Cinque belle poesie di Andrea Zanzotto

Andrea Zanzotto, autore di alcune tra le più belle poesie del Novecento

Quando conobbi Andrea Zanzotto era fine marzo del 2011 e io mi ero laureata da due settimane con una tesi “di ricerca” (dicono così in ambito accademico) proprio su di lui. Sono stata fortunata, non sono molti gli studenti di lettere che possono dire d’aver parlato con il loro autore e di essersi sentiti dire che sì, c’avevano visto giusto nelle loro supposizioni.

Che emozione, quel giorno. Quante anime affini erano intorno a me e con me condivisero quell’esperienza. Riuscii a conoscere Andrea perché il primo che aveva fatto la tesi su di lui era il mio Professore, divenuto poi suo grande amico. Quel Professore di cui, lo svelo, parlerò più avanti.

Quando conobbi Zanzotto aveva quasi 90 anni, era un vecchietto minuto ma con una presenza che ancora oggi mi mette in soggezione. Quando andai da lui era seduto sul divano con in mano un giornale russo, scritto in cirillico, e non si dava pace perché non riusciva a capire bene: sì, a 90 anni stava cercando di imparare il russo.

Non vi tedierò con la biografia (consultabile facilmente digitando il suo nome su Google), ma vi dirò che Zanzotto (poeta veneto, di Pieve di Soligo) è stato senza dubbio uno dei maggiori poeti della seconda metà del Novecento. Lo è, quasi sicuramente, perché non è facile definirlo.

Non gli si può attribuire un’etichetta, non lo si può fare portabandiera di un movimento o di una corrente.

Dal dialetto veneto ai neologismi, dal registro alto a quello d’osteria, dal racconto delle piccole cose a quello dei grandi avvenimenti, passando per la nevrosi (da cui era affetto), la morte, il tempo, la patria, i ricordi. La poesia di Zanzotto è tutto questo e molto di più.

 

1. Al di là

da Dietro il paesaggio, 1951

Dietro il paesaggio è la raccolta d’esordio di Zanzotto, un libro che raccoglie molte poesie scritte nel periodo bellico ma che non parlano di guerra.

Una sorta di rimozione dei fatti dalla memoria letteraria. Al di là è uno scherzo, è una poesia giocosa che parla di una contadinella descrivendola come una sorta di divinità campestre, nello stile che contraddistingue le prime opere di Zanzotto.

Al di là tu falci e componi
Le gentil somiglianze dei fiori
Al di là non è sazia
Mai la tua fame di bambina
Ed hai la mela e il ghiaccio vegetale,
là ti punge al polso la tua bussola
per indicarti la stella
ch’è il tuo vero gemello;
perché tu possa conoscere
colli piccoli come noci
per i tuoi denti giocosi,
soli come voli di vespe
e parole che suonano come monete;
e tu prepari al vento l’ora
delle più grandi altezze
delle più vivide seminagioni
delle tue visite che innamorano
È per te che la gioia dei paesi
Liberamente va imitando
I tuoi semplici atti;
e per te questa terra non è
che un mite minuto satellite
che ben sa dove si dirige.

 

2. Da un eterno esilio…

dall’Appendice dell’edizione del 1981 di Vocativo, 1957

Vocativo è senza dubbio uno dei punti fermi della produzione zanzottiana perché, in un certo senso, segna una rottura con ciò che c’era prima. Il linguaggio inizia la metamorfosi che lo porterà a disintegrarsi e ricomporsi più volte nel corso di tutta la poesia di Zanzotto e i temi si fanno più “psichici”.

L’io di Zanzotto si mostra nella sua problematicità (era affetto da nevrosi e disturbi del sonno). Questa poesia è stata aggiunta a Vocativo solo nel 1981 (ma è stata scritta tra il 1953 e il 1955), con la riedizione dell’opera corredata da un’appendice di sei poesie.

Da un eterno esilio
eternamente ritorno

e coi giorni mi volgo e mi confondo,
vado, da me sempre più lontano,
divelto per erbe prati e tempi
d’ottobre
e silenzi confidati agli orecchi
da stelle e monti.

