Cinque belle canzoni dei Doors

I Doors nell'ultima parte della loro carriera

Non c’è dubbio che l’epoca del rock sia stata contraddistinta da grandi successi ed altrettanto grandi cadute, e che anzi il mito della rockstar sia in fondo tutto basato su quest’ambivalenza: come cantava Neil Young, «it’s better to burn out than to fade away», frase che non a caso era citata anche nella lettera d’addio di Kurt Cobain. D’altronde, la storia del rock – intendendolo in senso ampio, anche extramusicale – è piena di gioventù bruciate, di divi rapidamente assurti ai vertici delle classifiche e poi consumati dal loro stesso successo, di ragazzi capaci di cambiare il mondo ma incapaci di tenere in piedi loro stessi.

Uno dei primi a fare questa fine e contemporaneamente a diventare una leggenda della musica è stato Jim Morrison, il leader dei Doors, di cui tra l’altro proprio un paio di gironi fa cadeva l’anniversario della morte, avvenuta a Parigi il 3 luglio 1971. Appartenente a quella schiera di rocker che sembravano tutti capaci di rivoluzionare la società salvo poi morire a ventisette anni esatti (oltre a lui, in quegli stessi mesi scomparivano a quell’età Brian Jones dei Rolling Stones, Jimi Hendrix e Janis Joplin), Morrison morì in circostanze mai del tutto chiarite, ufficialmente per infarto ma probabilmente per un’overdose, forse da eroina.

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Comunque siano andate le cose, col suo gruppo ci ha lasciato alcune pietre miliari del rock che ci piace ricordare oggi con un articolo dedicato a cinque belle canzoni dei Doors.

 

Break on Through (To the Other Side)

da The Doors, 1967

Molto spesso le band hanno bisogno di un periodo di rodaggio, di una fase in cui mettere a punto il loro stile, la loro sintonia, il loro sound. Raramente riescono a trovare il successo all’esordio, e ancora più raramente l’esordio riesce in qualche modo a rappresentare quello che la band diventerà.

Questo, però, non è accaduto con Break on Through, primo singolo della storia dei Doors e primo brano del loro album d’esordio, The Doors, datato gennaio 1967: la canzone, infatti, è senza ombra di dubbio uno dei pezzi più emblematici di Morrison e compagni, sia per la commistione di generi (la melodia principale è influenzata da toni blues e rock, mentre si scorgono influenze addirittura bossa nova nel giro di basso e nella batteria, e nell’arrangiamento compare pure l’organo), sia per i riferimenti abbastanza espliciti alla droga contenuti nel testo e comunque a tratti censurati dalla casa discografica, che modificò il she gets high pronunciato più volte da Morrison in un più innocuo she gets.

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Di per sé il singolo non fece grande scalpore, arrivando solo alla posizione 126 della classifica americana, ma diventò subito un pezzo forte delle esibizioni dal vivo; anche nel film biografico diretto da Oliver Stone il brano è eseguito addirittura tre volte, in tre momenti diversi, ma lo si può sentire anche in decine di altre pellicole ed episodi TV (tra tutti, Forrest Gump, quando il protagonista gioca a ping pong) tanto forte è stata la sua influenza culturale.

 

Light My Fire

da The Doors, 1967

Su Light My Fire abbiamo già scritto qualcosa quando abbiamo parlato, tempo fa, dei più importanti assolo di pianoforte, visto che l’organo di Ray Manzarek meritava sicuramente una menzione d’onore. Ma Light My Fire – sesto brano sempre di The Doors ed in particolare quello che chiudeva il lato A del disco – era più di un assolo: uscito come secondo singolo dei Doors a tre mesi di distanza dal primo, arrivò fino in vetta alla classifica, ribaltando completamente il mezzo flop di vendite di Break on Through.

Un cambiamento così radicale nei gusti del pubblico era però difficile da spiegare: Light My Fire, infatti, non faceva altro che sviluppare gli stessi presupposti del brano che l’aveva preceduto, cioè inserire, in una base tipicamente blues-rock, influenze che spaziassero dall’acid jazz alla psichedelia, per creare qualcosa di veramente nuovo, una fusion ante litteram.

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Come scritto già altrove, il brano era una vecchia composizione incompiuta del chitarrista Robby Krieger, che poi gli altri membri della band avevano deciso di riprendere in mano e provare a concludere, con Morrison che si era in particolare incaricato di scrivere la seconda parte della canzone.


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Tra l’altro, due sono le curiosità legate a Light My Fire: la prima riguarda l’esibizione che la band tenne in diretta TV al popolarissimo Ed Sullivan Show, in cui era stato chiesto di cambiare il verso girl, we couldn’t get much higher (ancora un riferimento alla droga) in girl, we couldn’t get much better, ma Morrison, dopo aver accettato la proposta, durante l’esibizione live pronunciò il verso originale, mandando su tutte le furie i produttori; la seconda, invece, riguarda lo spot che la Buick voleva girare con questa canzone (Come on, Buick, light my fire), proposta a cui tutti i membri della band risposero positivamente, tranne Morrison perché assente in Europa, ma che venne bloccata proprio da Morrison quando tornò in patria, visto che per ripicca minacciò di sfasciare una Opel (controllata della General Motors e quindi della Buick) in diretta TV.

 

The End

da The Doors, 1967

In genere, quando presentiamo una band che comunque ha sfornato un certo quantitativo di dischi, cerchiamo di scegliere dei pezzi tratti da album diversi, così da dare anche una panoramica il più possibile completa dell’evoluzione lungo il tempo della cifra stilistica del gruppo. Nel caso dei Doors, però, non siamo riusciti a non dare ampio spazio al loro disco d’esordio, se non altro perché in fondo qui erano già disseminati tutti gli elementi che avrebbero contraddistinto la loro (purtroppo breve) carriera.

