Cinque famosi gruppi rock che hanno cambiato il mondo

I più famosi gruppi rock che hanno cambiato il mondo

È difficile, e forse addirittura impossibile, stabilire quali siano stati i più grandi esponenti del rock, o meglio di quella nuova e variegata forma di musica che è emersa negli anni Cinquanta e che ci ha accompagnato fino ad oggi. Si può, però, forse cercare di stilare una classifica o una lista che riguardi i gruppi che più hanno rivoluzionato quel mondo, quelli che – al di là della loro bravura – sono riusciti a plasmare la scena musicale e, attorno ad essa, la società del loro paese e del mondo, portando a dei cambiamenti che sono andati ben al di là del loro semplice genere musicale di riferimento.

I primi che vengono in mente in questo senso sono i Beatles, così rivoluzionari da imporre un nuovo ed inedito ruolo per la rockstar, ma dopo di loro altre band hanno spostato ancora un po’ più in là l’asticella, sia per i loro comportamenti sul palco o in sala d’incisione, sia per la loro stessa vita personale e per i testi delle loro canzoni. Scopriamoli insieme.

 

1. Beatles

I baronetti più idolatrati della storia della musica

Elvis Presley ancheggiava smodatamente da anni, facendo arrossire le signore; Chuck Berry si faceva arrestare per rapporti sessuali con una minorenne; James Brown urlava come un forsennato.

Ma la prima band a moltiplicare tutto questo per quattro furono i Beatles di Liverpool: Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr. Non che in un primo momento i quattro si presentassero come dei cattivi ragazzi; tutt’altro: avevano le facce e i vestiti dei giovani della porta accanto, e d’altronde quando il loro primo singolo Love Me Do scalò improvvisamente le classifiche avevano tra i 19 e i 22 anni appena.

Hey Jude dei Beatles

La loro carriera è però troppo lunga – non tanto cronologicamente (il gruppo si sciolse infatti già nel 1970), quanto dal punto di vista del numero delle hit – per essere qui ripercorsa per intero.

Dal punto di vista mediatico, però, sono da rimarcare lo scoppio della cosiddetta beatlemania in Gran Bretagna già sul finire del ’63, con concerti spesso inascoltabili a causa delle urla delle fan e fughe rocambolesche, appena terminata l’esibizione, per evitare di essere acchiappati dai loro stessi estimatori; il primo viaggio negli Stati Uniti, nel 1964, accompagnato da scene di isteria collettiva e dalla celebre partecipazione all’Ed Sullivan Show.

E poi ancora il conferimento, nel 1965, del titolo di membri dell’Ordine dell’Impero Britannico da parte della regina Elisabetta II (davanti alla quale, secondo quanto riferì John Lennon, si sarebbero presentati dopo aver fumato marijuana), che li fece passare alla storia come i “baronetti”; l’uscita, in quello stesso anno, di Rubber Soul, che segnò l’abbandono dei toni frivoli e la scelta di testi più impegnati, oltre ad introdurre il sitar; e poi la meditazione indiana, l’LSD, l’arrivo della musica psichedelica, i litigi che facevano preoccupare mezzo mondo, i fan impazziti, le minacce di morte (in un caso, anni dopo, portate purtroppo a termine) e infine la rottura, che però non fece calare la fama dei quattro.

La rivoluzione

I Beatles rivoluzionarono il mondo della musica da probabilmente tutti i punti di vista in cui era possibile farlo. John Lennon forse seppe esprimere questo concetto nella sua forma più rappresentativa quando disse: «Gli anni Sessanta hanno assistito a una rivoluzione tra i giovani, che non si è limitata ad alcune parti o classi, ma che ha coinvolto l’intero modo di pensare.

Toccò prima ai giovani, poi alla generazione successiva. I Beatles sono stati parte di questa rivoluzione, che è in realtà un’evoluzione ancora in atto. Eravamo tutti sulla stessa barca: una barca che andava alla scoperta del Nuovo Mondo. I Beatles erano di vedetta».

