
Forse non si è mai parlato così tanto di lavoro come in questi ultimi anni. E questo è in un certo senso un paradosso, perché uno dei grandi problemi dei nostri tempi è proprio la mancanza di lavoro. Certo, il problema è complesso: di lavoro in realtà in parte ce n’è, solo che si è fatto molto più precario. Si è fatto più instabile, come incerti e instabili si sono fatti anche in buona parte i diritti dei lavoratori. E forse anche per questo è utile, proprio in questo momento, prendere in mano alcune interessanti frasi sul lavoro.
Ne abbiamo selezionate cinque, di tono e di argomento anche piuttosto diverso l’una dall’altra. Sono frasi che potete tranquillamente dedicare a chi ha appena trovato un lavoro, a chi l’ha appena cambiato, o anche a chi lo sta cercando e fa fatica a trovarlo.
Sono frasi che in certi casi denotano anche i problemi di questo mondo, ma in altri affrontano questi temi con un certo ottimismo, mostrando che il lavoro sta cambiando ma non è detto che tutti i cambiamenti siano sempre in peggio.
Come vedrete, non sono firmate da economisti o da specialisti del mondo del lavoro. Se avessimo scelto di riportarvi parole di quel tipo, questo articolo sarebbe risultato noioso e fin troppo tecnico. Abbiamo invece optato per frasi scritte da filosofi, da sociologi e perfino da umoristi, perché vogliamo sottolineare il lato umano del lavoro.
Ecco quindi le cinque frasi che abbiamo scelto, con anche qualche nota sul loro autore e sul loro significato più profondo.
Indice
1. Amare il proprio lavoro
Cominciamo con una frase che sarebbe potuta benissimo essere anche l’ultima del nostro elenco. È un’affermazione, infatti, che si concentra sulle prospettive future del lavoro più che non sulla sua condizione attuale, sulla strada da intraprendere da qui in poi.
Ha però la particolarità di non essere firmata da uno studioso del campo o da un poeta, ma da un cineasta, Roberto Benigni. Un cineasta che però ha dimostrato in varie occasioni di avere l’autorevolezza necessaria per parlarci del mondo che ci circonda.
Amare il proprio lavoro è la vera e concreta forma di felicità sulla terra. Quello che spetta alle future generazioni, ai futuri governi è far sì che ciascuno ami il proprio lavoro. Un sogno da Woodstock. Perché con la disoccupazione le persone non perdono solo il lavoro, perdono se stesse.
(Roberto Benigni)
La frase è interessante proprio per la sua ambivalenza. Da un lato disegna un futuro molto interessante, carico di speranza. Dall’altro però, come in un certo senso ogni opera fantascientifica, finisce per mettere in risalto anche le difficoltà dell’oggi, il fatto che a quel futuro così intrigante non siamo ancora giunti.

La citazione si concentra infatti sull’amore per il lavoro, un amore che qualcuno sicuramente già prova ma che va costruito creando anche occasioni di lavoro sempre più interessanti, sempre più stimolanti, sempre meno alienanti.
Tra Karl Marx e Roberto Benigni
La frase infatti ha un suo senso se paragonata all’analisi del lavoro fatta da Marx attorno alla metà dell’800. Il grande filosofo, infatti, fu quello che meglio di tutti riuscì a sintetizzare l’aspetto disumanizzante del lavoro di fabbrica, introducendo il concetto di alienazione.
L’obiettivo, da lì in poi, è diventato quello di migliorare certo le condizioni del lavoratore, ma anche di superare questa situazione, andando verso un mondo in cui i lavori di fatica fossero sempre più affidati alle macchine. E in cui però l’uomo non diventi un disoccupato, ma trovi un’occupazione creativa, carica di soddisfazioni.
È proprio in questo senso che va quindi interpretata la frase di Roberto Benigni: il futuro ci offre questa possibilità, che però starà a noi saper sfruttare maniera equa e completa.
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2. Lavorare come se si volesse vivere in eterno
Dicevamo in apertura che in questo nostro articolo non troverete frasi di economisti ma più che altro di liberi pensatori. E nella seconda posizione del nostro elenco abbiamo scelto di piazzare quello che in realtà è qualcosa di più di un libero pensatore: Martin Lutero.
Come certamente saprete si tratta infatti dell’autore del più profondo scisma della chiesa cristiana, il fondatore cioè del luteranesimo e colui il quale ha aperto la via al protestantesimo.
Monaco agostiniano, professore universitario e sacerdote, Lutero sconquassò l’Europa cristiana all’inizio del XVI secolo. Tutto partì, in realtà, da una polemica di carattere più morale che teologico.
Come ricorderete, infatti, Lutero si scagliò contro la vendita delle indulgenze, una pratica che la Chiesa cattolica allora utilizzava per raccogliere facilmente fondi con cui finanziare le proprie opere, anche quelle non religiose.
Il lavoro e la riforma di Lutero
Lutero però non si è accontentato di una mera polemica sul denaro. Appoggiato da vari nobili tedeschi, che vedevano con fastidio le ingerenze di Roma, andò rapidamente ad elaborare anche una propria idea di riforma che affondava le radici sulla lettura proprio di Sant’Agostino ma che soprattutto delineava un nuovo tipo di cristiano.
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Le conseguenze di questa diversa visione del mondo sarebbero emerse in realtà solo col tempo, nei decenni e nei secoli successivi a Lutero. E sarebbero state sottolineate a loro volta da un sociologo tedesco, Max Weber, nel corso del XIX secolo.
Bisogna lavorare come se si volesse vivere in eterno, ma vivere come se dovessimo morire adesso.
(Martin Lutero)
Fu lui infatti a rilevare che il protestantesimo, rispetto al cattolicesimo, aveva favorito nei paesi del nord Europa il sorgere di un vero spirito imprenditoriale. E sostenne quindi che questa religione era alla base del capitalismo.
D’altra parte, l’idea della predestinazione, che in maniera più o meno esplicita emergeva in tutte le chiese riformate, paradossalmente spingeva gli uomini a lavorare di più, a produrre e a rischiare maggiormente. Per essere certi di essere tra gli eletti, cioè tra quelli che Dio aveva scelto di salvare, cercavano infatti conferme nel successo economico.
Il lavoro come una chiamata
Ma questa spinta al lavoro era presente anche nei primissimi scritti di Lutero, che non mancano mai di sottolineare l’importanza della fatica anche manuale. Ogni cristiano doveva essere sacerdote e però era anche chiamato a guadagnarsi da vivere con il proprio sudore. Il lavoro diventava quindi un segno della Grazia divina.

