Cinque atti di pacifismo nella Prima guerra mondiale

Una illustrazione sull'Europa durante la Grande Guerra

Nonostante mediaticamente le si sia sempre preferita la Seconda guerra mondiale – perché più avventurosa e con un “cattivo” più facilmente identificabile – la più tragica guerra del Novecento è stata indubbiamente la Prima, quella combattuta tra il 1914 e il 1918 tra gli Imperi Centrali e le forze dell’Intesa.

Tragica non tanto per i numeri – in quella nazifascista morirono più di 60 milioni di persone, contro i 24 milioni del precedente conflitto – quanto per l’impatto emotivo sui combattenti, con l’avvento delle trincee e della guerra di logoramento, con l’emergere del cosiddetto “fronte interno” e col volontariato di massa.

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Nell’estate del 1914, infatti, quando i venti di guerra cominciavano minacciosamente a spirare, tutta la buona gioventù europea – a Londra come a Vienna, a Parigi come a Berlino – corse ad arruolarsi in massa, desiderosa di andare a combattere in quella che pensava sarebbe stata una sorta di impresa cavalleresca; pochi, pochissimi osarono levare voci contrarie, e spesso ne pagarono le conseguenze.

Visto che gli atti di pacifismo, per quanto all’epoca nascosti e perseguiti penalmente, ci furono e meritano di essere ricordati, dedichiamo quest’articolo alla scoperta di chi, in un modo o nell’altro, seppe portare avanti le proprie idee di fratellanza in un momento storico in cui non solo erano minoritarie, ma anche pericolose.

 

Il neutralismo in Italia

Socialisti e cattolici, presto messi in minoranza

Papa Benedetto XV
Papa Benedetto XV

Come sicuramente saprete dai vostri ricordi di scuola, l’Italia non entrò immediatamente in guerra, forte dell’accordo con Austria e Germania di natura prettamente difensiva che le permetteva, quindi, di rimanere neutrale in caso di attacco austriaco.

I motivi di questa neutralità erano molti: Giolitti e i liberali conoscevano l’arretratezza militare dell’Italia e temevano gli esiti a livello sociale del conflitto, i socialisti erano tradizionalmente pacifisti e aperti alla fratellanza tra i popoli, gli irredentisti mai avrebbero voluto combattere al fianco degli austriaci.

Nella maggioranza dei casi vi erano, insomma, spesso motivi di opportunità politica più che non vere convinzioni pacifiste; le uniche eccezioni si trovavano, come detto, nel fronte socialista e in quello cattolico.

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Nel primo caso, sia il sindacato che il Partito Socialista subirono però presto delle scissioni, portate avanti da un lato dai rivoluzionari come Filippo Corridoni e Benito Mussolini, che vedevano nella guerra l’occasione per scardinare lo status quo e favorire una rivolta delle classi operaie, dall’altro dagli irredentisti come Cesare Battisti e Nazario Sauro, nati in territorio austriaco e favorevoli all’intervento con l’Intesa per l’annessione all’Italia di quelle province; nel caso dei cattolici, invece, soprattutto la frangia del cristianesimo sociale si disse sempre e a più riprese contraria alla guerra, ben consapevole del fatto che essa avrebbe portato lutti gravissimi agli strati più umili della popolazione, soprattutto quelli contadini: non è un caso che lo stesso papa Benedetto XV, eletto proprio nel settembre del 1914, si sia espresso per tutta la durata della guerra con parole molto forti contro di essa, chiamandola “inutile strage” e “suicidio dell’Europa civile”.

 

La tregua di Natale

Le feste del 1914 in trincea

Una foto degli elementi dei due eserciti nemici insieme durante il Natale del 1914, uno dei più celebri atti di pacifismo nella Prima guerra mondiale
Una foto degli elementi dei due eserciti nemici insieme durante il Natale del 1914, uno dei più celebri atti di pacifismo nella Prima guerra mondiale

Come detto, le prime settimane dopo la dichiarazione di guerra furono caratterizzate da un generale entusiasmo, con gente che scendeva in piazza e faceva festa nelle strade. Già poco tempo dopo l’inizio dei combattimenti, però, la realtà della guerra si fece strada nella mente dei combattenti: la possente artiglieria – e in particolare la mitragliatrice – impedivano l’avanzata dei soldati, le trincee erano fosse da cui non si usciva per intere settimane, ogni assalto si trasformava in una carneficina.

