Cinque frasi celebri di Enzo Ferrari

Un giovane Enzo Ferrari alla guida di un'Alfa Romeo

Enzo Ferrari è stato senza dubbio uno dei personaggi più originali, emblematici e mitici dell’industria italiana del Novecento. Dal nulla – o, meglio, da una carriera mediocre come pilota – seppe creare una casa automobilistica che è diventata un mito in tutto il mondo, giocando le sue carte non tanto sui numeri o sui bassi prezzi, ma sulla qualità, sul design, sulla potenza dei motori.

La sua storia – certo non priva di zone d’ombra e di un atteggiamento spregiudicato che gli valse anche un soprannome da pirata (Drake) – ha affascinato varie generazioni, creando un mito che il suo carattere schivo e riservato ha contribuito ad ingigantire.

Anche se non concedeva quasi mai interviste, però, il patron della casa del cavallino rampante ha lasciato alcune frasi in cui si mescolano ironia e profondità di visione, acutezza e autocritica; frasi che ci permettono di conoscere e comprendere meglio quel personaggio. Scopriamo le cinque più significative.

      

 

1. Quando un pilota muore

Il rapporto di Enzo Ferrari coi suoi piloti non fu mai semplice, nonostante egli stesso provenisse da quella carriera.

Nato a Modena nel 1898, si era appassionato alle auto e più in generale ai veicoli nell’officina del padre, che lavorava a stretto contatto con le locali ferrovie.

Enzo Ferrari con Tazio Nuvolari

Ma era stato dopo la Prima guerra mondiale che si era avvicinato realmente al mondo nascente dell’automobile, trovando impiego in varie officine per sostenere la famiglia a causa delle morti, in rapida successione, del padre e del fratello maggiore.


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Proprio spostandosi per lavoro tra Torino e Milano si era scoperto abile alla guida, e già nel 1919 aveva partecipato alle prime gare, guadagnandosi in fretta un ingaggio da parte dell’Alfa Romeo, che all’epoca era il marchio più prestigioso in Italia.

Per l’Alfa corse fino al 1931, anche se non riuscì mai ad imporsi veramente: la sua grande occasione era infatti arrivata nel 1924, quando aveva vinto la Coppa Acerbo e si era presentato come uno dei favoriti al Gran Premio d’Europa che si correva a Lione, ritirandosi però inspiegabilmente poco prima dell’inizio della corsa.

Il difficile rapporto con chi praticava quella che era stata la sua professione

Una volta passato dall’altra parte, nei box, aveva rapidamente scordato le prerogative dei piloti e aveva indossato i panni del manager, che mal sopporta le intemperanze di chi ha sotto contratto.

Se con Tazio Nuvolari il rapporto era stato tutto sommato buono – grazie soprattutto alla fama e al talento del pilota mantovano –, con altri corridori Ferrari non fu affatto tenero.

«Non gli andava bene che, in caso di vittoria, la maggior parte del merito andasse al pilota – scrisse Enzo Biagi, forse il giornalista che più di tutti si interessò alla sua parabola umana –. Ciò che contava, prima di tutto, erano i suoi motori».

Quando un pilota muore, almeno due donne svengono.

 

2. I motori sono come le donne

L’esperienza come pilota dell’Alfa Romeo si chiuse, come detto, nel 1931.

Il fattore decisivo non fu tanto l’età (Ferrari aveva 33 anni, un’età che all’epoca non rappresentava un problema nel settore), quanto la nascita del primo figlio, Alfredo detto Dino, chiamato come il fratello morto al fronte durante la Grande guerra e anch’esso, purtroppo, destinato a una morte prematura a causa della distrofia muscolare.

Un giovane Enzo Ferrari alla guida di un'Alfa Romeo
A quel punto Ferrari rimase ancora per qualche anno dentro all’Alfa ma poi, dovendo trovarsi un nuovo lavoro, decise di lasciare la ditta milanese e di fondare, con la liquidazione, una propria casa automobilistica, denominata Auto Avio Costruzioni.

Produsse alcune autovetture subito prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, ma nel dopoguerra lasciò progressivamente cadere quel marchio per dedicarsi al suo nuovo “figlioccio”, la Scuderia Ferrari, che fece esordire nelle corse automobilistiche nel 1950.

I motori sono come le donne: bisogna saperli toccare nelle parti più sensibili.