Lo spiega bene anche questa fase che abbiamo scelto, che con toni in parte poetici ci mostra la vera filosofia di fondo di Lutero.
Bisogna cioè essere sempre pronti alla morte ma allo stesso tempo lavorare per qualcosa di più grande che vivrà dopo di noi. E questa è in un certo senso la forma mentis dello stesso capitalismo, che però qui ha una valenza addirittura religiosa.
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3. I mali da cui il lavoro ci allontana
Ci sono mille motivi per odiare il lavoro. Ci assorbe energie anche quando avremmo solo voglia di riposarci, ci occupa il tempo quando vorremmo in realtà andare altrove, ci detta i ritmi e ci controlla in un certo senso la vita. E però, nonostante tutto questo, non è così raro che quando si va in pensione si senta la mancanza del proprio impiego.
Perché, nonostante tutti i difetti che abbiamo già elencato, il lavoro ha anche dei pregi. Soprattutto quando la propria occupazione è appagante e sa dare qualche soddisfazione. Voltaire, il celebre filosofo francese, sintetizza proprio questi pregi nella frase seguente.
Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno.
(Voltaire)
In primo luogo, il lavoro ci impedisce di annoiarsi. In un giorno feriale, infatti, non si ha proprio il tempo per rigirarsi i pollici: si deve correre in ufficio, si deve ottemperare a tutte le pratiche che ci sono state affidate, e anche quando ci si prende una breve pausa la si gusta fino in fondo.
Al contrario, quando siamo in ferie non è raro trovarsi ad un certo punto senza nulla da fare, a meno che non si abbiano hobby che assomigliano in qualche modo al lavoro.
Il vizio e il bisogno
La seconda cosa sgradevole da cui il lavoro ci allontana è, secondo Voltaire, il vizio. In effetti il lavoro ci dà una certa disciplina: ci costringe ad alzarsi presto la mattina, ci obbliga a cercare di fare le cose nel miglior modo possibile e nel minor tempo possibile. Ci costringe anche a rapportarci con gli altri, nel bene e nel male.
I disoccupati lo sanno bene: il rischio infatti quando si sta lontani dal luogo di lavoro è quello di lasciarsi un po’ andare. E quindi di non riuscire a coltivare le proprie virtù.