 

3. Nautica celeste

da IX Ecloghe, 1962

IX Ecloghe è senza dubbio una delle opere più interessanti della produzione di Zanzotto. Composta in perfetto stile medievale, riprende la poesia pastorale antica, insinuando nell’ideale paesaggio dell’Arcadia letteraria i segni della modernità e del mondo industrializzato.

Un contrasto evidente tra il formalismo classico di gusto medievale e il surrealismo moderno in bilico tra frantumazione del linguaggio e ironia. Nautica celeste è la lirica che accompagna la II Ecloga.

Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza.

 

4. L’Elegia in petèl

da La Beltà, 1968

La Beltà è probabilmente una delle raccolte più conosciute di Zanzotto, perché con essa il poeta raggiunge la piena maturità linguistica. Dire di cosa parli il libro non è facile: racconta di come le parole non abbiano più senso in quanto associate ad un significato, ma di come ce l’abbiano solo per il fatto d’esistere.

È il linguaggio stesso il protagonista dell’intera raccolta, composta negli anni del boom economico italiano.

Il linguaggio è usato e sperimentato: figure retoriche, accostamenti stravaganti, registri ed ambiti semantici totalmente diversi accostati e fatti convivere all’interno dello stesso verso.

Il petèl della poesia è il linguaggio che si usa con i bambini quando sono molto piccoli: attraverso questo il poeta prova a rinascere, a trovare il senso profondo della parola. Il linguaggio bambinesco, quindi, diventa simbolo di dialogo autentico: quello tra madre e figlio che non si perde in parole inutili, ma che comunica l’essenziale.

E, per tornare a quanto si diceva poco sopra, al petèl infantile, accosta Hölderlin, poeta tedesco famosissimo, a cui Zanzotto, per diverse ragioni, si sentiva molto vicino.

Dolce andare elegiando come va in elegia l’autunno,
raccogliersi per bene accogliere in oro radure,
computare il cumulo il sedimento delle catture
anche se da tanto prèdico e predico il mio digiuno.
E qui sto dalla parte del connesso anche se non godo
di alcun sodo o sistema:
il non svischiato, i quasi, dietro:
vengo buttato a ridosso di un formicolio
di dèi, di un brulichio di sacertà.
Là origini – Mai c’è stata origine.
Ma perché allora in finezza e albore tu situi
la non scrivibile e inevitata elegia in petèl?
“Mamma e nona te dà ate e cuco e pepi e memela.
Bono ti, ca, co nona. Béi bumba bona. È fet foa e upi”
Nessuno si è qui soffermato – Anzi moltissimi.
Ma ogni presenza è così sua di sé
e questo spazio così oltrato oltrato… (che)
«Nel quando ║ O saldamente costrutte Alpi
E il principe ║ Le »
appare anche lo spezzamento saltano le ossa arrotate:
ma non c’è il latte petèl, qui, non il patibolo,
mi ripeto, qui no; mai stata origine mai disiezione.
Non spezzo nulla se non spezzato ma súbito riattato,
spezzo pochissimo e do imputazione – incollocabili –
a mimesi ironia pietà;
qui terrore: ma ridotto alla sua più modica modalità.
Per quel tic-sì riattato, così verbo-Verbo,
faccio ponte e pontefice minimo su
me e altre minime faglie.
L’assenza degli dèi, sta scritto, ricamato, ci aiuterà
– non ci aiuterà –
tanto l’assenza non è assenza gli dèi non dèi
l’aiuto non è aiuto. E il silenzio sconoscente
pronto a tutto,
questo oltrato questo oltraggio, sempre, ugualmente
(poco riferibile) (restio ai riferimenti)
(anzi il restio, nella sua prontezza):
e il silenzio-spazio, provocatorio, eccolo in diffrazione,
si incupisce frulla di storie storielle, vignette
di cui si stipa quel malnato splendore, mai nato,
trovate pitturanti, paroline-acce a fette e bocconi, pupi,
barzellette freddissime fischi negli orecchi
(vitamina A dosi alte per trattarli
ma non se sono somatismi di base psichica),
e lei silenzio-spazio
e lei allarga le gambe e mostra tutto;
vedo il tesissimo e libertino splendore
e il fascino e il risolino e il fatto brutto
e correre la polizia e – nel vacuum nell’inane
ma raggiante – il desiderio di denaro fresco si fa più ardente
di dominio fresco di ideologia fresca;
anzi vedo a braccetto Hölderlin e Tallémant des Réaux
sovrimpressione sovrimpressiono
ma pure
ma alla svelta
ma tutto fa brodo
(cerchiamo, bambini, di essere buoni
nel buon calore, le tue brune tettine,
il pretestuarsi per ogni movimento
in ogni momento,
calore non mai tardo nel capire
come credono “certe persone”
anzi astuto come uno di voi
quando imbroglia grilli erbe genitori,
sappiate scrivere ma non leggere, non importa,
iscrivetevi a, per, pretestuarvi all’istante)
ma: non è vero che tutto fa brodo,
ma: e rinascono i ma: ma
Scardanelli faccia la pagina per Tallémant des Réaux,
Scardanelli sia compilato con passi dell’Histoire d’O.
Ta bon ciatu? Ada ciòl e úna e tée e mana papa.
Te bata cheto, te bata: e po mama e nana.

