Cinque cose da sapere sul patrimonio di Donald Trump

Donald Trump: tutto quello che c'è da sapere sul suo patrimonio

 
Per qualche mese abbiamo riso dell’ennesima bizzarria della politica: Donald J. Trump, imprenditore vulcanico e un po’ kitsch, si candidava alla presidenza degli Stati Uniti. Una notizia che, da questa parte dell’Oceano, ha fatto sorridere molti di noi, convinti che il personaggio fosse troppo “sui generis” per ottenere davvero la nomination. D’altronde, due precedenti tentativi – nel 2000 col Partito della Riforma e nel 2012 col Partito Repubblicano – non erano andati a buon fine oppure neppure formalizzati per via di sondaggi troppo negativi.

Ora, però, molti di noi si sono ricreduti. Perché anche se i sondaggi danno al momento Trump in svantaggio rispetto a Hillary Clinton, è anche vero che la sua elezione è una possibilità concreta. D’altronde, ha conquistato la nomination del Partito Repubblicano andando contro l’intero apparato del partito e battendo ogni record di voti, almeno alle primarie. E la sua imprevedibilità rappresenta una mina vagante, che potrebbe anche ritorcersi contro di lui ma allo stesso modo potrebbe garantirgli un sorprendente successo.

Hillary Clinton contro Donald Trump

Insomma, i prossimi mesi saranno decisivi. La situazione, però, almeno a livello di personaggi e di campagne elettorali pare già chiara. Da una parte, appunto, Hillary Clinton, già first lady e Segretario di Stato, che porta avanti un programma moderato, che ha scontentato qualcuno all’interno del suo partito. Dall’altro Donald Trump, un imprenditore che punta tutto sull’idea di grandezza americana, sul rifiuto dei limiti sulle armi, sul non innalzamento delle tasse e sulla lotta all’immigrazione.

Se però la vita della Clinton ci è fin troppo familiare, non sappiamo moltissimo di quella di Trump. Da dove viene quest’uomo? Come ha fatto il proprio denaro? Ed è davvero un imprenditore di grande successo, come lui – aiutato anche da programmi TV come The Apprentice – tende a sottolineare? Qual è il suo patrimonio e quali sono stati i suoi trionfi e le sue sconfitte in campo economico? Scopriamolo assieme.

 

La disputa sull’ammontare del suo patrimonio

Le cifre di Forbes e quelle di Trump

Donald Trump all'interno della sua faraonica Trump TowerVisto che parliamo di denaro, partiamo subito dal punto focale della questione: a quanto ammonta il patrimonio di Donald Trump? Ce lo chiediamo non tanto per cupidigia o mera curiosità, ma perché sulla questione negli ultimi mesi si è sollevato in America un certo dibattito. Ed in effetti saperlo è importante: non tanto perché chi è ricco sia più bravo a governare di chi non lo è, ma per capire realmente quale sia il talento imprenditoriale di Trump, rapportato al denaro – di certo non poco – con cui ha iniziato la sua carriera.

La rivista Forbes, che è un’autorità nel settore, mette attualmente Donald Trump al 324° posto della sua classifica sugli uomini più ricchi del mondo. Il patrimonio netto che la rivista gli attribuisce è infatti di 4,5 miliardi di dollari. «Avercene!», direbbero molti di noi. Ma a Trump non va giù. Come non gli va giù la stima di Bloomberg, che addirittura di miliardi gliene attribuisce solo 3.

Le esagerazioni di Donald

Nel giugno 2015, poco prima di rendere nota la sua candidatura, il magnate americano ha quindi diramato un comunicato stampa. In cui affermava che una compagnia «tra le più accreditate del settore» aveva fatto una nuova stima dei suoi averi, valutando il suo patrimonio attorno agli 8,737 miliardi di dollari. Più del doppio di quanto sostenuto da Forbes. La rivista, dal canto suo, ha risposto al comunicato definendolo «un’esagerazione al 100%».

Gran parte di quest’ultima cifra – che Donald Trump continua a sventolare nei comizi e nelle interviste TV – risiederebbe nella supervalutazione del “brand” Trump, il cui valore viene addirittura stimato attorno ai 3,3 miliardi di dollari. Nel frattempo, però, gli organismi federali che sono chiamati a valutare il patrimonio dei vari candidati hanno tentato di mettere la parola fine alla questione, affermando che il patrimonio di Donald Trump è di circa 1,4 miliardi di dollari, cioè meno della metà di quanto proposto da Forbes. Nel conto, ci sarebbero anche debiti per 265 milioni di dollari.