Infine, Voltaire sottolinea che il lavoro ci allontana anche dal bisogno. In effetti quello è l’aspetto più positivo di qualsiasi lavoro: il fatto che a fine mese arriva lo stipendio, a volte più alto, altre volte più modesto. È il motivo principale per cui si lavora: quello di avere dei soldi per campare e, ogni tanto, togliersi degli sfizi.
Voltaire
Ma chi era questo Voltaire di cui avrete sentito parlare spesso e che ha formulato questa frase così azzeccata? Cercando di essere sintetici possiamo dire che è stato uno dei principali filosofi del ‘700, capofila del movimento illuminista francese.
Si batté a lungo contro la religione cattolica, ritenuta incapace di portare l’uomo alla virtù e colpevole anzi di tenerlo ancorato alla paura e alla passività.
Come tutti gli illuministi, infatti, sognava una società più aperta, più libera e più intraprendente, in cui ogni uomo avrebbe potuto impegnare il proprio ingegno in maniera produttiva senza vincoli. E così facendo avrebbe recato vantaggio a se stesso e agli altri.
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4. Liberarci dal lavoro?
In mezzo a tante frasi che esaltano il lavoro attivo e il suo carattere sociale, abbiamo deciso di inserire anche una voce critica, legata soprattutto alla contemporaneità. Perché negli ultimi due secoli il lavoro ha perso in un certo senso la sua aura di grandezza e viene sempre più visto come qualcosa di sfuggente o addirittura come una maledizione.
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La frase che trovate qui di seguito è firmato da Umberto Galimberti, uno dei più importanti filosofi italiani viventi. La sua è però una riflessione che va anche oltre la filosofia e si collega con la storia e soprattutto con la sociologia attuali. Perché il lavoro si è voluto e le nostre speranze con esso.
È evidente che più la società si fa tecnologica, più si riducono i posti di lavoro. E paradossalmente quello che è sempre stato il sogno più antico dell’uomo: la liberazione dal lavoro si sta trasformando in un incubo.
(Umberto Galimberti)
Il lavoro dell’età pre-contemporanea, quella a cui fanno riferimento alcuni dei pensatori che abbiamo citato, era un lavoro ancora prettamente manuale. Si coltivava la terra o si lavorava in una bottega, in maniera più o meno artigianale.
Negli ultimi due secoli, però, abbiamo assistito ad alcune radicali modificazioni nel modo di lavorare, conseguenza dell’avvento della rivoluzione industriale e della fabbrica.
L’avvento della tecnologia
L’uomo, lo diceva già Marx, ha perso quindi così il suo amore per il lavoro e in un certo senso pure la sua dignità. Con i compiti ripetitivi della fabbrica non trovava più le soddisfazioni e le libertà che il lavoro precedente gli dava.

La speranza, per molto tempo, è stata però che la tecnologia ci potesse liberare prima o poi da questo fardello. Che nelle fabbriche quei lavori così ripetitivi, noiosi ed alienanti potessero essere presto o tardi affidati a delle macchine o dei robot.
Insomma, la soluzione a un problema ha comportato il sorgere di un problema nuovo, che non ci si aspettava e che non si era pronti ad affrontare. Servirà tempo prima che si trovi una soluzione equilibrata, ma nel frattempo la cosiddetta “classe operaia” sta pagando il prezzo di questi cambiamenti.
Verso il terziario avanzato
E, attenzione, il problema non riguarda più nemmeno solo la fabbrica. Il numero degli addetti in quel settore sta calando progressivamente, almeno nei paesi più avanzati. Ma il rischio della meccanizzazione ormai investe anche il settore terziario.
La società tecnologica presenta, d’altronde, milioni di opportunità ma anche altrettanti rischi. E si muove talmente in fretta da renderci impossibile fare previsioni affidabili e fondate.

Ci sarà un futuro in cui nessuno sarà costretto a lavorare, perché tutta la fatica sarà affidata alle macchine? E avremo comunque di che vivere, non lavorando? Solo il tempo potrà dircelo.
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5. Una frase divertente sul lavoro
Concludiamo, dopo vari incoraggiamenti e un po’ di tristezza, con una frase divertente sul lavoro. L’abbiamo tratta da un fumetto che da molti anni, in Italia e non solo, è sinonimo di comicità irriverente: il Lupo Alberto di Silver.
Come certamente sapete, il protagonista di questa striscia nata nel 1973 è appunto un lupo che gravita attorno alla fattoria McKenzie. Come ogni buon lupo, il suo principale obiettivo sono le galline della fattoria, e in particolare una, Marta.
Il lavoro mi perseguita, ma io sono più veloce.
(Lupo Alberto)
A differenza di quanto si potrebbe pensare, però, il lupo non vuole affatto mangiarsela, ma portarla fuori per un appuntamento galante. Tra i due animali c’è infatti uno strano rapporto d’amore, contrastato dal cane da guardia della fattoria, il burbero Mosè.
D’altronde, Alberto viene presentato fin dalle prime strisce come un personaggio poco raccomandabile. Non è certo un delinquente, ma ha l’andamento dello sfaticato, del nullatenente, del giovinastro che non ha niente a che spartire con l’operosità della fattoria.
Il lavoro e come sfuggirgli
Per questo la frase che abbiamo riportato sopra – e che ritrovate anche qui di seguito, in un formato ad immagine perfetto per essere condiviso sui social – sta benissimo in bocca a questo personaggio. Anche perché la velocità è un elemento essenziale per le storie di Silver.
La serie, come detto, è stata creata nel 1973 da Guido Silvestri, in arte Silver. All’epoca l’autore aveva poco più di vent’anni e lavorava come collaboratore di Bonvi, il creatore delle Sturmtruppen. Questo fumetto però presto lo rese uno dei fumettisti più popolari d’Italia.
Dopo aver presentato il suo personaggio sul Corriere dei Ragazzi passò a proporlo su diversi altri giornali, oltre a raccoglierne le avventure in decine di volumi. All’inizio sfruttava il formato a striscia all’americana, ma dalla metà degli anni ’80 Silver preferisce la struttura a tavole, con uno sviluppo quindi più arioso.

Da anni inoltre le tavole di Lupo Alberto compaiono – oltre anche ogni mese sul mensile che porta lo stesso nome – anche sul diffusissimo settimanale TV Sorrisi e Canzoni.
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Note e approfondimenti