
Il cinema italiano ha vissuto molte stagioni e abbracciato diversi stili. Ha spesso avuto un debole, però, per la commedia, tanto è vero che uno dei generi che ha avuto maggior successo anche all’estero è proprio quello della cosiddetta commedia all’italiana. Ma al di là di questo, e guardando a tutta la storia del cinema nostrano, quali sono i film comici italiani più belli?
Rispondere a questa domanda è molto difficile, soprattutto perché – come detto – la commedia è un genere molto praticato, ma il film puramente comico lo è meno. O almeno non lo è sempre ad alti livelli.
La commedia all’italiana, infatti, era un genere complesso, che suscitava risate ma spesso aveva anche un retrogusto più o meno amaro. E non era raro che certi film che partivano come commedie finissero presto per diventare drammatici. Basti pensare a capolavori come La grande guerra di Mario Monicelli o C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Per questo tali film, che pure meriterebbero lodi infinite, non trovano spazio nella nostra lista, dove abbiamo scelto di premiare invece pellicole dedite alla risata fine a se stessa. E comunque, anche rimanendo sul versante della comicità pura, di grandi film ce ne sono parecchi.
Ne abbiamo scelti cinque, che vanno dagli anni ’50 agli anni ’90. Abbiamo deciso di fermarci lì, a vent’anni fa. E l’abbiamo fatto perché ci pare che negli ultimi tempi i film comici di altissima qualità abbiano latitato nel panorama della nostra cinematografia. Ma scopriamo, ora, i cinque che abbiamo selezionato.
Indice
1. Totò, Peppino e la… malafemmina
Una lista dei migliori film comici italiani non può prescindere da quello che è stato, in maniera indubitabile, il re – anzi, il principe – della risata nel nostro paese: Totò. Antonio de Curtis è stato a lungo il maggior rappresentante della nostra comicità, forte di una maschera che affondava le sue radici nell’esempio dei grandi del cinema muto.
Al cinema, in realtà, Totò arrivò relativamente tardi, sia per via della censura fascista – che non permetteva di ironizzare così facilmente sulla società e sui potenti –, sia per il successo che invece il comico riscuoteva nel genere teatrale della rivista, cosa che lo tenne a lungo lontano dalle cineprese.
Nel dopoguerra, complice il desiderio degli italiani di ritornare al cinema e di tornare a ridere, i film che lo vedevano protagonista si moltiplicarono. La critica del tempo non fu però affatto tenera con lui, rimproverandogli la colpa di un cinema disimpegnato e di evasione.
Col tempo, però, il talento di Totò è stato pienamente riscoperto e le sue capacità comiche ampiamente riconosciute. D’altronde, le repliche di quelle pellicole – che hanno in certi casi anche 60 o 70 anni – vanno ancora piuttosto bene in televisione, segno che il pubblico italiano non ha scordato il suo “principe”.
La famosa lettera e il colloquio col vigile
Non si tratta, però, solo di affetto. A riguardarli oggi, i film di Totò – o almeno i più riusciti di essi – manifestano una clamorosa conoscenza dei tempi comici e del linguaggio cinematografico. De Curtis sapeva muoversi benissimo davanti alla macchina da presa, utilizzando il volto, il corpo, la voce, la postura come pochi altri.
Tra tutti i suoi film, noi vi vogliamo segnalare Totò, Peppino e la… malafemmina, sicuramente uno dei più riusciti e memorabili. Diretta da Camillo Mastrocinque, uno specialista in commedie, la pellicola uscì nel 1956, cercando di fotografare un’Italia che stava lentamente uscendo dalla povertà.
La storia si concentrava infatti su due fratelli campani che si recavano al nord, per la precisione a Milano, in cerca del nipote, il giovane Gianni, che aveva abbandonato gli studi per correre dietro a una ballerina. Lo scontro tra i due zotici di buon cuore e il ritmo frenetico della metropoli dava vita a gag esilaranti, che sono rimaste celebri.
Le due scene più famose sono quelle della lettera e del colloquio col vigile. Qui sopra vi riportiamo la prima, in cui Totò detta a Peppino De Filippo una missiva strampalata e dirompente, in buona parte improvvisata al momento davanti alla cinepresa.
La seconda ve l’abbiamo segnalata con la foto in alto, con i due che chiedono informazioni a un vigile milanese.
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2. I soliti ignoti
Totò compare anche nel secondo film della nostra lista, I soliti ignoti, uscito nel 1958. Ma qui il suo ruolo è secondario, e il genere già mutato. Dai film comici ispirati all’avanspettacolo, infatti, con questa pellicola si apre il cospicuo e fruttuoso filone della commedia all’italiana.
Artefice di questo nuovo modo di realizzare i film fu, in primo luogo, Mario Monicelli, il regista, allora appena quarantatreenne. Nato a Roma ma cresciuto a Viareggio, aveva esordito molto giovane dietro alla macchina da presa, facendosi conoscere proprio grazie ad alcuni film di Totò.