      

 

3. La macchina perfetta

L’esperienza maturata all’Alfa Romeo e soprattutto l’aiuto di tecnici che si era portato dietro anche dalla Fiat e da altre aziende permisero a Ferrari di diventare subito competitivo. Già nel 1951 il suo José Froilán González conquistò il primo GP per il cavallino, staccando le auto dell’Alfa e dando l’impressione che un’epoca fosse vicina al tramonto.

Un’impressione che si trasformò in certezza quando, l’anno successivo, la casa milanese decise di ritirarsi dalle corse dopo vari lustri di onoratissima carriera (e dopo aver vinto i due precedenti titoli mondiali), per potersi dedicare appieno alle auto da strada.

Enzo Ferrari, sulla destra, fotografato assieme a Tazio Nuvolari e alla sua squadra
Così Ferrari poté portare già nel 1952 un suo corridore, Alberto Ascari, alla vittoria del titolo iridato, riaggiudicandosi poi varie altre volte il primo premio sia tra i piloti che tra i costruttori.


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Certo non furono sempre rose e fiori tra la scuderia di Maranello e i Gran Premi: fino alla morte del Drake, avvenuta nel 1988 alla veneranda età di 90 anni, i periodi di grandi successi si alternarono a quelli di delusione; basti pensare al lungo digiuno di titoli tra il 1964 e il 1975, interrotto dall’arrivo in scena del talento di Niki Lauda.

La macchina da corsa perfetta è quella che si rompe appena dopo il traguardo.

 

4. Peggiore degli altri

Molto inchiostro è stato versato riguardo al carattere non certo semplice di Enzo Ferrari; e lo si è fatto perché lo stesso Ferrari raramente parlava coi giornali (nonostante, da ragazzino, uno dei suoi sogni fosse stato proprio quello di diventare un giornalista sportivo), rendendo enigmatiche in certi frangenti sia la sua figura che le sue scelte.

«Ho avuto un grande papà – ha spiegato anni dopo la sua dipartita il figlio Piero –, terribilmente esigente, duro ma anche tenero. Nel carattere conservo tanti punti in comune, soprattutto quando mi arrabbio. Ma ciò che lo differenziava da tutti era il carisma, quel fascino misterioso che lo elevava sempre rispetto agli altri».

Un primo piano del fondatore della scuderia di Maranello
Parte di questo carattere duro, quindi, si deve alla sua innata voglia di primeggiare, di portare la sua casa automobilistica sul tetto del mondo.

Molte altre frasi che avrebbero potuto figurare in questa nostra lista, infatti, puntano proprio in quella direzione: «Giù le mani dalla Ferrari: di me dite quello che volete», «Ho trovato uomini che indubbiamente amavano come me l’automobile.

Ma forse non ne ho trovati altri con la mia ostinazione, animati da questa passione dominante nella vita che a me ha tolto il tempo e il gusto per quasi ogni altra cosa. Io non ho alcun diverso interesse dalla macchina da corsa» o «Io non ammaino niente. Deciderà il Padreterno».

Mi ritengo peggiore degli altri, ma non so quanti siano migliori di me.

      

 

5. Essere qualcuno

Concludiamo con un cenno ai successi extra-automobilistici di Enzo Ferrari. Se, infatti, la sua vita privata non fu scevra di dolori – su tutti, quello per la perdita del primo figlio, che cercò di curare e seguire a lungo lui stesso prima che la malattia diventasse incurabile e ingestibile –, la sua vita pubblica invece gli diede grandi soddisfazioni.

Non da ultime, alcune lauree honoris causa, che – per un ragazzo che non aveva potuto studiare per mantenere la famiglia – erano motivo di grande orgoglio. Tra quelle ricevute, si vantava in particolare di quella in Ingegneria meccanica attribuitagli dall’Università di Bologna nel 1960.

Enzo Ferrari durante il conferimento di una delle sue numerose lauree honoris causa
Ma i titoli non furono solo accademici: già nel 1924 era stato fatto Cavaliere, diventando poi nel 1927 Commendatore. Nel 1962 ricevette poi il prestigioso Premio Hammarskjöld rilasciato dall’ONU, mentre tra il 1994 e il 2000 è stato introdotto nelle Hall of Fame rispettivamente delle corse automobilistiche e dell’automobile.

Con tanti riconoscimenti, mi è venuto il dubbio di essere qualcuno.

 

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