L’undicesimo ed ultimo brano di quell’album era infatti The End, canzone che era nata durante i primi concerti, con un testo che variava di volta in volta grazie all’improvvisazione di Morrison.

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Anche questo brano esemplifica bene le varie influenze che attraversavano la poetica del leader dei Doors, soprattutto quando invitava l’ascoltatore a uccidere il padre e fare sesso con la madre: reminiscenze freudiane si mescolavano alla tragedia greca, in un’atmosfera dai forti contorni provocatori secondo la lezione che Morrison aveva appreso dai poeti maledetti francesi, suoi costanti punti di riferimento.

Anche se queste ultime parole in particolare furono censurate nella versione discografica – coperte dal volume degli strumenti in fase di mixaggio – esse sono state recuperate in varie versioni live del brano e soprattutto in Apocalypse Now, il celebre film di Francis Ford Coppola che ha dato alla canzone una seconda giovinezza: nel film, uscito nel 1979, The End infatti compare sia all’inizio che alla fine, in un remix creato appositamente per la pellicola in cui viene enfatizzata la traccia vocale e il finale risulta in crescendo, restituendo al brano probabilmente un aspetto che sarebbe molto piaciuto anche allo stesso Morrison.

 

Roadhouse Blues

da Morrison Hotel, 1970

Dopo esserci soffermati a lungo sull’esordio discografico dei Doors, passiamo finalmente a un altro album, Morrison Hotel, il quinto della band in appena tre anni di lavoro. Dopo il disco di cui abbiamo già ampiamente parlato, datato gennaio 1967, a settembre era infatti uscito Strange Days, seguito nel 1968 da Waiting for the Sun e l’anno dopo da The Soft Parade, album che erano stati in generale molto apprezzati dal pubblico, anche se forse privi di singoli di così grande impatto.

L’unico che aveva fatto un po’ storcere il naso a qualcuno era stato Waiting for the Sun, giudicato troppo sperimentale, e infatti Morrison Hotel segnò un tentativo di tornare alle basi musicali della band, con arrangiamenti più curati e una commistione di blues e rock.

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Ad aprire l’album – e a mettere in chiaro le cose fin da subito – era Roadhouse Blues, primo pezzo del lato del disco che i Doors intitolarono Hard Rock Café e che poi ispirò i fondatori della celebre catena di ristoranti: un brano che non sfondò affatto nella classifica dei singoli ma divenne ancora una volta un pezzo irrinunciabile dei concerti, grazie da un lato alle capacità strumentali dei componenti del gruppo (che, per una volta, vale la pena citare al completo: oltre a Jim Morrison alla voce, c’erano Ray Manzarek alle tastiere, Robby Krieger alla chitarra e John Densmore alla batteria, più qualche sporadico amico ingaggiato per l’occasione, come in questo caso Lonnie Mack al basso e John Sebastian – sotto lo pseudonimo di G. Puglese – all’armonica), dall’altro al solito istinto provocatorio di Morrison, che qui è forse meno affilato del solito nel creare le proprie liriche ma non manca di mettere in imbarazzo il sentire comune.

Tra l’altro, secondo Manzarek il testo faceva in origine riferimento a una sorta di letargo di tre settimane indotto in Morrison dall’abuso di droga; così, il verso «Well, I woke up this morning, I got myself a beer» doveva essere in origine «Well, I woke up this morning, I got myself a beard».

 

L.A. Woman

da L.A. Woman, 1971

Chiudiamo con la title-track di quello che è stato l’ultimo album pubblicato dai Doors con Morrison ancora vivo, visto che fu messo in vendita il 19 aprile del 1971 mentre il cantante sarebbe stato trovato morto, come già detto, nemmeno tre mesi dopo, nel luglio dello stesso anno.

Il pezzo forte, almeno a livello radiofonico, era indubbiamente Riders on the Storm, che chiudeva l’album e che è diventato di diritto uno dei più epici brani dei Doors, ma noi per la nostra cinquina abbiamo preferito scegliere L.A. Woman, la lunga canzone di quasi 8 minuti che faceva finire il lato A del vinile; e l’abbiamo fatto perché si tratta a nostro avviso di un brano ben diverso dalla precedente produzione di Morrison, non tanto nelle sonorità – si tratta pur sempre di un blues, il genere preferito dal cantante e dalla sua band – quanto nell’atmosfera generale e, di conseguenza, nel tema.

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Morrison, per una volta, abbandonava le solitarie lande americane e la droga delle lunghe e polverose strade e parla invece di Los Angeles, la sua città d’adozione, con le sue luci e le sue ombre. Non c’era più quel cupo e autodistruttivo sguardo sull’America e sulla propria vita, ma, sull’aria di una musica che invece suonava quasi allegra, Morrison s’interrogava con nostalgia su una donna di Los Angeles, chiedendosi se fosse una piccola donna fortunata della città della luce o un altro angelo perduto della città della notte.

Insomma, Los Angeles, città vacua e insieme tremenda così come in fondo era lo stesso Jim Morrison, veniva qui salutata prima del trasferimento a Parigi, in un periodo in cui i collassi nervosi anche durante i concerti erano all’ordine del giorno e quell’ambivalenza tra depressione e sballo si faceva sempre più pesante. E non è un caso che il brano contenga una lunga ripetizione del verso «Mr. Mojo risin’, Mr. Mojo risin’», anagramma del nome del cantante che, forse, lasciava presagire un ultimo disperato tentativo di risalire, risorgere dalle proprie ceneri, trovare un equilibrio nella propria vita.

 

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