
La nausea di Jean-Paul Sartre è uno dei libri più importanti del Novecento, almeno dal punto di vista filosofico.
Per questo, probabilmente, ne avete sentito parlare spesso. Forse l’avete pure letto. A distanza di tanti anni, però, è possibile che non ve ne ricordiate più i passaggi più importanti.
Per questo motivo oggi vi presenteremo le citazioni più famose tratte da quel libro, che ben esprimono le idee di Sartre e più in generale dell’esistenzialismo, di cui il filosofo francese fu uno dei principali esponenti.
Indice
1. Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovermi
La nausea è, sotto tutti i punti di vista, un romanzo filosofico o, meglio ancora, un diario filosofico. Il narratore è Antoine Roquentin, nientemeno che l’alter ego dello stesso Sartre, del quale condivide in toto i pensieri e le riflessioni.
Perfino la città in cui vive, Bouville, non è altro che una rappresentazione nemmeno troppo velata di Le Havre, dove Sartre viveva – e insegnava filosofia al liceo – mentre scriveva il romanzo, nei primi anni ’30.
Più o meno in apertura Roquentin, che nella finzione narrativa è un giovane studioso di storia impegnato in una tesi su un avventuriero del XVIII secolo, rimane particolarmente turbato da un fatto da nulla.
Uscendo dall’albergo in cui alloggia, mentre stava andando verso la biblioteca dove conduce le sue ricerche, s’è imbattuto in una cartaccia che era intenzionato a raccogliere, senza peraltro riuscire a farlo.
Una cosa così da nulla che lui stesso in un primo momento non ne parla nel proprio diario, salvo tornarci poi più tardi, incapace di disfarsi della sgradevole sensazione.
Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovermi poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive. Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea sulle mie mani.
Il foglio di carta con scritto un dettato
Sì, perché la carta non raccolta gli ha dato come l’impressione di non essere più libero: aveva sempre avuto l’abitudine di raccoglierle, quelle cartacce magari sporche e piene di fango, irritando anche la sua vecchia fidanzata Anny che non capiva quella sua insana passione per i fogli corrosi dall’acqua delle pozzanghere, ma ora il suo stesso corpo non gli obbedisce più.
Dettato: il Gufo bianco
Non ci riesce più: dopo il passaggio di un ufficiale che aveva rischiato di pestarlo, Roquentin si era infatti avventato sul foglio, un foglio di quaderno strappato e rovinato dalle intemperie, in cui si scorgeva la scritta: “Dettato: il Gufo bianco”.

E non era riuscito a raccoglierlo per l’improvvisa sensazione che quel foglio gli aveva comunicato. Cerca di non pensarci, cerca di ribadire a se stesso che gli oggetti sono solo oggetti, cose morte. Eppure Roquentin non riesce a non farsene commuovere, ed è una cosa che lo angoscia.
Anzi, gli dà una sorta di nausea, di sensazione sgradevole. Per lui gli oggetti non sono morti, sono bestie vive, e non riesce ad evitare che sia così.
2. Le tre è sempre troppo tardi o troppo presto per quello che si vuol fare
Passano pochissime pagine, ma il diario di Roquentin prosegue, lasciandosi prendere dagli argomenti più disparati. Si interessa molto, in questa fase, del marchese de Rollebon, l’uomo su cui sta scrivendo un libro.
Si trova, in fondo, nella città di Bouville proprio per quel motivo, perché nella biblioteca locale sono custodite una serie di lettere e fondi interessanti per comprendere al meglio la psicologia di quell’uomo, che ebbe rapporti con Napoleone e con lo zar.
Ma de Rollebon, che tanto lo aveva affascinato per lunghi anni, gli sta venendo a noia, e soprattutto il giovane comincia a non capirlo più nelle sue gesta e nelle sue azioni che man mano scopre dai documenti.
Nn trova un filo logico e, anche se l’uomo non contraddice mai esplicitamente la propria condotta precedente, sembrerebbe quasi che di volta in volta le lettere non fossero scritte dalla stessa persona.
Sono le tre. Le tre è sempre troppo tardi o troppo presto per quello che si vuol fare. È la più stramba ora del pomeriggio.
Le indagini storiche sulla vita del marchese de Rollebon
È davanti a queste riflessioni, in apertura di una pagina scritta nel giorno di venerdì, che arriva la frase che abbiamo scritto qui sopra: «Le tre è sempre troppo tardi o troppo presto per quello che si vuol fare».