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Ma anche in questo caso Trump non si è lasciato impressionare. Nonostante continui a riportare grandi cifre – il suo ufficio elettorale ha parlato in un comunicato anche di 10 miliardi di dollari di patrimonio – ha anche ammesso che in passato ha spesso esagerato con i numeri. E l’ha fatto volutamente. Anche perché queste esagerazioni si sono spesso rivelate una panacea per gli affari. Ora, la scommessa è farle funzionare anche in politica.

 

L’eredità paterna

Gli esordi nel campo immobiliare

Donald con il padre, Fred Trump, primo tassello nella costruzione del suo patrimonioChe abbia in tasca 9 miliardi di dollari o che ne abbia “solo” 3, poco cambia, in realtà: sono comunque un sacco di soldi. Come ha fatto Donald Trump a racimolarli? Come li ha guadagnati? Per capirlo bisogna partire da lontano, e cioè dalla metà degli anni ’60. A quel tempo il giovane Donald aveva una ventina d’anni e frequentava la Wharton School dell’Università della Pennsylvania, una prestigiosa Business School in cui, tra gli altri, hanno studiato anche i nostri Corrado Passera e Ignazio Visco.

Il padre di Donald, Fred, era un immobiliarista newyorkese. Lavorava soprattutto a Brooklyn, nel Queens e a Staten Island, quartieri residenziali in cui costruiva grandi complessi di case per la classe media. Donald era il suo figlio più piccolo e, pare, più vezzeggiato. Proprio forte di questa stima, il ragazzo provò durante i suoi studi a elaborare un progetto per la Elizabeth Trump and Son, l’azienda paterna. Prese i 1.200 appartamenti di un complesso in cui il padre aveva investito a Cincinnati e con un investimento di mezzo milione di dollari azzerò il tasso di case sfitte, che prima era invece del 66%.

Partire con 200.000 dollari (e un padre milionario alle spalle)

Il successo ottenuto con questa prima prova fece sì che, una volta laureato, il padre gli desse mano libera negli affari. Donald partì, a quanto lui afferma, con solo 200.000 dollari, perdendone tra l’altro subito 70.000 in un infruttuoso investimento a Broadway. Pian piano, però, alcune mosse con gli appartamenti già esistenti a New York gli permisero di acquisire capitali e di tentare quello che era diventato il suo chiodo fisso: sbarcare a Manhattan.

 

I proficui affari col Comune di New York

Come costruì la sua fama a Manhattan negli anni ’80

La Trump Tower a ManhattanGli appartamenti del padre nei quartieri popolari, infatti, poco si addicevano ai progetti di Donald Trump. Il giovane uomo d’affari voleva farsi un nome e non dover sempre questionare – come invece gli era accaduto nei primi anni – per affitti non pagati e cause intentategli da elementi delle classi sociali più umili. E l’affare che gli permise di compiere questo passo fu quello del Commodore Hotel.

Questo albergo si trovava a Manhattan ed era di proprietà della Penn Central Transportation Company, società che gestiva varie linee ferroviarie da New York alla Pennsylvania. Negli anni ’70 tale compagnia fallì miseramente, facendo registrare la più grande bancarotta mai prodotta fino ad allora negli Stati Uniti. I beni furono venduti a prezzi molto favorevoli e questo hotel se lo accaparrò Trump.


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Anche se il costo era abbattuto, il giovane Donald non aveva però i fondi per pagare il grande ma vecchio albergo. Per questo ricorse al denaro del padre – che preferì rimanere nell’ombra, per via di alcune inchieste giudiziarie in corso su di lui – ed ottenne pesanti prestiti garantiti sempre dal genitore. Ma la mossa migliore fu quello che ottenne dal Comune. Il giovane Trump negoziò infatti un accordo di esenzione per quarant’anni dalle tasse comunali per il nuovo hotel in cambio di una partecipazione agli utili.

Dal Grand Hyatt Hotel alla Trump Tower

Nacque così il Grand Hyatt Hotel, posizionato strategicamente vicino alla Grand Central Station. Ma quello non fu l’unico affare ingegnoso che Trump realizzò grazie all’appoggio del Comune. Emblematico è il caso della Trump Tower, la più celebre costruzione del suo impero, un grattacielo di 58 piani che sorge sulla Fifth Avenue di Manhattan. Per costruirla utilizzò molti fondi, ma il suo talento di negoziatore fu importante soprattutto nell’ottenere tutti i permessi necessari dalla città di New York.

