Gli album li fanno i musicisti, certo. Ma, se vi è mai accaduta la disgrazia di ascoltare un album prodotto male, vi sarete benissimo resi conto che la produzione di un disco è un fattore importante, se non addirittura fondamentale: come in qualsiasi impresa artistica, i creatori hanno bisogno di qualcuno con cui interagire, qualcuno che possa dare i suggerimenti giusti, che possa giudicare con un certo distacco il lavoro prodotto, che conosca il mondo discografico e possa relazionarsi col mercato.
Per questo, il più delle volte quando una band o un cantante trovano un produttore con cui lavorano bene, non lo abbandonano più, come si fa con un consigliere fidato o con un guru spirituale.
E uno dei produttori più celebri del mercato discografico degli ultimi trent’anni è sicuramente l’americano Rick Rubin, classe 1963, nato sulla costa est e con una piccola carriera da chitarrista morta prima ancora di cominciare e trasferitosi attorno alla metà degli anni ’80 nei dintorni di Los Angeles, da dove ha costruito la fortuna propria e di molte band di svariati generi musicali.
Premiato con due Grammy come produttore dell’anno nel 2007 e 2009, ha lavorato a decine di dischi, alcuni vere pietre miliari del moderno rock nordamericano; ripercorriamone, quindi, la carriera, attraverso cinque album epocali da lui prodotti.
Indice
1. Slayer – Reign in Blood
Nel 1985 gli Slayer erano indubbiamente una delle band più interessanti e discusse della costa occidentale degli Stati Uniti.
Il loro primo album, Show No Mercy, era uscito due anni prima, fortemente influenzato dall’heavy metal britannico, ma già il secondo lavoro, Hell Awaits, aveva aperto la strada a un suono più personale, più robusto e possente, grazie anche all’introduzione della doppia cassa; inoltre le tematiche esplicitamente demoniache avevano suscitato scalpore e polemiche.
Insomma, gli Slayer sembravano pronti per portare ancora un po’ più in là l’asticella e proporre qualcosa di rivoluzionario, ma erano tutto sommato confinati in un’etichetta, la Metal Blade Records, piccola e per certi versi ancora piuttosto amatoriale.
Sulla loro strada, a questo punto, comparve però Rick Rubin: il produttore, che fino ad allora si era occupato solo di hip hop, volle incontrare la band e, durante una riunione in cui pare dovette insistere parecchio, riuscì a convincere i quattro a firmare per la sua Def Jem Recordings fondata appena un anno prima.
La nascita del death metal
Dalla collaborazione tra la band e Rubin uscì, il 7 ottobre 1986, Reign in Blood, probabilmente il miglior album degli Slayer e forse dell’intero genere thrash metal, un disco talmente importante da aver dato origine anzi a un genere nuovo, che si sarebbe sviluppato negli anni successivi, il death metal.
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L’album – che contiene pezzi epocali come Angel of Death (accusato spesso di apologia del nazismo), Altar of Sacrifice, Criminally Insane e soprattutto Raining Blood – rappresentò il debutto della band per una major e questo permise ai quattro ragazzi californiani di acquisire un’enorme visibilità nell’ambiente metal e di definire in maniera esaustiva il proprio stile, provocatorio ed estremo.
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2. Beastie Boys – Licensed to Ill
Come abbiamo accennato, però, gli esordi di Rubin non sono affatto legati al metal – genere di cui si iniziò a interessare proprio con la comparsa degli Slayer – né al funk o al country, a cui in parte si dedicò negli anni successivi.
Gli esordi erano invece legati all’hip hop. Nel 1985, infatti, ad appena 22 anni aveva lavorato al secondo album dei Run-DMC e all’esordio assoluto di LL Cool J, nomi che stavano proprio in quegli anni fondando l’hip hop; nomi ai quali se ne sarebbe aggiunto nel 1986 un altro, quello dei Beastie Boys.
