Arte greca: cinque capolavori della scultura antica

La Nike di Samotracia e le altre grandi statue dell'arte greca

Quando si pensa all’arte greca antica, il pensiero va sempre o ai grandi templi che si ergevano nelle poleis, o alle maestose statue che in genere li ornavano. In effetti, scultura e architettura sono due degli elementi più significativi di quell’era artistica, che ben seppero sintetizzare l’ideologia del tempo, fatta di equilibri, proporzioni e armonia.

In realtà però questi ricordi ci danno solo una visione parziale di quella che fu l’arte greca. Sia perché in realtà esistono periodi diversi, caratterizzati da altrettanto diversi stili e metodi realizzativi; sia perché non ci sono solo architettura e scultura, ma si svilupparono anche altre arti, decorative e non.

Oggi però vogliamo concentrarci, per dare una panoramica generale, sulla scultura. Abbiamo infatti selezionato cinque statue molto celebri e importanti, scelte all’interno di un periodo storico relativamente ampio, che va dal IV al II secolo a.C. Furono un paio di secoli in cui l’arte greca raggiunse il suo massimo splendore, creando opere memorabili.

Ovviamente, non sempre disponiamo degli originali dell’epoca, e anche quando li abbiamo questi risultano menomati o rovinati.

Ad ogni modo, il loro studio ci permette di conoscere lo stile e le capacità tecniche che si imposero nel tempo, prima che i romani venissero ad imparare, e ad emulare, i risultati raggiunti dai greci. Ecco dunque cinque statue greche da ricordare.

 

1. Doriforo di Policleto

Nella nostra lista noterete un’assenza importante, almeno tra gli scultori: quella di Fidia. Non vi dovete stupire: per quanto il più celebre scultore greco sia stato osannato per il suo stile e le sue capacità, a noi effettivamente è giunto poco delle sue opere. I suoi capolavori, di cui ci parlavano i testi antichi, sono perlopiù andati perduti.

In compenso, più o meno negli stessi suoi anni visse un altro maestro di cui abbiamo opere importanti (seppure in copia): Policleto di Argo. Suo, ad esempio, è il Doriforo che potete vedere qui sotto, che rappresenta una delle più celebri creazioni dell’arte greca.

La statua ritratta nella foto è conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e si trova lì perché fu ritrovata a Pompei, nella Palestra Sannitica, nel 1797. Si tratta di un esempio mirabile soprattutto per le proporzioni: basti pensare che la testa misura ⅛ del corpo, il busto ⅜, le gambe ½.

In questo caso come in altri che vedremo, esistono però ulteriori copie in giro per il mondo. Ad esempio se ne può ammirare una (ma senza avambracci) ai Musei Vaticani. Un’altra, largamente incompleta, è conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Infine una ricostruzione moderna è esposta al Museo Puškin di Mosca.

Il grande maestro classico

Policleto fu uno dei più grandi artisti non solo della Grecia, ma di tutta l’epoca antica. Uno scultore che seppe districarsi soprattutto col bronzo, ma che lasciò anche testimonianza scritta delle sue idee, impostando dei canoni che sarebbero durati a lungo.

Il Doriforo conservato a Napoli, copia di un'opera di Policleto (foto di Marie-Lan Nguyen via Wikimedia Commons)
Il Doriforo conservato a Napoli, copia di un’opera di Policleto (foto di Marie-Lan Nguyen via Wikimedia Commons)

Nato nel V secolo a.C., probabilmente ad Argo, fu attivo all’incirca tra il 460 e il 420 a.C. Attorno al 450 scrisse il suo celebre Canone, un trattato perduto in cui parlava delle proporzioni dell’anatomia umana, poi pienamente rispettate nelle sue statue.

A quanto pare, fu proprio realizzando il Doriforo che Policleto approfondì questi studi, effettuando una lunga serie di misurazioni anatomiche sugli atleti del tempo. In questo modo, portò a compimento il complesso studio del corpo umano avviato dai suoi predecessori, imponendo dei canoni di equilibrio e proporzione che avrebbero fatto scuola.

Nessuna sua opera è giunta fino a noi. Conosciamo però molti suoi lavori grazie alle copie che ne furono realizzate a Roma. Ad esempio suo è un celebre Discoforo oggi visibile al Louvre e il Diadumeno esposto al Museo Archeologico Nazionale di Atene.

 

2. Afrodite cnidia di Prassitele

La seconda più antica statua della nostra lista è l’Afrodite cnidia. Una scultura che oggi non abbiamo più, ma che conosciamo, anche in questo caso, grazie ad una serie di copie realizzate in epoca romana.