E in effetti Roquentin sta passando quell’ora attaccato al calorifero, a digerire il pasto, incapace di mettersi davvero al lavoro e consapevole che la giornata ormai è perduta e che sarà possibile recuperarla solo a notte inoltrata, confidando nel fatto che la notte precedente ha dormito parecchio e quindi avrà poco sonno.
Le giornate del giovane studioso passano così, completamente monotone, prese di tanto in tanto dall’osservazione del cielo e della propria pipa, prima di ritornare a riflettere sull’enigma di Rollebon, sui suoi intrighi, le sue missioni di spionaggio nell’Europa di inizio Ottocento.
Ma ha senso una vita basata su qualcuno che ha compiuto sì delle gesta importanti, ma centotrent’anni prima, e che è morto da tempo?
3. Tutto quel che non avevo presente, non esisteva
Saltiamo ora avanti di parecchie pagine e giungiamo all’incirca alla metà del volume. La passione per Roquentin per de Rollebon è giunta ormai al termine. Il libro è abbandonato, nella consapevolezza ormai che un morto non può giustificare la vita di un vivo.
E però è un abbandono a cui il nostro protagonista non era probabilmente ancora pronto: «Cosa farò dunque della mia vita?», si chiede, aprendo una pagina del diario scritta in un lunedì. Anche le parole che prova a scrivere sul suo blocco degli appunti non gli appaiono più sue, una volta che l’inchiostro si è asciugato.
E proprio in quel momento, di nuovo guardando un pezzo di carta – ma stavolta non un pezzo abbandonato per strada da qualcun altro, ma uno scritto di suo pugno –, Roquentin giunge a un’altra consapevolezza.
Capisce di aver abbandonato il proprio presente, di esserselo lasciato sfuggire per vivere la sua vita nel passato, all’interno delle avventure del marchese, tanto affascinanti quanto però, inevitabilmente, morte e finite.
La vera natura del presente si svelava: era ciò che esiste, e tutto quel che non avevo presente, non esisteva. Il passato non esisteva. Affatto. Né nelle cose e nemmeno nel mio pensiero. Certo, avevo capito da un pezzo che il mio presente mi era sfuggito. Ma fino a quel momento credevo che si fosse soltanto ritirato fuori della mia portata.
La seconda morte degli uomini del passato
Non a caso, poche righe dopo Sartre scrive: «Cos’era avvenuto? Avevo la nausea? No, non era questo, la camera serbava la sua aria paterna di tutti i giorni. Tutt’al più la tavola mi pareva più pesante, più spessa e la stilografica più compatta. Soltanto, il signor di Rollebon era morto per la seconda volta».
«Poco prima era ancora lì, in me, caldo e tranquillo, e di quando in quando lo sentivo muoversi, dentro. Era vivo, assai più vivo, per me, che non l’Autodidatta [un uomo che incontrava spesso in biblioteca] o la padrona del “Ritrovo dei ferrovieri”».
«Ora non ne restava più niente. Non più di quanto non restasse su quelle tracce d’inchiostro asciutte il ricordo della loro fresca lucentezza».
4. Ogni esistente nasce senza ragione
Avviamoci ora verso la conclusione del romanzo. Roquentin, ad un certo punto, si trova in un parco, e da una panchina ammira la rigogliosa natura in movimento. Guarda gli alberi, guarda i fiori, guarda gli insetti che volano in ogni dove: tutto esiste, tutto è esistenza.
E anzi lo stupisce il fatto che quelle esistenze non siano diverse dalla sua e da quella di tutti gli uomini: tutto si ripete uguale nei secoli, apparentemente senza senso. Anche il modo in cui quelle esistenze finiscono è banale, ripetitivo, ciclico.
«Ma perché – scrive Sartre – perché tante esistenze, visto che si rassomigliano tutte? A che pro tanti alberi tutti simili? Tante esistenze mancate e ostinatamente ricominciate e di nuovo mancate – come gli insetti maldestri d’un insetto caduto sul dorso? (Io ero uno di questi sforzi)».
Si sente, qui, l’eco del Franz Kafka de La metamorfosi, racconto scritto quasi una ventina d’anni prima rispetto al romanzo di Sartre ed in cui i temi esistenzialisti venivano accennati in chiave metaforica, anche se i tempi non erano ancora pienamente maturi per una riflessione complessiva di quel tipo.