 

2. Rolling Stones

Il lato sporco e cattivo degli anni Sessanta

Come abbiamo già iniziato a vedere e come avrete ancora più modo di scoprire addentrandovi nella lettura di questo articolo, tutti i gruppi che abbiamo scelto hanno interrotto presto o tardi la loro attività, sciogliendosi o a causa di litigi e frizioni interne, o della morte di alcuni dei loro componenti. Tutti tranne uno: i Rolling Stones.

La band composta da Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts e Ron Wood (ma che in passato ha annoverato nelle proprie fila anche Brian Jones, Mick Taylor e Bill Wyman) è infatti attiva e sulla breccia dell’onda dal 1962, e anche se l’apporto in termini di uscite discografiche è inevitabilmente calato, il quartetto londinese non manca ancora oggi di esibirsi in concerti che fanno il tutto esaurito in giro per il mondo.

I Rolling Stones (foto di Raph_PH via Flickr)
I Rolling Stones (foto di Raph_PH via Flickr)

E se infatti i Beatles sono stati le “vedette” delle novità che gli anni Sessanta stavano portando nel mondo, capaci di vederle prima degli altri e di anticiparle, i Rolling Stones probabilmente sono stati quelli che queste novità le hanno esagerate, gonfiate e fatte esplodere.

Non a caso, gran parte del loro successo nei primi anni di attività derivò proprio dal porsi come l’alternativa “sporca e cattiva” dei Beatles, anche se in realtà i punti in comune tra le due band erano più numerosi – soprattutto dopo la maturazione dei temi delle canzoni del quartetto di Liverpool – delle differenze. Con (I Can’t Get No) Satisfaction già nel 1965 gli Stones si imposero come i cantori di una gioventù stanca ed insoddisfatta, pronta a reagire anche con rabbia al mondo in cui non si riconosceva più, introducendo presto provocatoriamente anche Satana e il diavolo nei testi dei loro brani.

Un nuovo sound

Le novità – o sarebbe meglio dire le rivoluzioni – di cui si facevano portatori erano parecchie: prima di tutto il sound, che per la prima volta mescolava pesanti influenze del blues americano col rock, il country e il folk, ottenendo qualcosa di inedito e poi presto imitato da tutta una schiera di altre formazioni.

A queste poi dovevano aggiungersi i testi, spesso molto espliciti nei riferimenti sessuali, alla droga o nell’uso di termini gergali che, in quei tempi lontani, certamente appassionavano i più giovani ma facevano rizzare i capelli in testa ai genitori.

E, infine, i Rolling Stones sono stati probabilmente la prima band in grado di rinnovarsi, di sopravvivere al passare del tempo senza diventare la caricatura di se stessa: mentre altri gruppi coevi si scioglievano o si davano a una tranquilla mezza età passata a godere dei successi della gioventù, gli Stones hanno cercato di cambiare continuamente, almeno per tutti gli anni Settanta ed Ottanta, accogliendo nuove sonorità (il reggae, il pop, perfino la dance e la world music) in una sperimentazione continua che, anche se non ha sempre dato i frutti sperati, li ha mantenuti una band viva e vitale fino ad oggi.

 

3. Velvet Underground

Gli innovatori del sottobosco newyorkese

Rimaniamo ancora concentrati per un altro paio di momenti sugli anni Sessanta che, bisogna ammetterlo, sono stati un decennio fondamentale per l’evoluzione della musica popolare, plasmandone gli usi, i costumi, l’epica e il sound.

Finora abbiamo visto due band inglesi considerate tra loro rivali, perché molto vicine per età e in fondo pubblico di riferimento, ma prima di chiudere il cerchio con un terzo gruppo britannico spostiamoci per un attimo negli Stati Uniti.