Oltretutto, fortissimo era il distacco tra chi combatteva e le alte sfere degli eserciti: i battaglioni erano formati da gente di campagna che spesso non sapeva leggere né scrivere e sulla quale la propaganda nazionalista non aveva nessuna presa, mentre i generali non sembravano aver colto la portata drammatica e disastrosa della guerra, spesso non badando per nulla all’alto costo umano.

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Così, i soldati finivano spesso per solidarizzare più con il nemico che stava dall’altra parte della terra di nessuno che non con i loro ufficiali, visto che le truppe dell’uno e dell’altro esercito tentavano sì continuamente di uccidersi, ma lo facevano per pura sopravvivenza, costrette e rendendosi ben conto del comune triste destino. Per questo, il primo Natale passato in trincea si trasformò, spontaneamente e un po’ ovunque, in un’occasione di tregua e festeggiamenti insieme tra gli eserciti nemici: soprattutto sul fronte occidentale, infatti, soldati dell’uno e dell’altro paese concordarono una sorta di tregua non ufficiale, iniziata intonando canti natalizi e proseguita con lo scambio di generi alimentari, sigarette, doni e perfino in qualche caso delle vere e proprie cene natalizie e partite di calcio nella terra di nessuno.

I generali ovviamente disapprovarono queste scene di solidarietà tra soldati e i governi imposero spesso la censura affinché i giornali non pubblicassero notizie sull’accaduto, che furono infatti riportate per prime solo dai quotidiani degli Stati Uniti, che all’epoca non erano ancora entrati in guerra.

 

L’obiezione di coscienza di natura religiosa

Il rifiuto di prendere le armi, i processi e le condanne

Una vignetta in cui un plotone d'esecuzione spara su Gesù
Una vignetta in cui un plotone d’esecuzione spara su Gesù

Se molti furono quelli che si arruolarono entusiasticamente nelle fila dell’esercito, non bisogna però dimenticare che un buon numero di persone, anche se effettivamente una minoranza, si rifiutarono di andare a combattere, accampando quella che oggi definiremmo un’obiezione di coscienza.

In molti casi, questo rifiuto derivava da convinzioni religiose: in fondo l’obiezione di coscienza in Occidente era stata introdotta proprio dal cristianesimo all’epoca delle persecuzioni romane, anche se poi platealmente rinnegata e dimenticata dopo l’editto di Costantino e il lento ma graduale passaggio a religione di Stato.

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Così, ad esempio, negli Stati Uniti molti appartenenti a chiese protestanti pacifiste (i Quaccheri, i Mennoniti, gli Avventisti del Settimo Giorno del Movimento di Riforma o i Testimoni di Geova) furono generalmente esentati dal servizio militare attivo e arruolati invece come barellieri o personale non combattente. Meno bene andava però agli obiettori che agivano sì per scrupolo di coscienza, ma non erano sostenuti da chiese organizzate; in molti casi ed in molti paesi si svolsero infatti processi per diserzione contro quei giovani che rifiutavano di prendere le armi: condotti da corti marziali (nonostante l’imputato a volte non fosse ancora arruolato), essi si conclusero spesso con la condanna a morte dell’obiettore, condanna che il più delle volte veniva commutata in lavori forzati ma che in taluni casi venne anche eseguita.

Negli Stati Uniti, così, molti obiettori ma anche socialisti pacifisti furono detenuti per parecchio tempo ad Alcatraz; in Russia, infine, il pacifismo di ispirazione tolstoiana fu perseguitato nei primi anni con svariati processi, ma alla fine gli eventi della rivoluzione d’ottobre e la pace firmata da Lenin risolsero indirettamente il problema.

