro».

Il sugo derivato della gricia che ha conquistato Roma

Se la gricia, infatti, pare sia stata introdotta a Roma da un immigrato del Cantone svizzero dei Grigioni, l’invenzione dell’amatriciana si può datare attorno alla fine del Settecento, quando la creazione della salsa di pomodoro permise l’accostamento del nuovo ingrediente al già consolidato sugo creando qualcosa di nuovo e di immediato successo.

Il tipo di pasta ideale da accostarvi sono i bucatini, grossi spaghetti forati tipici della città che, proprio in virtù del buco in cui passa l’acqua durante la cottura, nonostante la mole cuociono più o meno con la stessa tempistica degli spaghetti tradizionali.

Un piatto di bucatini all'amatriciana (foto di stu_spivack via Flickr)
Un piatto di bucatini all’amatriciana (foto di stu_spivack via Flickr)

La loro robustezza, associata alla morbidezza del pomodoro e alla solidità dei pezzi di guanciale, genera un mix unico non sono per il palato, ma anche per i denti.

Ad Amatrice, comunque, sottolineano come la ricetta originale non prevedesse bucatini ma spaghetti e soprattutto ricordano che non è prevista cipolla, ingrediente che invece soprattutto fuori dal Lazio viene di sovente aggiunto alla ricetta.

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2. Rigatoni con la pajata

Anche qui dobbiamo subito far notare una doppia possibile grafia di questo primo piatto tipico della tradizione romana: la pagliata (o, in romanesco, pajata) è l’intestino tenue del vitellino da latte (anche se, soprattutto dopo i divieti legati al virus della mucca pazza, si è cominciato ad usare ampiamente pure quello dell’agnello).

Questo tratto di intestino viene lavato ma non privato del chimo, cioè i lattiginosi succhi gastrici dell’animale, formando così assieme al pomodoro a cui va poi mischiato una salsa particolarmente acre e forte che, oltre che a Roma, è abbastanza diffusa anche nelle altre regioni del centro Italia.

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Il tutto va poi ovviamente abbinato ad un tipo di pasta che la tradizione ha individuato nei rigatoni, cioè, com’è noto, maccheroni con delle scanalature longitudinali all’esterno.

Il piatto umile ma saporito originario del Testaccio

Secondo la tradizione questo piatto ha avuto origine nel quartiere di Testaccio, dove si trovava il mattatoio cittadino.

Era d’uso, infatti, che i lavoranti (gli scortichini) ricevessero oltre alla paga anche gli scarti della macellazione – il cosiddetto quinto quarto – tra cui appunto le interiora degli animali, le zampe e la lingua, perché poco pregiate e invendibili.

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La sagacia popolare, però, ha fatto sì che proprio gli intestini diventassero la base di un piatto sì molto saporito, ma ormai anche altamente ricercato e simbolo della tradizione romana.

Celebre, non a caso, la scena de Il marchese del Grillo in cui Alberto Sordi fa assaggiare i rigatoni con la pajata a una sua amica francese, senza dirle all’inizio quali siano gli ingredienti (e finendo però, pur di andarsene in fretta dalla locanda, per rivelarle che quella gustosa pajata, sostanzialmente, «è merda»).

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3. Coratella d’abbacchio con carciofi

Che la cucina romana sia una cucina sostanzialmente popolare e per questo amante dei gusti forti lo si capisce già dalle due ricette che abbiamo presentato finora.

D’altro canto, per tutta l’epoca moderna Roma è stata, dal punto di vista sociale e di conseguenza anche culinario, un guazzabuglio che è difficile trovare altrove: santità e peccato convivevano l’uno di fianco all’altro, così come povertà ed opulenza, gusti ricercatissimi e trivialità estrema, bellezza e bruttezza.

Roma è, come ogni grande città ma forse anche più di altre, tutto e il contrario di tutto, e forse proprio qui sta il suo particolare fascino.

Ed è ancora più evidente in cucina, dove i piatti più prelibati sono spesso derivati dagli scarti degli animali. Così è anche per la coratella, che altro non è un termine generico che serve ad indicare le interiora degli animali di piccola taglia, in particolare agnelli, conigli e pollame (mentre corata si usa per quelli di taglia maggiore).

Le interiora dell’agnello e l’amore per i gusti forti

Usata sia a Roma, sia anche – con condimenti diversi – in altre regioni del centro e del nord Italia (Umbria e Liguria in primis), la coratella è celebre nella versione dell’abbacchio con carciofi.