Infine, l’ultima mossa con cui si ingraziò definitivamente il Comune fu quella del Wollman Rink. Questa è una storica pista di pattinaggio su ghiaccio che sorge a Central Park. Nel 1980 la pista venne chiusa perché necessitava di lavori. Il Comune li aveva dati in appalto a una ditta non legata a Trump, che aveva promesso di completarli in due anni e mezzo al costo di 9,1 milioni di dollari. Nel 1986, sei anni dopo, erano però già stati spesi 13 milioni di dollari e i lavori non erano ancora finiti.

Trump, che aveva voglia di ingraziarsi i newyorkesi, strinse un accordo col sindaco democratico Ed Koch. Per questo subentrò nei lavori, che ultimò in quattro mesi al costo di 2,5 milioni di dollari. Fu una mossa mediatica importante per la costruzione della sua popolarità. E la ciliegina sulla torta fu la decisione di cedere per un anno tutti i profitti della pista a organizzazioni caritatevoli.

 

Le imprese sportive

Football americano, boxe, wrestling

Un giovane Trump con Herschel Walker, stella del football universitario ingaggiata dai suoi GeneralsIl desiderio di non rimanere confinato al campo immobiliare fu costante in Trump fin dai primi anni ’80. Tutta la sua carriera imprenditoriale, infatti, può essere letta come il tentativo di rendere profittevole il marchio “Trump”, come lui stesso ha ammesso più volte. E per farlo doveva passare a settori di sicuro impatto mediatico. Primo fra tutti, quello sportivo.

Da questo punto di vista, Donald Trump è un businessman molto italiano. Nel nostro paese, infatti, è normale che un imprenditore che voglia acquisire potere e cementare il suo impero inizi ad investire nel calcio, perché il calcio garantisce forza politica e sociale. A partire dagli anni ’80, Trump ha provato a fare lo stesso con il football americano, la boxe e, in parte, il wrestling.


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L’impresa più eclatante – e più fallimentare – fu la prima. Nel 1983 acquistò la squadra di football dei New Jersey Generals, da poco formata per partecipare a un nuovo campionato appena creato, la USFL (United States Football League). L’idea era quella di contrastare il dominio della NFL, la principale lega professionistica, i cui profitti stavano in quegli anni decollando. La USFL – le cui partite furono all’epoca trasmesse anche in Italia – giocò le prime tre stagioni in primavera, quando la NFL non scendeva in campo.

La sfida di Trump alla NFL

Per il 1986, però, Trump cercò di forzare uno scontro più aperto. Dopo aver fatto fondere la sua squadra con gli Houston Gamblers e aver creato così un super-team che avrebbe probabilmente dominato la USFL, convinse gli altri proprietari a spostare il calendario della stagione in autunno. L’obiettivo era togliere spettatori alla NFL, in modo da costringere la lega principale ad accogliere l’idea di una fusione tra i due campionati. Con una fusione, infatti, il valore delle squadre dell’USFL sarebbe cresciuto enormemente.

Non accontentandosi, Trump ne fece anche un’altra delle sue. Convinse infatti i proprietari a far causa alla NFL per violazione delle leggi antitrust e abuso di posizione dominante. La causa si svolse prima dell’inizio della stagione e vide il giudice dar ragione alla USFL. Lo stesso giudice, però, ritenne che la richiesta di danni di questa lega – quasi 2 miliardi di dollari – fosse completamente irreale e ne accordò una simbolica di circa 3 dollari. Sì, avete letto bene: dollari, non milioni di dollari.

Già pesantemente indebitata per aver strapagato i propri atleti pur di sottrarli all’NFL, la USFL si sciolse subito dopo, non facendo nemmeno partire la stagione della grande sfida. Qualche anno dopo Trump tentò di comprare i Buffalo Bills, importante squadra della NFL, ma l’affare non andò in porto.

L’incontro tra Mike Tyson e Michael Spinks

L’imprenditore, però, non si è rivolto solo al più seguito sport americano. Nei suoi casinò di Atlantic City ha infatti ospitato alcuni dei più importanti incontri di boxe di fine anni ’80. Il più celebre è quello tra Mike Tyson (di cui era anche consigliere economico) e Michael Spinks che si svolse nel giugno del 1988. L’incontro, valevole per il titolo di campione del mondo dei pesi massimi, fu il più ricco della storia della boxe fino ad allora, visto che furono incassati 70 milioni di dollari. Lo vinse Tyson in appena 91 secondi.

