Cinque film muti famosi e importanti

Fotogramma di Metropolis, il film muto capolavoro di Fritz Lang

Ecco i cinque film muti importanti e famosi che abbiamo scelto: vota il tuo preferito.

 
Per noi spettatori di oggi – così abituati a spettacoli sempre più coinvolgenti, che spaziando dal 4D alla realtà virtuale – il cinema muto rappresenta ormai un elemento di curiosità, il retaggio di un’epoca antica che ci pare quasi debba essere confinata nei musei. L’uscita, qualche anno fa, di The Artist e il suo straordinario successo hanno però dimostrato che una grande storia non ha necessariamente bisogno del sonoro, e che per qualche anno il cinema mondiale ha avuto tutti gli strumenti di cui aveva bisogno per incantare il pubblico, anche se le voci degli attori non potevano essere ancora registrate.

La magia dei vecchi film di Charlot o di Buster Keaton, la meraviglia di certe pellicole russe (quelle di Sergej Ėjzenštejn in primis), l’inquietudine dei capolavori dell’espressionismo tedesco sono, anzi, difficilmente replicabili in un cinema che sfrutta e impegna così tanto tutti i sensi, e ben lo sapeva proprio lo stesso Chaplin, che non a caso ha continuato a sfornare pellicole mute fino al 1940, nonostante il mercato si fosse completamente convertito al sonoro dopo l’uscita de Il cantante di jazz del 1927.


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Allora, se tutto questo è vero, forse vale la pena cercare di recuperare i migliori capolavori dell’epoca del muto, per vedere se hanno ancora qualcosa da dirci; un compito tanto più semplice se si considera che ormai il copyright su quelle pellicole è scaduto da tempo (e quindi le si può vedere gratuitamente) e che il più delle volte le battute sono minime e comunque, ovviamente, scritte su cartelli che ne rendono più semplice la comprensione anche se non si dovesse reperire la versione in italiano. Ecco, dunque, quelli che a nostro avviso sono i cinque film muti più famosi ed importanti del periodo che va dall’inizio del Novecento al 1927.

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Il gabinetto del dottor Caligari

Il capolavoro dell’espressionismo tedesco

Il gabinetto del dottor CaligariPartiamo dal 1920 e dalla Germania. Il cinema, come saprete, nasce ufficialmente tra il 1891 e il 1895, prima con gli esperimenti di Thomas Edison e poi con la messa a punto dei fratelli Lumière, anche se per parlare di linguaggio cinematografico bisognerà aspettare ancora qualche anno, e in particolare l’avvento di David Wark Griffith, forse il primo vero regista in senso stretto.

Nel frattempo i film e le storie si fanno via via più lunghe e complesse, e dopo la fine della Prima guerra mondiale il pubblico pare essere pronto per qualcosa di completamente nuovo: a fornirglielo è, in primis, la scuola tedesca, molto vivace non solo sul versante cinematografico ma anche in quello artistico, visto che l’espressionismo sta in quegli anni diventando forse la più importante avanguardia pittorica europea.

Dalla pittura alla pellicola

Quando Robert Wiene – regista già di una certa età, ma da poco passato al cinema – prende in mano un soggetto elaborato da Hans Janowitz e dall’austriaco Carl Mayer, l’idea diventa quella di sfruttare i dettami della corrente pittorica e di trasferirli sulla pellicola cinematografica. Un’idea che riesce talmente bene da aprire un’intera corrente e da portare alla realizzazione di un film che è ancora oggi considerato uno dei vertici dell’arte cinematografica.

La storia, angosciante e allucinogena, è quella di un misterioso dottor Caligari che, girando nelle fiere di paese attorno agli anni ’30 dell’Ottocento, porta con sé un sonnambulo che obbedisce ad ogni suo ordine; sonnambulo che viene usato per compiere le peggiori nefandezze.