Il gruppo newyorkese aveva già prodotto qualche EP ed era riuscito a farsi notare nell’ambiente underground della Grande Mela. Rubin però permise ai quattro1 di conoscere i Run-DMC e soprattutto di andare in tour ad aprire i concerti di Madonna, offrendo loro un’occasione di visibilità insperata.
Il tour in realtà non andò particolarmente bene – Yauch mostrò ripetutamente i genitali al pubblico, creando incidenti diplomatici con la stessa Madonna – ma permise alla band di farsi un nome per quanto riguardava il gusto per l’eccesso e l’ardita sperimentazione sonora, e preparò l’ambiente per il primo album, pronto ad uscire nel 1986.
L’intuizione del crossover
Licensed to Ill fu un successo insperato e clamoroso. Trainato dal singolo (You Gotta) Fight for Your Right (to Party) e dalle tv che trasmettevano video musicali, riuscì a scalare le classifiche e vendere 700mila copie quasi subito, poi salite a 5 milioni col tempo (oggi in tutto il mondo si superano i 10 milioni di dischi venduti).
Un successo non più eguagliato, in quel decennio, da un album hip hop, in cui entravano influenze pesanti anche dal rap, dal punk e dall’heavy metal, gettando le basi per quello che di lì a poco sarebbe stato il crossover.
Il tour mondiale che ne seguì alimentò la fama di cattivi ragazzi dei tre componenti del gruppo e soprattutto portò alla rottura con Rubin, che voleva subito un nuovo disco per cavalcare l’onda del successo, cosa che i tre non erano però disposti a fare.
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3. Red Hot Chili Peppers – Blood Sugar Sex Magik
L’incredibile versatilità di Rubin nella seconda metà degli anni Ottanta non passò inosservata. Tra quelli che la notarono, in particolare, ci furono i Red Hot Chili Peppers, all’epoca una giovane band che suonava un funk con influenze heavy metal e che negli anni Ottanta aveva realizzato quattro album, baciati da alterne fortune.
L’ultimo, in particolare, era stato Mother’s Milk, il loro più grande successo fino ad allora, in cui l’ingresso in formazione del batterista Chad Smith e soprattutto del chitarrista John Frusciante aveva portato a un maggior impatto melodico e a un conseguente aumento delle vendite anche all’estero.
La band, insomma, sembrava finalmente stabile (ma la permanenza di Frusciante non sarebbe durata a lungo) e intenzionata ad uscire dal circuito underground, visto che anche i primi anni Novanta sembravano ben disposti ad abbracciare e portare al successo sonorità alternative.
Mother’s Milk aveva portato ai quattro membri molte soddisfazioni, ma su una cosa non si erano trovati particolarmente bene: la produzione di Michael Beinhorn, col quale non ritenevano di aver trovato il giusto equilibrio nella preponderanza dei vari strumenti.
Il grande successo commerciale
Per il nuovo disco, il primo che avrebbero registrato per la Warner Bros, cercarono quindi qualcuno di diverso, e scelsero Rubin proprio per il suo eclettismo: la scelta fu così fortunata che Blood Sugar Sex Magik vendette 13 milioni di copie e raggiunse la terza posizione della classifica, spingendo la band a registrare con Rubin anche tutti gli album successivi.
In particolare, a quanto raccontano le cronache Rubin ebbe il merito di trasferire il gruppo in una villa isolata dal mondo, in modo che Kiedis e compagni trovassero la serenità necessaria a comporre e incidere.
Li incoraggiò poi a perseguire nuove strade, sia a livello sonoro che di tono delle varie canzoni. E la stessa Under the Bridge, pezzo storico del gruppo, nacque dietro forte insistenza di Rubin.
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4. Johnny Cash – American Recordings
Abbiamo già avuto modo di mostrarlo più volte: Rick Rubin è da un lato un uomo con un notevole senso per gli affari, dall’altro un produttore che non ama legarsi troppo a un singolo genere, ma spaziare, influenzando e lasciandosi influenzare da mondi diversi.