Infine, una parola sul wrestling. Fin dai primi anni ’90 Trump – amico del proprietario della WWE Vince McMahon – ha iniziato ad ospitare ad Atlantic City vari eventi di questo sport. E, a volte, a prendervi parte, facendo comparsate in cui ha potuto mettere in mostra il suo spirito istrionico ed esibizionista. Ovviamente non ha mai combattuto, ma ha inscenato litigi e scelto dei campioni per combattere al suo posto. Guadagnandosi addirittura un posto nella Hall of Fame di quello sport.

 

Il rischio bancarotta

Atlantic City e gli investimenti sbagliati

Il Trump Plaza ad Atlantic City, ora non più di proprietà di Donald TrumpCome abbiamo visto, Trump è stato in tutta la sua vita un imprenditore ambizioso. Ha provato a fare affari in tutti i modi, e in molti casi ci è riuscito. Come dimostra però il caso del football americano di cui abbiamo appena parlato, non sempre le ciambelle gli sono riuscite col buco. E anzi in certi casi il tonfo è stato clamoroso. Vediamo quando.

Dal punto di vista imprenditoriale, Trump è uno di quelli che spesso fanno il passo più lungo della gamba. Convinto che si possano attirare molti più investitori quando li si convince della bontà delle proprie scelte e delle proprie risorse, Donald ha spesso gonfiato il proprio patrimonio personale e le possibilità del mercato. E si è imbarcato in imprese a dir poco rischiose. La più importante delle quali è stato il proposito di portare Atlantic City a competere con Las Vegas.

Il declino della città del New Jersey

Come forse saprete, Atlantic City è una città del New Jersey che negli anni ’20 e ’30 era stata forse il principale centro turistico americano, nonché la sede di uno dei più potenti racket mafiosi. Nel dopoguerra, però, la sua fama e il suo benessere economico erano rapidamente declinati, e all’inizio degli anni ’70 avevano chiuso quasi tutti gli hotel cittadini. A cercare di arginare la situazione, nel 1976 si era svolto in città un referendum che aveva reso legale il gioco d’azzardo: l’obiettivo era rilanciare la città coi casinò.

Trump fiutò subito la possibilità di fare buoni affari comprando a poco e varando politiche aggressive. Tra il 1982 e il 1985 il tycoon investì in città centinaia di milioni di dollari, costruendo il Trump Plaza – un hotel e casinò da più di 900 stanze – e comprando altri edifici. Gli affari, però, fecero fatica a decollare e nuove acquisizioni (come il Taj Mahal Casino per 1 miliardo di dollari) non fecero che peggiorare la situazione. Nel 1991 Trump si trovò ad affrontare la crisi più importante della sua carriera fino ad allora: i debiti erano troppo elevati e la società stava per fare bancarotta.

Gli accordi con i creditori

Trovò però un accordo con le banche. Cedette loro il 50% della proprietà in cambio di una consistente dilazione nel pagamento dei debiti, anche se fu costretto a vendere pure varie proprietà personali, come la sua linea aerea e il megayacht. Anni più tardi riuscì a ricomprare la quota ceduta alle banche, ma la Trump Hotels & Casino Resorts andò di nuovo in bancarotta a metà degli anni Duemila. Questa volta Trump dovette cedere una parte più consistente del ramo casinò, rimanendo solo col 10% delle quote. Infine, nel 2014, davanti a un’altra possibile bancarotta dovette vendere del tutto la società.

A tutt’oggi, nessuno sa realmente dire se Trump sia un genio della finanza e degli investimenti o un imprenditore fallimentare. Sia l’Economist che il Washington Post hanno tentato recentemente di dare una loro valutazione, tenendo in conto sia il patrimonio personale che tutta questa lunga sfilza di successi e insuccessi. L’esito è stato dubbioso. Da un lato, Trump tiene il più possibile segrete le sue reali entrate e uscite, i guadagni e le perdite, cosa che in certi casi gli permette di “spararla grossa” ma rende difficile il lavoro dei giornalisti. Dall’altro, però, è spesso crollato e spesso risorto, segno di una certa contraddittorietà.

Probabilmente è entrambe le cose: sia un imprenditore straordinariamente capace, sia un riccone che facilmente incappa in investimenti errati. Sono le due facce della stessa medaglia, della sua spregiudicatezza e del suo valutare gli affari non tanto in termini di profitti e perdite, ma di prestigio personale.

 

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