Cinque foto che hanno fatto la storia

La bandiera sovietica sul Reichstag

Il Novecento è stato il primo secolo in cui la storia la si è potuta raccontare tramite immagini realistiche e, almeno in parte, attendibili. Già nei secoli precedenti le imprese dei re e dei condottieri erano state esaltate tramite affreschi, incisioni, statue. L’avvento della fotografia prima e del cinema e della televisione poi hanno però reso più complessa – ma anche più pervasiva – l’opera di propaganda del potere. Portando allo stesso tempo la storia in tutte le case a tutte le ore del giorno e della notte.

Non a caso, alcune immagini sono entrate nella storia. Il bacio a Times Square alla fine della Seconda guerra mondiale, il miliziano fotografato da Robert Capa durante la Guerra di Spagna o il ragazzo cinese in Piazza Tienanmen nel 1989 hanno contraddistinto un’epoca come forse più nessuna foto potrà fare in futuro. Lasciando da parte quelle immagini delle quali abbiamo già parlato in altri articoli (e che vi consigliamo di recuperare facendo un giro nella nostra sezione “fotografia”), vediamo quindi cinque foto che hanno fatto la storia.

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Vista dalla finestra a Le Gras

Nicéphore Niépce, Saint-Loup-de-Varennes, 1826

Vista dalla finestra a Le Gras, la più antica fotografia oggi conservataNon è facile stabilire quale sia stata la prima fotografia della storia. Vari esperimenti, ad inizio ‘800, venivano effettuati più o meno in contemporanea in varie parti del globo, e si rincorrevano l’uno con l’altro spesso anche nella completa ignoranza l’uno dell’altro.

Probabilmente, la più antica fotografia giunta fino ai nostri giorni è quella che vedete riprodotta qui di fianco, Vista dalla finestra a Le Gras. Fu realizzata nel 1826 dal francese Nicéphore Niépce, uno studioso che dopo una gioventù da rivoluzionario si era dedicato a registrare brevetti sulle più fantasiose invenzioni, dal motore a combustione interna agli apparecchi di propulsione per natanti.


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I suoi primi esperimenti sulla luce sono datati 1816. Affascinato dalle possibilità della litografia, tentò in quell’anno di applicarne alcuni principi alla cattura di immagini dal vero. Dopo numerosi esperimenti, in cui però non riusciva a fissare in maniera permanente sulla carta ciò che – con bitume, lavanda, cristalli di iodio e alcool – la luce gli dava, nel 1826 (o 1827, a seconda delle fonti) riuscì ad ottenere un’immagine permanente. La chiamò eliografia.

Quel prototipo di fotografia fu il frutto di un’esposizione di otto ore, tanto è vero che l’ombra del sole si vede da entrambi i lati degli edifici. Il lavoro di Niépce, che scomparve sette anni dopo questo successo, fu proseguito, tra gli altri, da uno dei suoi assistenti, quel Louis Daguerre che sarebbe divenuto il padre del dagherrotipo.

 

Madre migrante

Dorothea Lange, Nipomo (California), 1936

Madre migrante di Dorothea Lange, una delle foto che hanno fatto la storia del NovecentoSe gli inizi della fotografia si rintracciano nella vecchia Europa, e in particolare in Francia, gran parte del suo sviluppo lo si deve agli americani, che per primi ne compresero le potenzialità.

Mentre Capa si recava in Spagna assieme a Gerda Taro per immortalare gli eventi della guerra civile, negli Stati Uniti imperversava la Grande Depressione. In quella fase il governo del presidente Roosevelt scelse, oltre alle indagini tradizionali, di far svolgere anche dei servizi fotografici che – all’insegno del motto “un’immagine vale più di mille parole” e con fini in fondo di propaganda – potessero appunto “fotografare” la situazione di disagio della popolazione.

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Per questo scopo la Resettlement Administration assunse nel 1935 Dorothea Lange. La fotografa, nativa del New Jersey, si era formata in quella San Francisco in cui solo una manciata di mesi prima Ansel Adams aveva fondato il Gruppo f/64, devoto alla straight photography e alla rappresentazione realistica del mondo. La Lange rispose realizzando, nel 1936, quella che è la sua foto più celebre, Migrant Mother.

La foto ritrae Florence Owen Thompson, una donna di trentadue anni e madre di sette figli, già vedova e risposata, che si manteneva migrando con la sua famiglia lungo vari campi della California, a seconda della stagione. La fotografia – tra l’altro ritoccata cancellando la mano sinistra del soggetto, che teneva aperta la tenda – divenne un’icona della povertà e venne pubblicata da varie riviste e giornali.