Ma Sartre coglie l’occasione non solo per riferirsi a Kafka, ma soprattutto a Nietzsche e ai suoi commentatori che, all’inizio del Novecento, avevano provato ad interpretarne la dottrina della volontà di potenza: perché lui, in quella natura così rigogliosa, non vede affatto il tentativo di supremazia, la lotta per la sopravvivenza, ma solo una esistenza stanca, svogliata, trascinata.
Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione.
Il senso della vita per Jean-Paul Sartre
Gli alberi non si impongono, ma subiscono il vento; le piante fanno lo stesso, e così anche gli animali, e in fin dei conti l’uomo: vivono non riuscendo ad imporre alcunché, senza fibra, senza alcuna potenza, subendo la vita, non avendo il coraggio o la forza di farla cessare.
La morte arriva sempre per puro caso. Per questo i momenti di Roquentin sulla panchina sono interrotti dall’amara frase che abbiamo citato: si nasce senza che la nostra vita abbia uno scopo.

Si conduce questa stessa esistenza solo perché non si ha la forza di fare altrimenti; ed infine si muore, per lo stesso caso che ci ha portati a nascere.
5. Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa
Alla fine, cercando di riguadagnare un senso presente alla propria esistenza, Roquentin si trova anche a incontrare nuovamente Anny, la sua ex fidanzata, ora diventata anche lei una disillusa trentenne. Fa l’attrice e si fa mantenere dall’amante di turno, ma è ingrassata e sembra aver preso consapevolezza anche lei della vacuità dell’esistenza.
I due parlano a lungo, discorrono del loro amore passato, e rievocano i cosiddetti momenti perfetti che tanta importanza avevano per la ragazza quando stavano assieme.
Prima di tutto, spiega Anny, nella sua vita lei aveva sempre cercato di vivere delle situazioni privilegiate, cioè dei momenti simili a quelli che vengono scelti per essere illustrati nei libri di storia, quei due o tre eventi significativi, storici, emblematici che si verificano nel corso della vita.
Una volta che ci si trova a vivere queste situazioni privilegiate – come il momento della morte del proprio padre, o la prima volta in cui si fa l’amore – bisogna poi gestirle al meglio, compiendo i gesti esatti, adeguati, che rendano ancora più solenne l’occasione.
E questo non per fare della propria vita un’opera d’arte, come fraintende Roquentin e come ritenevano gli esponenti dell’estetismo, ma per un dovere in un certo senso morale.
Lo sai, mettersi ad amare qualcuno è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento. C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio: se si riflette non lo si fa.
La disillusione di Anny
Ora, però, tutta questa ricerca di momenti perfetti non interessa più ad Anny, che si è resa conto che questi momenti non si possono raggiungere.
Un tempo era una ragazza piena di passioni, di odio e di amore; ora è una donna disillusa che non ha più l’energia per tutto questo, come non ha più l’energia per l’amore, perché – ora che ha scoperto la vita – tutto le sembra non avere più senso.
È questo, in fondo, è anche il tema del romanzo: se la perfezione su questa terra non esiste, se non c’è Dio a rischiarare la nostra vita e se anche lo studio e il passato sono solo vuote vie di fuga, cosa rimane?
Altre 15 famose frasi de La nausea, oltre alle 5 già segnalate
La nausea è un libro pieno di pagine memorabili, problematiche, filosofiche. Qui di seguito vi segnaliamo, più velocemente, qualche altra citazione che secondo noi vale la pena di leggere e recuperare.
– Io non so approfittare dell’occasione: vado a caso, vuoto e calmo, sotto un cielo inutilizzato.
– La sua camicia di cotone azzurro spicca allegramente sulla parete color cioccolato. Anche questo dà la Nausea. O piuttosto, è la Nausea. La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa.
– Io vedo l’avvenire. È là, posato sulla strada, appena un po’ più pallido del presente. Che bisogno ha di realizzarsi? Che cosa ci guadagna? La vecchia s’allontana zoppicando, si ferma, si tira su una ciocca grigia che le sfugge dal fazzoletto. Cammina, era là, ora è qui… non so più come sia: li vedo, i suoi gesti, o li prevedo? Non distinguo più il presente dal futuro, e tuttavia la cosa continua, si realizza a poco a poco; la vecchia avanza per la via deserta, sposta le sue grosse scarpe da uomo. Questo è il tempo, né più né meno che il tempo, giunge lentamente all’esistenza, si fa attendere, e quando viene si è stomacati perché ci si accorge che era già lì da un pezzo.
– Ecco che cosa ho pensato: affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. È questo che trae in inganno la gente: un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse. […] Avrei voluto che i momenti della mia vita si susseguissero e s’ordinassero come quelli d’una vita che si rievoca. Sarebbe come tentar d’acchiappare il tempo per la coda.