Ma, al di là della comunque interessante trama horror, è soprattutto l’atmosfera del film a rimanere impressa, grazie alle inquadrature piatte, al trucco esagerato (appunto “espressionista”) degli interpreti e alle scenografie completamente illogiche curate da Walter Roehrig, Walter Reimann e Hermann Warm.

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Come vinsi la guerra

Il genio di Buster Keaton all’opera

Come vinsi la guerra di Buster KeatonMentre in Europa dominavano temi mitologici e drammatici (se non addirittura angosciosi), dovuti probabilmente anche al clima post-bellico che in molti paesi non era dei più rosei, negli Stati Uniti i due generi che riscuotevano i maggiori consensi erano probabilmente quello avventuroso e quello comico. Per quanto riguarda questo secondo stile, molti interpreti raggiunsero in quegli anni una rapida (e a volte fugace) fama: Fatty Arbuckle, Harry Langdon, Ben Turpin o Harold Lloyd, solo per citare quelli che non riuscirono a riciclarsi dopo gli anni ’10 e ’20.

Il re del genere, escludendo Chaplin, era però indubbiamente Buster Keaton, un attore e un autore poliedrico, intelligentissimo e capace di giocare con tutti gli espedienti della macchina da presa. Tra tutti i suoi capolavori di quegli anni, probabilmente quello che per primo merita di essere recuperato è Come vinsi la guerra, del 1926.

Un ferroviere col cuore infranto

In quella pellicola, ambientata durante la Guerra di secessione e scritta e diretta assieme a Clyde Bruckman, Keaton interpretava un giovane ferroviere che veniva lasciato dalla fidanzata dopo non esser riuscito, suo malgrado, ad arruolarsi nell’esercito sudista. Ancora innamorato, riusciva però a salvarla dopo che questa viene rapita dai nordisti e anche a sventare un attacco a sorpresa contro l’esercito confederato, riguadagnandosi l’amore della sua bella.

Ma sono anche qui le trovate comiche a dominare la scena: Keaton è infatti un maestro dell’assurdo, capace di rovesciare ogni situazione con una soluzione inattesa e sorprendente.

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Metropolis

La fantascienza distopica di Fritz Lang

Metropolis di Fritz Lang, forse il più innovativo dei film muti mai prodottiRitorniamo in Germania per quello che è forse l’ultimo grande capolavoro espressionista, presentato per la prima volta a Berlino nel 1927: Metropolis di Fritz Lang. Il regista viennese si era trasferito nella capitale tedesca all’inizio del decennio, e qui aveva cominciato a collaborare con una scrittrice, Thea von Harbou, capace di fornirgli delle sceneggiature adatte al suo modo di intendere il cinema.

I due si sposarono già nel 1922: avrebbero vissuto insieme per una decina d’anni, fino cioè a quando, salito al potere il nazismo, lui decise di fuggire prima a Parigi (nonostante fosse il regista preferito di Hitler) e poi negli Stati Uniti mentre lei scelse di rimanere in Germania e collaborare col nuovo regime. Nel frattempo la coppia d’oro del cinema tedesco di allora aveva scritto e diretto i suoi due capolavori: appunto Metropolis e M – Il mostro di Düsseldorf.

Un’influenza durata a lungo

Metropolis è considerato, e giustamente, uno dei più grandi film di fantascienza di ogni epoca, fondamentale nello sviluppo del genere se è vero che con la sua estetica è riuscito ad influenzare anche pellicole come Blade Runner, uscite più di 50 anni dopo.

La storia è quella di un futuro distopico – siamo nel 2026 – in cui il mondo è diviso tra ricchi industriali che vivono in vertiginosi grattacieli e poveri operai costretti a lavorare nel sottosuolo, almeno fino a quando il figlio del padrone, Freder, non visita i bassifondi.