“Una volta ho interrogato la Musa”

 

5. Così siamo

da IX Ecloghe, 1962

Ho provato a non inserire questa poesia, ma non si può. Per quanto sia dura fare una cinquina di poesie del proprio poeta preferito, non lo può essere quanto scegliere se mettere quella a cui si è più legati per paura di non essere oggettivi.

Ma, d’altra parte, quale cinquina lo è del tutto? Capitò, poco dopo la morte di Zanzotto, che venne a mancare il mio Maestro, il Professore (le maiuscole sono volute), la persona che per prima, in ambito accademico, aveva creduto in me, facendomi scoprire le poesie di Zanzotto, suo amico.

Quando morì (mamma mia, dopo vari anni è ancora strano dirlo) l’unico modo in cui riuscii a salutarlo fu con questa poesia. Zanzotto la scrisse per la morte del padre, io la dedicai al Professore che mi fece decidere di continuare credere nel sogno di poter insegnare. Oggi, come allora, la dedico a Lui, ovunque sia.

Dicevano, a Padova, “anch’io”
gli amici “l’ho conosciuto”.
E c’era il romorio d’un’acqua sporca
prossima, e d’una sporca fabbrica:
stupende nel silenzio.
Perché era notte. “Anch’io
l’ho conosciuto”.
Vitalmente ho pensato
a te che ora
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
e che per quanto s’affondino
gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza

E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m’avvicini.

 

E voi, quale poesia di Andrea Zanzotto preferite?

Ecco cinque belle poesie di Andrea Zanzotto: vota la tua preferita.

 

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1 COMMENTO

  1. SYLVA
    Finita, ieri, il mio cuore ti disse.
    E ancora inizio non avevi
    e ancora mai nell’inizio non sei
    e sempre sei l’annuncio dell’inizio.
    Intatta, vigoreggiante pietra.
    Mondi, furore nitido,
    piaghe innumeri eccelse.
    Corpi e occhi in scrigni e culle, corpi
    candidi, cellule
    di attive nevi,
    mobili corpi tenerezza
    alla mano, terrore
    all’anima, fucate
    fosforescenze su tormenti e faglie. Io
    io vi richiamo, io sono.
    Ancora tutto: altre iridate sapide
    tentacolate psichi,
    altre macerie infestate di semi,
    altri misteri inesplosi, tutto
    ancora
    tutto da consumare e da servire.
    Non ha inizio l’amore.
    «Or volge l’anno, sovra questo colle …»
    E fronde cupe cupo nel fondo
    del bosco, dell’unico bosco
    del bosco eterno mi fanno mi vivono
    mi stormiscono in mille
    diversi cupi cori.
    (da “IX Ecloghe”)

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