– Un brivido mi percorre dalla testa ai piedi: è… è lei che m’attendeva. Lei era lì, ergendo il suo busto immobile sopra la cassa, e sorrideva. Dal fondo di questo caffè qualcosa torna indietro sui momenti sparsi di questa domenica e li salda gli uni agli altri, dà loro un senso: ho traversato tutta questa giornata per venire a finir qui, con la fronte contro questo vetro, per contemplare questo volto fine che si schiude su una tenda granata. Tutto s’è fermato; la mia vita s’è arrestata: questo vetro, quest’aria greve, azzurra come l’acqua, ed io stesso formiamo un tutto immobile e compatto: sono felice.
– Sono invecchiati in un altro modo. Vivono in mezzo alle cose ereditate, ai regali, ed ogni mobile per loro è un ricordo. Pendole, medaglie, ritratti, conchiglie, fermacarte, paraventi, scialli. Hanno armadi pieni di bottiglie, di stoffe, di vecchi vestiti, di giornali, hanno conservato tutto. Il passato è un lusso da proprietari.
– Ma il suo giudizio mi trafiggeva come una spada e metteva in discussione perfino il mio diritto d’esistere. Ed era vero, me n’ero sempre reso conto: non avevo il diritto di esistere. Ero apparso per caso, esistevo come una pietra, una pianta, un microbo. La mia vita andava a capriccio, in tutte le direzioni. A volte mi dava avvertimenti vaghi, a volte non sentivo che un ronzio senza conseguenze.
– Tutto è pieno, esistenza dappertutto, densa e pesante e dolce. Ma al di là di tutta questa dolcezza, inaccessibile, vicinissimo, e, ahimè, così lontano, giovane, spietato e sereno c’è… questo rigore.
– È dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto — il mondo esiste — ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa.
– C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare, come l’altra sera al «Ritrovo dei ferrovieri»: ecco la Nausea […].
– E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo.
– Che imbecilli. Mi ripugna il pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza. Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno l’estrema stupidità di fare figli. E frattanto la grande natura incolta s’è insinuata nella loro città, s’è infiltrata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non si muove, si mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città. Io la vedo, questa natura, la vedo… So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch’essa non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza… Non ha che abitudini, e le può cambiare domani.
– Mi si dia qualcosa da fare, qualsiasi cosa… È meglio che pensi ad altro, perché in questo momento sto per recitarmi la commedia. So benissimo che non voglio far niente: far qualche cosa è creare dell’esistenza — e di esistenza ce n’è già abbastanza.
– Per me sono un po’ come morti, un po’ come eroi da romanzo; si son lavati del peccato d’esistere. Non completamente beninteso — ma quel tanto che un uomo può fare. Quest’idea mi sconvolge d’un tratto, perché non speravo nemmeno più questo. Sento qualcosa che mi sfiora timidamente e non oso nemmeno muovermi per paura che scompaia. Qualcosa che non conoscevo più: una specie di gioia.
– Se fossi sicuro d’aver talento… Ma mai — mai ho scritto niente di questo genere; articoli storici, sì — e ancora. Un libro. Un romanzo. E ci sarebbe gente che leggerebbe questo romanzo e direbbe: è Antonio Roquentin che l’ha scritto, era un tipo rosso che si trascinava per i caffè, e penserebbe alla mia vita come io penso a quella di questa negra: come a qualcosa di prezioso e di semileggendario. Un libro. Ma naturalmente da principio ciò non sarebbe che un lavoro noioso e stanchevole, non m’impedirebbe d’esistere né di sentire che esisto. Ma verrebbe pure un momento in cui il libro sarebbe scritto, sarebbe dietro di me e credo che un po’ della sua luce cadrebbe sul mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza. Forse un giorno, pensando precisamente a quest’ora, a quest’ora malinconica in cui attendo, con le spalle curve, che sia ora di salire sul treno, sentirei il mio cuore battere più in fretta e mi direi: quel giorno a quell’ora è cominciato tutto. E arriverei — al passato, soltanto al passato — ad accettare me stesso.
E voi, quale frase de La nausea preferite?
È dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto — il mondo esiste — ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giuocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l’ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. C’è stata la Nausea del «Ritrovo dei ferrovieri» e poi un’altra, prima, una notte in cui guardavo dalla finestra, e poi un’altra al giardino pubblico, una domenica, e poi altre. Ma non era mai stata così forte come oggi.