The Velvet Underground & Nico, il celebre disco con in copertina la banana di Andy Warhol

Lì, a partire dal 1967, cominciò ad emergere la stella dei Velvet Underground, un gruppo di breve durata – si sciolsero sei anni dopo l’esordio discografico, con all’attivo solo cinque album e per di più solamente i primi tre in una formazione che potremmo definire rappresentativa – ma che lasciò un’eredità fondamentale nella storia della musica, anticipando una serie di generi e sperimentazioni (dall’art rock al proto-punk, dall’alternative all’heavy metal) che avrebbero contraddistinto almeno tre decenni successivi.


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Membri fondatori del gruppo erano Lou Reed alla voce e alla chitarra, John Cale a una serie di strumenti diversi che sarebbe troppo lungo elencare, Sterling Morrison alla chitarra e Maureen Tucker alla batteria (con Angus MacLise che l’aveva preceduta solo per qualche mese nel ’65).

I quattro univano i testi di Reed, che scandagliavano i lati più oscuri della società contemporanea, tra droga e perversioni varie, alle musiche sperimentali di John Cale, un gallese che era arrivato in America per studiare musica classica con Leonard Bernstein ma si era presto fatto invischiare nella scena underground.

Il successo

Quando poi la band venne notata da Andy Warhol e dalla sua factory, ne venne fuori qualcosa di ancora più imprevedibile e staccato dai canoni dell’epoca, anche per il pessimismo e la cupezza dei testi che non inneggiavano all’amore universale o alla pace ma mostravano morte, solitudine ed alienazione.

Tutto questo toccò il suo apice in The Velvet Underground & Nico, album d’esordio realizzato in collaborazione con Nico, una delle protette di Warhol, e reso celebre – oltre che da brani come Heroin, I’m Waiting for the Man, Sunday Morning e All Tomorrow’s Parties – dalla copertina con una banana realizzata dallo stesso artista.

Dopo il più duro e ancora più estremo White Light/White Heat la band cominciò a perdere i pezzi: prima se ne andò Cale, che non vedeva di buon occhio i tentativi di dare una svolta più tradizionale al suono del gruppo, che d’altronde non era ancora riuscito ad entrare in classifica nonostante tutto il lavoro profuso; poi lo stesso Reed perse interesse nel progetto, intraprendendo una carriera solista. Ma quanto seminato nei primi due album basta per entrare a pieno titolo in questa cinquina.

 

4. Pink Floyd

I paladini del rock progressivo

Qualche anno fa ha destato molta attenzione un nuovo disco dei Pink Floyd intitolato The Endless River. Un lavoro che in realtà si basava su alcune sessioni registrate nel 1994, quando la formazione era composta dallo stesso Gilmour, da Nick Mason e da Richard Wright, venuto a mancare poi nel 2008.

Al di là di questo inatteso album di inediti – a vent’anni dallo scioglimento del gruppo –, i Pink Floyd hanno indubbiamente segnato un’epoca, diventando i capofila di quel movimento che tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta creò e plasmò il progressive, in una estenuante ricerca che voleva rendere più elevata la musica rock, staccandola dalle canzonette commerciali e innalzandola alla complessità, sia compositiva che ideale, dell’opera.

I Pink Floyd nel 1973, all'epoca dell'uscita di The Dark Side of the Moon, il loro disco di maggior successo

Già i Beatles, col loro Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band avevano fatto evolvere il rock psichedelico in qualcosa di completamente nuovo ed inatteso, mentre, più o meno nello stesso periodo, altre band come i Procol Harum componevano brani come A Whiter Shade of Pale, palesemente ispirati al lavoro di Johann Sebastian Bach, lavoro che avrebbe poi ispirato anche i Jethro Tull.

In questo variegato panorama si inserì il gruppo composto da Roger Waters, Nick Mason, Richard Wright e Syd Barrett, presto sostituito da David Gilmour, che, dopo alcuni album psichedelici e di discreto successo, si orientò sul rock progressivo a partire dal 1970, quando per registrare Atom Heart Mother chiamò a raccolta un’intera orchestra.