Tra scenografie che richiamavano lo skyline di New York nel suo boom economico e robot che avrebbero influenzato l’immaginario collettivo almeno fino a Star Wars, la pellicola si concludeva con un lieto fine e una sorta di pacificazione tra i sottomessi e i dominatori ideata dalla Harbou ma che lo stesso Lang avrebbe poi ripudiato.

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Aurora

Il dramma carico di speranza di Murnau

Aurora di Murnau, un classico del cinema mutoSicuramente, negli anni ’20 la Germania rappresentava l’avanguardia non solo europea per quanto riguarda la produzione cinematografica. Il terzo regista tedesco del nostro elenco è infatti Friedrich Wilhelm Murnau (pseudonimo dietro a cui si nascondeva Friedrich Wilhelm Plumpe), all’epoca giovane esponente dell’espressionismo tedesco.

Dormatosi a Berlino grazie all’aiuto dello sceneggiatore Carl Mayer (quello de Il gabinetto del dottor Caligari), che avrebbe scritto per lui molte sceneggiature, Murnau ottenne il suo primo successo con Nosferatu, adattamento del Dracula di Bram Stoker particolarmente cupo e inquietante, com’era nel costume dell’espressionismo. Quel successo gli permise di strappare un contratto con la 20th Century Fox e volare, nel 1926, negli Stati Uniti.

Un flop commerciale

Il primo film che realizzò in America fu Aurora, che è probabilmente il suo capolavoro, anche se non raggiunse mai il successo commerciale sperato visto che fu un mezzo flop all’uscita e che appena un anno dopo l’invenzione del sonoro avrebbe reso obsolete quella e molte altre pellicole.

La storia, scritta da Mayer a partire da un racconto di Hermann Sudermann, narrava di un uomo di campagna che veniva irretito da una donna di città, che dopo averlo reso suo amante lo convinceva a uccidere la moglie per iniziare una nuova vita con lei; il marito, dopo un’iniziale titubanza, però rinsaviva, anche se il destino sembrava non aiutarlo.

Il film si aggiudicò tre Oscar alla prima premiazione dell’Academy ma fu anche il canto del cigno di Murnau: le pellicole successive videro la pesante influenza dello studio cinematografico e non piacquero né a Murnau né al pubblico. Lo stesso regista venne a mancare appena quattro anni più tardi, in un incidente: aveva messo alla guida della sua auto il suo giovane amante, un quattordicenne filippino, e trovò la morte su una strada di Santa Barbara.

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La passione di Giovanna d’Arco

I primi piani di Carl Dreyer

Il manifesto inglese di La passione di Giovanna d'ArcoCome detto, Il cantante di jazz uscì nel 1927, ma ancora per qualche mese i cinema di tutto il mondo continuarono a proporre film muti, da un lato perché non si era sicuri che l’innovazione tecnologica avrebbe attecchito subito, dall’altro perché moltissimi film erano ancora in lavorazione con la vecchia tecnica.

Così nel 1928 poté comparire quello che è probabilmente l’ultimo grande capolavoro di quell’epoca, La passione di Giovanna d’Arco, diretto in Francia dal regista danese Carl Theodor Dreyer. Un film che, prendendo spunto dalla vicenda umana della pulzella d’Orléans e in particolare dal suo processo, diventò uno dei più grandi esperimenti registici della storia del cinema.

Il talento di Renée Falconetti

Il film doveva infatti in origine essere una ricostruzione in costume abbastanza convenzionale, ma fu modificato da Dreyer in corso d’opera. Insoddisfatto del primo materiale girato, infatti, il regista danese decise di costruire tutta la pellicola sui primi piani dei volti di Giovanna (magistralmente interpretata da Renée Falconetti) e dei suoi accusatori, non concedendo assolutamente nulla alla scenografia – che praticamente non si vede mai – o all’ambientazione.

Il risultato è un film che si rivela come una serie di inquadrature su volti grotteschi o doloranti, un vero viaggio nella passione di una donna che neanche troppo velatamente richiama la passione di Cristo.

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