L’abbacchio, com’è risaputo, è nient’altro che un agnello che deve il suo nome, probabilmente, al modo in cui veniva ucciso, cioè venendo prima stordito con una bastonata sul capo (baculum in latino).

A Roma lo si gusta in una miriade di preparazioni, ad esempio alla scottadito o alla cacciatora, ma è appunto quando se ne condiscono il cuore, il polmone, il fegato e i rognoni coi carciofi che si dà vita probabilmente al piatto più famoso e apprezzato.

Nato come tipica pietanza pasquale – l’agnello era un tempo proibito al di fuori del periodo che segue alla Quaresima –, oggi è diventato un piatto comune. Viene in genere servito con mentuccia fresca spezzettata e una spolverata di pecorino.

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4. Coda alla vaccinara

La nostra “trilogia della cucina povera” si conclude con la coda alla vaccinara, altro piatto tipico che non può mancare nel menù di un ristorante romano.

Ancora una volta, infatti, dobbiamo citare il cosiddetto quinto quarto delle bestie macellate, cioè ciò che rimaneva dopo che i due quarti anteriori e i due quarti posteriori venivano messi in vendita ai ricchi.

Un piatto di coda alla vaccinara (foto di Foodista via Flickr)
Un piatto di coda alla vaccinara (foto di Foodista via Flickr)

Oltre alla già citata coratella e alla pajata, facevano parte di questa categoria anche la trippa – che a Roma viene preparata con salsa di pomodori –, i rognoni, le animelle, il cervello, la lingua e altro ancora.

E, perché no, pure la coda del bovino, in particolare del bue, che, stufata e servita con varie verdure, dà origine proprio alla coda alla vaccinara.

La regina del quinto quarto

Anche questa ricetta ha una storia antica: originata nel rione Regola, il quartiere di Cola di Rienzo in cui risiedevano tradizionalmente i vaccinari (cioè i macellai e i venditori di carne vaccina), è citata in tutti i più antichi libri di cucina romana, essendo di fatto uno dei piatti più tipici, e per lungo tempo esclusivi, della gastronomia romana.

La ricetta prevede che la coda del bue venga tagliata a pezzi in corrispondenza delle vertebre, poi cotta a lungo in casseruola assieme a strutto, lardo, aglio, carote, cipolla, sedano, chiodi di garofano, vino rosso e salsa di pomodoro, eventualmente con l’aggiunta di una salsa a base di cacao amaro, pinoli e uva passa.

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Inoltre a fine cottura si possono anche aggiungere cannella o noce moscata, a seconda dei gusti. Col sugo della coda, inoltre, è possibile condire anche i rigatoni che, con l’aggiunta del pecorino, diventano gli altrettanto tipici rigatoni alla vaccinara.

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5. Maritozzi alla romana

Dopo due primi piatti e due secondi concludiamo, com’è giusto che sia, con un dolce. Tra tutti quelli che avremmo potuto scegliere – la castagnola, le frappe, la pizza cresciuta, i bignè di San Giuseppe e altri ancora – abbiamo alla fine optato per i maritozzi alla romana.

Si tratta di un panino morbido preparato con pinoli, uva e scorza d’arancia candita che viene il più delle volte tagliato per il lungo in modo che possa essere riempito di panna montata o crema.

Anche in questo caso il piatto e il suo stesso nome affondano le loro radici nelle tradizioni romane e più in generale laziali.

Un dolce regalo per la promessa sposa

L’usanza infatti voleva che in origine i fidanzati li portassero alle promesse spose poco prima della celebrazione del matrimonio.

Le ragazze, in quell’occasione, chiamavano i loro fidanzati maritozzi, cioè quasi mariti, e da qui è derivato il nome dei dolci, che oggi si gustano prevalentemente in caffetteria, anche di mattina come elemento della colazione, ad accompagnare un cappuccino o un caffè.

In ogni caso pare che un dolce molto simile fosse conosciuto anche nell’antica Roma, visto che le cronache raccontano di pagnotte dolci ripiene di uva passa e miele, ma è nel Medioevo – quando venivano serviti durante la Quaresima, unica concessione alla gola in un periodo di digiuni – che la ricetta arriva a una definizione quasi definitiva.

La preparazione è piuttosto semplice e prevede, quasi in conclusione, anche una spennellata di uno sciroppo dolce di acqua e zucchero, che dona al composto un ulteriore elemento gustoso.

 

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