Ma partiamo dagli affari. Nel 1988 la sua etichetta discografica, la Def Jem attraverso cui aveva lanciato LL Cool J e Beastie Boys, finì in mano a Lyor Cohen, che vinse il confronto proprio con Rubin per la presidenza. Per tutta risposta, il fondatore se ne andò aprendo una nuova etichetta, la Def American, poi rinominata dopo pochi anni in American Recordings.
Il primo album con questa nuova denominazione – e qui arriviamo all’amore per le novità – toccava però un genere totalmente nuovo per Rubin, abituato fino ad allora agli eccessi stilistici e di suono dell’hip hop e dell’hard rock.
Con un lavorio ai fianchi durato parecchio tempo, infatti, riuscì a mettere sotto contratto nientemeno che Johnny Cash, una delle icone del country americano, uno che tra l’altro aveva fama di aver sempre avuto rapporti difficili coi produttori discografici.
Come rivitalizzare una leggenda
Il connubio, invece, funzionò. Nel 1994 uscì questo American Recordings, nome preso proprio dall’etichetta di Rubin, che si aggiudicò un Grammy Award, a cui seguirono poi altri importanti album all’interno di una serie che ha preso il nome di Americans, sempre prodotta da Rubin.
Tra l’altro, proprio grazie a questa serie Cash ritornò dopo molti anni nelle parti alte delle classifiche, nonostante il repertorio fosse composto perlopiù da cover, riuscendo a farsi ascoltare anche da un pubblico nuovo e più giovane.
In American Recordings la produzione è decisamente minimalista, come piace allo stesso Cash, e tra i brani spiccano The Beast in Me scritta da Nick Lowe e Down There by the Train di Tom Waits.
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5. System of a Down – Toxicity
Dopo una carriera del genere, sarebbe facile vivere sugli allori, concedersi solo di tanto in tanto a qualche star che ha voglia di rinnovare il proprio sound (cosa che Rubin non disdegna di fare, come dimostrano le collaborazioni con Shakira, Justin Timberlake, Metallica o Adele) e per il resto amministrando il proprio impero discografico.
Se c’è un pregio che, invece, bisogna per forza attribuire al produttore dalla lunga barba incolta è quello di aver sempre continuato a cercare qualche giovane talento da lanciare.
Verso la fine degli anni Novanta, ad esempio, nei locali di Los Angeles si esibivano i System of a Down, sconosciuto gruppo californiano i cui componenti erano tutti di origine armena e che aveva registrato alcuni demo tape che però non avevano in un primo momento riscosso particolare attenzione.
Rubin li contattò e nel giro di poco tempo li convinse a firmare per l’American Recordings, portandoli in sala di registrazione nel 1998 per incidere il loro disco d’esordio, System of a Down, che riscosse subito un grosso successo e il doppio disco di platino.
Il trionfo degli armeni
Ancora meglio fece, tre anni più tardi, Toxicity, capace di arrivare subito in testa alla classifica e vendere un totale di 12 milioni di copie in tutto il mondo, oltre ad incontrare il favore della critica specializzata.
Rubin, dal suo punto di vista, aveva portato a termine l’ennesimo esperimento che si era trasformato in un successo colossale.
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Era riuscito a prendere una band che sicuramente faceva metal ma che non era facile far rientrare in un genere specifico – anche per l’influenza delle radici folk armene, per la ritmica originale, per i toni rabbiosi – e l’aveva fatta piacere sostanzialmente a tutti, sfondando le barriere del genere.
Inutile dire che, da allora e nonostante le numerose pause, i System of a Down hanno sempre inciso con Rubin al loro fianco.
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e’ bello anche quello che ha fatto con gli Audioslave, i rage against the machine e perfno con shakira. ora voglio vedere però cosa riesce a cavar fuori da kanye west