Con l’andare degli anni e con la maturazione, però, aveva iniziato a concepire alcune idee proprie e innovative sul modo di fare cinema, circondandosi tra l’altro dei migliori professionisti del settore.
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Guardie e ladri, del 1951, fu ad esempio un primo tentativo di coniugare neorealismo e gusto del grottesco, mentre Padri e figli, del 1957, lo fece notare anche nelle rassegne internazionali, portandolo a vincere l’Orso d’argento al Festival di Berlino.
Ladri come noi
Tutto, insomma, sembrava pronto per un cambio di passo. Come vedremo, infatti, I soliti ignoti avrebbe aperto la via a una serie di commedie impegnate e dissacranti, come La grande guerra, L’armata Brancaleone, Il marchese del Grillo e altre.
I soliti ignoti si avvaleva di un soggetto scritto da Age & Scarpelli e di un cast di prim’ordine, anche se inconsueto per una commedia. I ruoli principali erano infatti affidati a Vittorio Gassman – fino ad allora solo attore drammatico –, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori e una giovanissima Claudia Cardinale.
Al centro della trama c’era una strampalata banda di ladri che veniva messa in piedi da un pugile un po’ suonato per cercare di rubare la cassaforte del banco dei pegni. Il piano prevedeva di entrare nella sala in cui era contenuta passando attraverso un appartamento contiguo.
Una serie di errori e di fraintendimenti rendeva però il colpo un vero e proprio fallimento, mostrando non solo l’incapacità dei protagonisti, ma più in generale la dabbenaggine di tutto un mondo – quello dell’Italia di allora – che si avviava ormai verso un inatteso miracolo economico.
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3. Amici miei
L’altro film di Monicelli che abbiamo scelto per la nostra lista è più tardo, e influenzato da un diverso modo di sentire, ma ugualmente dissacrante. E, soprattutto, ugualmente corale, visto che anche qui non c’è un protagonista unico, bensì piuttosto una banda (anche se, in questo caso, non di ladri ma di amici).
Il film di cui stiamo parlando è ovviamente Amici miei, lanciato nelle sale cinematografiche italiane nel 1975, in un momento in cui la commedia all’italiana era ormai da tempo in crisi. Le speranze degli anni ’50 avevano infatti lasciato il campo a una situazione più incerta, ad un futuro meno radioso, e anche i film comici si facevano inevitabilmente più acidi.
Oltre alla risate, sul film aleggia infatti un pesante velo di amarezza, di malinconia, di disincanto. Davanti alle contraddizioni della vita, infatti, i protagonisti usano il divertimento come forma di difesa, cercando tramite l’amicizia e la complicità di fuggire alle assurdità della vita moderna.
Un concetto che ritorna, tra l’altro, in varie opere di Monicelli, anche se a ben guardare Amici miei è suo solo per metà. Nei titoli di testa, infatti, si legge: “Un film di Pietro Germi“. E, poco dopo: “Regia di Mario Monicelli”.
Da Germi a Monicelli
Germi era stato uno dei maestri alla commedia all’italiana, mostrando tutto il suo talento in capolavori come Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata. Nei primi anni ’70 aveva quindi cominciato a lavorare ad un film su un gruppo di goliardici amici fiorentini, ma la malattia lo portò alla morte prima di concretizzarlo.
Monicelli quindi ereditò un progetto non suo. Dopo aver reso omaggio al padre di quei personaggi e di quella storia, ci mise però la propria mano, creando così un’opera particolarmente riuscita forse proprio grazie all’incontro tra due diverse sensibilità.
Il film ebbe, d’altronde, un successo straordinario e duraturo. Vinse due David di Donatello – uno a Monicelli, l’altro a Ugo Tognazzi – e diede origine a due sequel, operazione che allora era più rara di oggi. Sette anni dopo, nel 1982, uscì infatti Amici miei – Atto II e nel 1985, ma per la regia di Nanni Loy, fu la volta di Amici miei – Atto III.
Memorabili, in tutta la serie, le numerose “zingarate” dei protagonisti, cioè gli scherzi e gli sberleffi che i personaggi mettevano in atto contro il potere costituito. Tra tutte, la più celebre è la supercazzola, cioè uno sproloquio privo di senso il cui nome, inventato dagli autori, è diventato una parola usatissima in italiano.
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4. Fantozzi
L’altra grande saga comica degli anni ’70 è quella di Fantozzi. Una saga che è sostanzialmente agli antipodi di quella di Amici miei. Là c’era infatti un cast corale, qui c’è un mattatore che, pur coadiuvato da validi interpreti, tiene in piedi tutto il film.
Là i protagonisti erano uomini di mezza età, e gli stessi Germi e Monicelli venivano da lunghe carriere cinematografiche alle spalle. Qui, invece, il protagonista, Paolo Villaggio, era un quarantenne che aveva avuto varie esperienze cinematografiche, ma mai di primo piano, e aveva costruito invece la sua fama soprattutto in TV.