The Dark Side of the Moon

Subito dopo uscì Meddle, qualcosa di estremamente innovativo per i tempi visto che il brano Echoes durava ben 23 minuti e riempiva tutto il secondo lato del disco, ma la vetta i quattro la raggiunsero nel 1973 con The Dark Side of the Moon, un disco capace di restare per ben 14 anni di seguito nella classifica dei 200 album più venduti in America di Billboard, ma soprattutto di spingere il suono del gruppo verso nuove frontiere, complice anche l’intervento in sala di registrazione di Alan Parsons, allora semplice tecnico del suono ma poi tra i più importanti promotori del progressive.

Sulla stessa scia continuò il successivo Wish You Were Here, mentre l’altro capolavoro – The Wall, datato 1979 – vide un prevalere di Roger Waters sul resto della band che avrebbe portato presto alla sua fuoriuscita dal gruppo.

 

5. Nirvana

Il grunge di Kurt Cobain e soci

Dopo aver esplorato gli albori del rock britannico e dell’underground della costa est americana, volevamo spostarci un po’ più avanti nel tempo, anche se ben sapevamo che era difficile individuare un solo nome per tutto quello che è accaduto nel mondo musicale dal 1975 ad oggi.

Abbiamo considerato i Led Zeppelin, i Ramones, i Kraftwerk, i Sex Pistols, gli AC/DC, i Beastie Boys, gli U2 e molti altri, ma alla fine, per motivi che vanno anche al di là del solo impatto musicale, abbiamo scelto di includere in cinquina i Nirvana di Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl.

I Nirvana nel momento del loro massimo successo

Fondata ad Aberdeen, non lontano da Seattle, nel 1987 in una formazione lievemente diversa da quella definitiva (il primo batterista di un certo peso fu Chad Channing, sostituito solo nel 1990 da Grohl), la band esordì nel 1989 con Bleach, andando incontro a un successo clamoroso ed inatteso due anni più tardi grazie al secondo album, Nevermind.


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In breve i tre divennero i capofila del grunge e probabilmente di tutto il movimento alternative che stava fiorendo in quegli anni, ottenendo grande visibilità mediatica anche grazie al passaggio dei loro video su MTV: le influenze erano notevoli e mai erano state mischiate insieme tra loro; come ebbe a dire lo stesso Cobain, «il sound dei Nirvana è tipo i Black Sabbath che suonano i Knack, i Black Flag, i Led Zeppelin e gli Stooges, con un pizzico di Bay City Rollers».

Le anti-rockstar

Ma, come detto, non furono solo il suono messo in piedi dai ragazzi di Seattle e dintorni e il talento compositivo di Cobain a fare la fortuna del gruppo: i Nirvana furono forse i primi, anzi, a proporsi come delle anti-rockstar, cioè persone che erano arrivate ad un successo a cui sembravano di non voler minimamente arrivare, che finivano in testa a delle classifiche che disprezzavano, che odiavano il mainstream ed a cui però il mainstream stava facendo di tutto per assomigliare.

Emblema di tutto questo era soprattutto Kurt Cobain, il leader carismatico del gruppo, capace di litigare e prendersi quasi a pugni con Axl Rose dopo che questi – tra l’altro sotto contratto per la stessa casa discografica dei Nirvana, la Geffen – gli aveva fatto i complimenti e chiesto di suonare assieme, ma al contempo di presentarsi come immensamente fragile e quasi intimidito in certe esibizioni dal vivo.

Nominato suo malgrado portavoce della fantomatica Generazione X, l’esperienza di Kurt Cobain si spense all’improvviso nell’aprile del 1994, quando, al massimo della popolarità, si sparò con un fucile, uccidendosi; la sua morte sconvolse non solo i fan, ma tutto il mondo, rendendo il leader dei Nirvana l’emblema della contraddittorietà del successo e di quegli stessi anni.

 

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