Copia romana dell'Afrodite cnidia di Prassitele
Copia romana dell’Afrodite cnidia di Prassitele

Ad esempio, la versione che vedete qui di fianco è conservata a Palazzo Altemps, una delle sedi del Museo Nazionale Romano di Roma. Altre copie sono conservate a Napoli, al Louvre (dove è però presente solo un torso) e al British Museum.

La scultura ci mostra la dea nuda mentre si appresta a fare un bagno rituale. Con una mano sembra prendere (o deporre) una veste, mentre con l’altra si copre il pube, come se fosse presa da una istintiva pudicizia. Il corpo è leggermente sbilanciato in avanti e a sinistra, ma l’equilibrio viene bilanciato dalla veste e da un vaso.

Il corpo sembra disegnare quasi una S, ed ha sicuramente un aspetto sinuoso per lo spettatore che lo guarda in posizione frontale. D’altronde, questa è una delle più antiche rappresentazioni di nudo che abbiamo, segno che la posizione del soggetto fu ben studiata.

Stanchi e abbandonati

L’opera è datata dagli studiosi attorno al 360 a.C. e fu realizzata da Prassitele, uno dei più importanti scultori del IV secolo a.C. assieme a Skopas – di cui parleremo a breve – e Lisippo.

Lavorò molto col marmo, come in questo caso, ma secondo le fonti adoperò anche il bronzo. Le opere in marmo, comunque, venivano probabilmente poi trattate dal pittore Nicia, che vi apponeva delle cere colorate che ne esaltavano la lucentezza.

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L’Afrodite di Cnido fu di certo il suo capolavoro, ma sono da menzionare anche il Satiro versante (il cui originale era in bronzo), l’Apollo sauroctono, il Satiro in riposo oggi ai Musei Capitolini e l’Hermes con Dioniso.

Confrontando queste statue, si nota che i suoi personaggi erano sempre ritratti in pose languide, di abbandono, quasi di stanchezza. Da qui anche il frequente uso di sostegni (tronchi o vasi) a cui le statue sembrano appoggiarsi. Questo fu percepito già dai contemporanei come un deciso cambio di prospettiva rispetto all’equilibrio di Policleto.

 

3. Pothos di Skopas

Spostiamoci ora avanti di qualche decina di anni, arrivando all’incirca al 330 a.C. Fu probabilmente realizzato in questi anni, infatti, il Pothos di Skopas, una delle poche opere che possiamo attribuire con certezza allo scultore greco.

Anche in questo caso non disponiamo dell’originale, ma solo di copie. Questi esemplari sono però addirittura una quarantina, disseminati in tutti i più prestigiosi musei d’Europa. Quello meglio conservato è probabilmente quello dei Musei Capitolini, ammirabile alla Centrale Montemartini.

Altre copie sono però conservate pure agli Uffizi (dove se ne possono ammirare addirittura due) e una al Louvre, ma senza gambe. Nella stessa Centrale Montemartini la versione più famosa è affiancata da un’altra copia, priva di testa.

La scoperta dell’emotività

Pothos era una divinità minore del pantheon greco, e rappresentava il desiderio amoroso. La posizione non caso è qui sinuosa ed arcuata. Il braccio sinistro probabilmente teneva un tirso dionisiaco, bastone adornato di edera e pampini.

Il Pothos di Skopas, uno dei grandi capolavori dell'arte greca classica (foto di Marie-Lan Nguyen via Wikimedia Commons)
Il Pothos di Skopas, uno dei grandi capolavori dell’arte greca classica (foto di Marie-Lan Nguyen via Wikimedia Commons)

Lo stile di Skopas si nota, oltre che nella postura, soprattutto negli occhi, infossati eppure trasognanti, che ben si adattano alla divinità. Come per Prassitele, anche qui la statua non starebbe in piedi da sola, così incurvata, senza un appoggio. Appoggio che è fornito dalla veste alla sinistra.

Rispetto al maestro del passato, però, qui si scorge già qualcosa di nuovo. Pothos è rappresentato in un atteggiamento pensieroso e struggente, con i caratteri espressivi ben evidenti. Fu proprio nel IV secolo, e in particolare con Skopas, che gli scultori greci iniziarono infatti ad indagare in profondità l’intimità dei soggetti, e a rappresentarla nel marmo.

Nato a Paros attorno al 390 a.C., Skopas realizzò anche grandi opere architettoniche, come il Mausoleo di Alicarnasso. Nel campo della scultura, merita di essere ricordata anche la Menade danzante, composizione molto originale conservata, in copia, a Dresda.

 

4. Nike di Samotracia di Pitocrito

Dopo tante copie, chiudiamo con qualche originale (ovviamente più tardo). Entrambe le statue che abbiamo scelto sono celeberrime, un po’ perché sono conservate nel prestigioso Museo del Louvre, un po’ perché hanno avuto un impatto culturale clamoroso, quando furono scoperte.