 

La bandiera sovietica sul Reichstag

Evgenij Chaldej, Berlino, 1945

La bandiera sovietica sul ReichstagNei giorni finali del mese di aprile del 1945 si consumò l’ultima grande battaglia della Seconda guerra mondiale sul suolo europeo. I russi erano infatti penetrati in Germania e volevano prendere Berlino prima dell’arrivo degli angloamericani. Un obiettivo da perseguire sia per il morale del fronte interno, sia per confermare gli equilibri stabiliti dai vari incontri avvenuti tra Roosevelt, Stalin e Churchill.

Il 2 maggio l’esito positivo per l’Armata Rossa fu immortalato da una fotografia che ritrae alcuni soldati che issano la bandiera dell’URSS sul Reichstag, il Parlamento tedesco. Cioè su quello che ritenevano il simbolo del potere nazista, anche se in realtà era più che altro il simbolo della Repubblica di Weimar.


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La fotografia, diramata dall’agenzia sovietica TASS, fu effettuata da Evgenij Chaldej. Nonostante i 28 anni d’età, egli era il fotografo ufficiale dell’Armata Rossa e fu autore anche di numerose altre foto sovietiche sia di quegli anni che dei decenni successivi. Il suo nome, però, è poco noto in Occidente, da un lato a causa sia dello scarso peso che i sovietici davano ai fotoreporter, dall’altro a causa di persecuzioni che Chaldej subì in vita per via della sua origine ebraica e, pare, di alcuni problemi avuti con Stalin.

La foto fu realizzata ad arte con alcuni soldati trovati ai piedi del Parlamento quando la battaglia era ormai conclusa. E fu pure ritoccata: venne infatti aggiunto del fumo per aumentarne l’effetto scenico. Inoltre, fatto curioso, vennero ritoccate le braccia dell’uomo che sorregge il soldato con la bandiera. Questo avvenne perché nella foto originale quel soldato aveva due orologi, uno per polso, cosa che poteva lasciar pensare che l’Armata Rossa si fosse data al saccheggio.

 

L’impronta sulla Luna

Buzz Aldrin, Luna, 1969

L'impronta sulla Luna di Buzz AldrinTempo fa vi abbiamo parlato di Life, la celebre rivista americana che per molti anni è stata la Bibbia del fotoreportage. In essa hanno trovato posto le già citate immagini di Capa e Alfred Eisenstaedt, i ritratti di divi del cinema e le immagini dei grandi eventi sportivi.

In particolare, l’11 agosto 1969 la rivista mandò in edicola un numero speciale dedicato alle immagini dell’Apollo 11 che una ventina di giorni prima era arrivato sulla Luna. Lì trovavano spazio le fotografie scattate da Neil Armstrong, il comandante, e Buzz Aldrin, il suo secondo, i due uomini che avevano passeggiato sul suolo lunare.


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E se Armstrong aveva effettuato la maggior parte degli scatti, ad Aldrin si deve attribuire quello, celebre, dell’impronta da lui stesso lasciata sulla Luna. Quella a cui viene associata la celebre frase di Armstrong, «Questo è un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco balzo per l’umanità».

La foto, tra l’altro, è stata oggetto di molti studi da parte dei complottisti, che hanno cercato di rintracciare nell’ombra una presunta prova del fatto che gli astronauti non siano mai giunti sulla Luna. Dopo il ritorno sulla Terra e la gloria, Aldrin si dimise dalla NASA nel 1972, scivolando ben presto – per sua stessa ammissione – nella depressione e nell’alcolismo, da cui uscì con notevoli difficoltà.

 

L’uomo che cade

Richard Drew, New York, 2001

L'uomo che cade di Richard DrewNel nuovo secolo, l’evento che più di tutti ha cambiato il mondo – non solo quello occidentale – è stato l’11 settembre, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle. E anche in quel caso c’è un’immagine che più di tutte riassume l’angoscia di quelle ore e che ha avuto un grande impatto mediatico.

La mattina dell’11 settembre 2001 Richard Drew, fotografo della Associated Press che lavorava per l’agenzia dai tempi dell’omicidio Kennedy, si trovava a New York per la settimana della moda. A causa di una chiamata, si recò di corsa in metropolitana nella zona del World Trade Center e lì iniziò a scattare fotografie su quello che stava succedendo.

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In particolare, si accorse che varie persone iniziavano a lanciarsi dai grattacieli, preferendo quel tipo di morte a quella, forse più tragica, che li attendeva. E iniziò a fotografare queste persone – se ne registrarono in quelle ore circa duecento – che cadevano.

Uno scatto in particolare, dotato di una simmetria inquietante, venne nei giorni successivi pubblicato da vari giornali. A coglierne tutta la drammaticità furono soprattutto i romanzieri. Nel 2005 Jonathan Safran Foer concluse il suo Molto forte, incredibilmente vicino con una fotosequenza di uno di quegli uomini cadenti (realizzata però non da Drew, ma da Lyle Owerko). Due anni più tardi, Don DeLillo pubblicò L’uomo che cade, romanzo ispirato proprio a quella immagine.

 

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