Anche il tipo di comicità era simile ma anche, allo stesso tempo, diversa. Come in Amici miei, anche Fantozzi, sottotraccia, era venato da una certa tristezza, da un gusto – qui anche più esasperato – per il grottesco. Ma il personaggio di Paolo Villaggio graffiava soprattutto quando faceva satira sociale.
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Il ragionier Ugo Fantozzi, come certamente sapete, era infatti un impiegato di basso livello della Megaditta, prototipo di tutti i travet che popolavano l’Italia del boom economico. Con la sua vita monotona, con le angherie dei superiori, con le aspirazioni frustrate rappresentava, comicamente, una buona fetta di italiani.
La saga
Villaggio aveva dato vita al suo personaggio un po’ alla volta. Inizialmente l’aveva presentato tramite alcune storie che raccontava alla TV, assieme a una pletora di altri impiegati sfortunati e miseri come Fracchia e Filini, che poi sarebbero ritornati in altre sue opere.
Poi, il settimanale L’Europeo edito da Rizzoli gli aveva chiesto di tenere una rubrica, e lui aveva soddisfatto la richiesta con una serie di brevi e tragici racconti che avevano il ragioniere come protagonista. Fino a quel momento, però, Fantozzi non si identificava ancora con Villaggio: era un suo vecchio collega di lavoro e nulla più.
Quei racconti ebbero un certo seguito e Rizzoli decise di trarne un libro. Anzi, due: Fantozzi, nel 1971, e Il secondo tragico libro di Fantozzi, nel 1974. Il successo editoriale spinse poi a trasportare le due opere al cinema, e nacque quindi l’adattamento del 1975, che divenne il film col maggiore incasso della stagione.
L’anno dopo si diede quindi vita, subito, al sequel, con ancora Villaggio e Salce a guidare la comitiva. Nacque così Il secondo tragico Fantozzi, che faceva il paio col primo e cementava nell’immaginario collettivo il personaggio di Villaggio. A quei due primi film ne sono seguiti poi altri 8, alcuni più o meno riusciti, altri decisamente dimenticabili.
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5. Il mostro
Per l’ultimo posto della nostra lista avevamo molti candidati. Volevamo, dopo aver celebrato i fasti degli anni ’50 e ’70, portarvi un po’ più avanti nel tempo, e avvicinarvi ai giorni nostri. Bisognava però trovare un film all’altezza di tanti importanti predecessori, cosa non facile.
Alla fine abbiamo scelto Il mostro, film del 1994 di Roberto Benigni, l’ultimo prima del grande successo internazionale di La vita è bella. Ma, limitandoci sempre a Benigni, avremmo potuto orientarci anche su altri suoi film, come Johnny Stecchino o Non ci resta che piangere (realizzato con Massimo Troisi).
Sono stati a un passo dall’entrare in lista, però, anche altri registi e comici. Ad esempio Carlo Verdone che, soprattutto con le sue prime opere (pensiamo a Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone), ha scritto pagine importanti del nostro cinema comico.
O ancora ad Aldo, Giovanni e Giacomo, che sono stati campioni di incassi con Tre uomini e una gamba. Senza dimenticare Checco Zalone, il mattatore degli ultimi anni. Ci sembra però che, slegandoci dal talento comico dei singoli interpreti e guardando al film nel suo complesso, Il mostro abbia qualcosa in più degli altri.
Il maniaco sessuale
Il film – che fu campione d’incassi quando uscì, superando pezzi da novanta come Il re leone e Forrest Gump [1] – racconta le disavventure di Loris, uno strano ma innocuo disoccupato. L’uomo vive in un grande condominio ed è in rotta con tutti i suoi vicini, in particolare con l’odiato amministratore.
Per una serie di equivoci, la polizia inizia purtroppo a sospettare che proprio Loris sia il maniaco sessuale – il “mostro” – che tormenta la città. Mancano però le prove. Per questo motivo si decide di utilizzare una giovane poliziotta, Jessica, per cercare di provocare l’uomo e coglierlo in flagrante.
Tra Loris e Jessica comincia quindi una strana frequentazione, con lei che si offre sempre più esplicitamente a lui e lui che invece si nega, nonostante la tentazione sia fortissima. L’effetto comico, venato da un forte ammiccamento erotico, è ben congegnato e crea vari momenti esilaranti.
Come in ogni buona commedia degli equivoci, il mistero viene alla fine chiarito e l’happy ending conclude la pellicola. Rimane comunque la sensazione di aver assistito a una commedia leggera e simpatica, ma anche intelligente, capace di giocare con le etichette, con la fama e con la diversità.
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Note e approfondimenti
[1] Il mostro fece benissimo anche nei successivi passaggi televisivi, come dimostra anche questo articolo del 1997. ↑