La Nike di Samotracia al Louvre
La Nike di Samotracia al Louvre

La prima è la Nike di Samotracia, databile tra il 200 e il 180 a.C. È una poderosa statua in marmo pario, alta quasi 2 metri e mezzo che oggi è posta in cima alla famosa scala Daru, in modo da risultare particolarmente imponente a chiunque visiti il museo parigino.

Era in origine collocata nel Santuario degli Dei dell’isola di Samotracia, vicino alla costa turca. Fu rinvenuta negli anni ’60 dell’Ottocento dal viceconsole francese, quando l’isola faceva ancora parte dell’Impero Ottomano. Fu poi acquistata e trasportata in Francia, dove venne ricostruita per quanto possibile.

La statua è infatti incompleta, com’è noto. Le mancano la testa e le braccia, ma il resto del corpo è rappresentato con un tale virtuosismo da avere comunque entusiasmato non solo gli appassionati d’arte. E da essere entrato nell’immaginario collettivo.

Il dinamismo della dea della vittoria

L’autore dell’opera è sconosciuto, ma una scritta sul basamento lascia pensare che la Nike sia da attribuire a Pitocrito, originario di Rodi e menzionato da Plinio il Vecchio. Il marmo della statua, d’altronde, proveniva anch’esso da Rodi.

Per quanto riguarda il soggetto, bisogna dire che Nike era la dea della vittoria, rappresentata con le ali e figlia di Pallante, un titano, e Stige, una ninfa.

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Nella versione marmorea la dea è mostrata mentre si posa sulla prua di una nave, probabilmente da battaglia, e che quindi va incontro al vento. Proprio quest’effetto di dinamismo genera una serie di panneggi e chiaroscuri che è stato ammirato nei secoli, quale prova della grande perizia raggiunta dai greci.

Il dinamismo è inoltre garantito dalla posa, protesa in avanti mentre la gamba sinistra rimane indietro. Le braccia, come detto, sono perdute, ma tramite alcuni frammenti rinvenuti si è ipotizzato che il braccio destro fosse abbassato e reggesse un pennone, che veniva anche appoggiato sulla spalla. Il braccio sinistro era invece probabilmente alzato e proteso.

 

5. Venere di Milo di Alessandro di Antiochia

Concludiamo, come annunciato, con un’altra statua greca originale conservata al Louvre, la celeberrima Venere di Milo. Anche in questo caso si tratta di un ritrovamento ottocentesco. Nel 1820 un contadino greco, tale Yorgos Kentrotas, la ritrovò infatti spezzata in due parti.

Inizialmente nascosta da Kentrotas, la statua fu rapidamente scoperta dalle autorità turche e poi venduta, tramite la mediazione dell’ambasciatore, a un ufficiale francese, Olivier Voutier. Venne quindi portata a Parigi nel 1821 e inserita nel Louvre, dov’è appunto conservata tuttora.

La sua popolarità si deve indubbiamente al suo pregio, di cui adesso parleremo, ma anche a fattori contingenti. In quegli anni infatti la Francia aveva dovuto restituire all’Italia la Venere de’ Medici, statua ellenistica ispirata all’Afrodite cnidia e sequestrata da Napoleone.

Per questo motivo la Venere di Milo entrò direttamente nel cuore dei francesi, a sostituire l’altro capolavoro da poco perduto.

Un’Afrodite ellenistica

La datazione dell’opera è stata, fin dai primi tempi, piuttosto difficile. All’inizio si ipotizzò che potesse essere opera di Prassitele, per la particolare posa che certamente richiamava il suo stile.

La Venere di Milo
La Venere di Milo

Poi però è divenuto evidente che l’opera era molto più tarda, risalente circa al 130 a.C. A questo punto l’autore più probabile è stato individuato – sulla base anche di un’iscrizione sul basamento – in Alessandro di Antiochia.

La tensione del corpo richiama la struttura chiasmica che in parte abbiamo già visto in Policleto. Purtroppo questo effetto è però oggi in parte assente a causa della mancanza delle braccia, su cui si è molto discusso.

Probabilmente col braccio destro la statua teneva la veste sulle gambe, mentre col sinistro – forse appoggiato su una colonna – porgeva una mela. L’episodio mitologico rappresentato potrebbe quindi essere quello della consegna del pomo dorato a Paride.

In ogni caso si nota l’atteggiamento non eroico ma naturale della dea, segno di un’opera di sicuro ellenistica. Inoltre è di particolare rilievo il panneggio della veste, molto elaborato e realistico.

 

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