 

Bertrand Russell in prigione

Il più famoso pacifista nella Prima guerra mondiale

Bertrand Russell durante una manifestazione pacifista negli anni '60
Bertrand Russell durante una manifestazione pacifista negli anni ’60

Quello di Bertrand Russell è un nome piuttosto famoso nella storia della logica e della matematica del Novecento: premio Nobel per la letteratura (giusto perché non esiste quello della filosofia) nel 1950, fu uno studioso di prim’ordine e un grande divulgatore, nonché il primo vero intellettuale pacifista del Novecento.

Nato nel 1872, allo scoppio della Prima guerra mondiale aveva 42 anni e un pensiero politico già pienamente formato: subito si disse contrario alla guerra e questo gli costò prima la sospensione e poi l’allontanamento dal Trinity College di Cambridge, dove insegnava. La sua attività pacifista però non si arrestò: continuò a scrivere articoli contro la guerra e a partecipare a manifestazioni, tanto da subire due processi, il secondo dei quali, nel 1918, gli costò sei mesi di detenzione nel carcere di Brixton, dal quale uscì a guerra quasi conclusa.

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Nobile di antico lignaggio e nipote di un ex primo ministro della Gran Bretagna, Russell era portatore di una voce sicuramente fuori dal coro all’interno della sua classe sociale, che non si interruppe però con la fine del conflitto: il suo pacifismo infatti restò attivo per tutti gli anni Venti e Trenta, anche se, davanti al pericolo hitleriano, dovette poi riformulare il suo pensiero in quello che lui definiva un “pacifismo relativo”, ammettendo che in certi casi eccezionali la guerra poteva essere il male minore.

Contrario a tutte le dittature, si scagliò nel dopoguerra contro la Russia staliniana e fu uno dei promotori – assieme ad Albert Einstein – delle prime richieste di disarmo nucleare; proprio una manifestazione contro la bomba atomica gli costò un’altra settimana di carcere negli anni ’60. Ormai novantenne, promosse insieme a Jean-Paul Sartre un movimento di forte critica verso la guerra del Vietnam, fondando un Tribunale di intellettuali (il Tribunale Russell) attraverso cui processare gli Stati Uniti per crimini di guerra.

 

I trattati di pace e la Società delle Nazioni

Il fallimento dei diplomatici

Il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson
Il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson

Il vero e definitivo atto di pace della Prima guerra mondiale furono, però, i trattati che vennero firmati a Parigi e la conseguente nascita della Società delle Nazioni.

Dal punto di vista filosofico, il protagonista della conferenza fu il presidente americano Woodrow Wilson, che non a caso nel 1919 fu insignito del Premio Nobel per la Pace: le sue due principali proposte furono proprio la costituzione di questa lega sovranazionale che avrebbe dovuto regolare in maniera pacifica i contrasti tra gli stati e il principio di autodeterminazione dei popoli che avrebbe dovuto indirizzare il nuovo disegno dell’Europa post-bellica.

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Le due idee, belle in linea di principio, dovettero però scontrarsi con la dura realtà: dal punto di vista pratico, infatti, l’uso del principio di autodeterminazione era quasi impossibile, sia perché nella zona dell’Europa centro-orientale le etnie erano mescolate praticamente in ogni città, sia perché tutti i vincitori volevano creare degli stati-cuscinetto in grado di arginare il pericolo bolscevico, sia perché, soprattutto, la Francia voleva ad ogni costo lo smantellamento dell’Impero germanico con la cessione di territori a maggioranza tedesca ad altri stati; inoltre, la Società delle Nazioni nacque fin da subito monca, in quanto mancava di un esercito in grado di far rispettare le sue risoluzioni e soprattutto non vi avevano aderito gli stessi Stati Uniti di Wilson, il cui Senato, a causa della strenua opposizione dell’isolazionista Partito repubblicano, rifiutò di ratificare l’ingresso nel nuovo organismo internazionale.

Di fatto, nonostante gli alti ideali e i buoni propositi, i patti di Parigi – e in particolare quello di Versailles – posero le basi di quel malcontento, di quelle pretese territoriali e di quello spirito revanscista che vent’anni dopo avrebbero portato allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

 

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