Cinque frasi di Blaise Pascal tratte dai “Pensieri”

Blaise Pascal, autore dei Pensieri, in un celebre ritratto

Ci sono filosofi che sanno costruire riflessioni articolate, complesse, profonde, che – una volta comprese – modificano il tuo modo di vedere il mondo. Ma ci sono anche filosofi che magari usano un linguaggio molto più semplice, ma riescono a dire quello che forse già sapevi ma non eri mai riuscito a concretizzare. A questa seconda schiera appartiene sicuramente Blaise Pascal, uno dei pensatori tradizionalmente più amati dagli studenti. I suoi Pensieri, pubblicati per la prima volta nel 1669, e cioè dopo la sua morte, sono anzi uno dei pochi libri che gli studenti leggono e gustano anche da soli, privi di particolare preparazione.

Il fatto che il volume sia semplice, non vuol dire però che sia superficiale. A rileggerlo oggi, anzi, appare di una profondità tale che è nostra convinzione che pochi altri autori, nella storia dell’umanità, abbiano saputo toccare le corde dell’animo umano con altrettanto vigore. Se, infatti, si possono contestare le conclusioni e le scelte di vita del matematico francese, è molto più difficile non trovarsi d’accordo con lui quando analizza l’uomo, le sue pecche e i suoi limiti. E non è un caso che l’esistenzialismo, una corrente sorta tre secoli dopo la pubblicazione di questo libro, gli sia profondamente debitore.


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Ma quali sono le cinque frasi più significative di quel volume? Quali i pensieri più rivelatori? Ne abbiamo scelti cinque, che useremo anche per presentarvi almeno a grandi linee la sua filosofia.

 

L’uomo non è che una canna

«Un nulla rispetto all’infinito»

Cercheremo, in questo articolo, di non dilungarci troppo con le nostre parole, lasciando invece parlare Pascal, che sa essere molto incisivo senza bisogno di ulteriori aggiunte. Partiamo, quindi, dalla sua visione dell’uomo, che viene delineata già nei primi pensieri e poi ritorna però lungo tutta l’opera. Una visione che è molto particolare, anche se non completamente inedita, visto che ha i suoi antecedenti nell’opera di Montaigne e dei saggi antichi. Una visione che inquadra l’uomo in una posizione ambivalente, sospeso tra il grande e il piccolo, tra la meraviglia e il fango.

Che cos’è in fondo l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla; un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto. Infinitamente lontano dall’abbracciare gli estremi, la fine delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l’infinito dal quale è inghiottito.

Così si arriva forse alla citazione più celebre di Pascal: l’uomo è come una canna. Ma una canna che pensa. E quindi è fragile, debole, insulso e insignificante, ma con dentro di sé qualcosa di divino: il pensiero. L’uomo è inferiore all’universo; ma l’uomo lo sa, mentre l’universo non sa nulla.

L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente.

 

La ricerca delle cose

Proiettati verso il futuro

Questa ambivalenza umana ci porta a vivere sostanzialmente male la nostra vita. O quantomeno a non coglierne – a non volerne cogliere – la grandezza. Per non pensare alla nostra condizione, per non vivere il nostro presente, che è fatto inevitabilmente anche di miseria, cerchiamo di scappare da noi stessi e rifugiarci nelle cose. Cose che però non gustiamo mai per ciò che sono. Più delle cose ci interessa la ricerca delle cose, perché è quello che ci tiene in costante tensione, protesi verso qualcosa che ancora non abbiamo. E infatti, come direbbe Schopenhauer, appena realizzato un desiderio subito ne nascono mille altri.

Non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose.

Tutto questo ci porta a non vivere mai il presente, ma sempre proiettati nel futuro. E quindi ad allontanare, davanti a noi, la nostra felicità.

Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo, è solo per prenderne il lume al fine di predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad esser felici, è inevitabile che non siamo mai tali.

 

L’infelicità e il pensiero

L’importanza del saper stare da soli

Come detto, per Pascal gli uomini non solo non accettano la loro miseria costitutiva, ma fanno di tutto per non doverla affrontare. E, visto che questa condizione emerge soprattutto quando si ha il tempo di riflettere e di staccarsi da tutti gli impegni quotidiani, gli uomini tendono a riempirsi la vita di mille occupazioni.

Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera.


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Per Pascal, infatti, è paradossale che ad esempio l’uomo non pensi mai alla morte, anzi rifiuti di affrontare l’argomento. È paradossale perché la morte è l’unica certezza della nostra vita, l’unica eventualità con cui tutti prima o poi dobbiamo fare i conti. Ma l’uomo pensa che la felicità stia, appunto, nel rimandare il più possibile il problema.

Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria e l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici.

 

Il divertissement

La fuga dalla noia

Arriviamo, dunque, al cuore del problema. Questa fuga, questo non voler pensare alla propria condizione viene riassunto da Pascal con un termine che è decisivo nella sua filosofia: divertissement (a seconda delle edizioni, tradotto con “divertimento” o lasciato uguale all’originale francese). Questa parola va però intesa in senso etimologico: divertimento nel senso di direzionare le nostre attenzioni verso diverse cose. Proprio perché preferiamo perderci in mille affari piuttosto che pensare alla nostra vita. Solo che così portiamo avanti un’esistenza insensata, della cui vacuità ci accorgiamo solo davanti alla morte.

L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte.

 

Ridersela della filosofia

Cuore e ragione

E la filosofia, che ruolo ha in tutto questo? Può la filosofia salvarci da questa condizione? La risposta che dà Pascal è no: solo la fede può portarci alla vera felicità. La filosofia, però, non è inutile. Essa può, infatti, aiutarci a comprendere i limiti della filosofia stessa, oltre che della scienze e del pensiero comune. In questo senso, farsi beffe della filosofia, cioè mostrarne i limiti e i difetti, è l’unico vero modo di fare filosofia.

Ridersela della filosofia significa filosofare per davvero.

Per quanto riguarda la verità, questa non è sempre accessibile alla ragione dimostrativa, a cui sfugge il senso profondo delle cose. Questo senso profondo si può solo intuire, usando quello che Pascal chiama “il cuore”. Che non è un’espressione che prelude a qualcosa di sentimentale, quanto piuttosto l’uso di quello “spirito di finezza” che permette di giungere al nocciolo delle questioni, senza ragionamento, comprendendo la verità delle cose.

Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

 

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