Cinque frasi sulla creatività che vi ispireranno

Le migliori frasi sulla creatività

Tutti noi, di tanto in tanto, abbiamo bisogno di lasciare andare la fantasia, di rompere gli schemi, di pensare in maniera diversa dal solito. È una sorta di esigenza scritta nell’animo dell’uomo, che a volte ci conduce verso novità inaspettate e altre volte può essere anche deleteria, portandoci fuori strada o fuori rotta. In genere, quelli che riescono a convogliare meglio questo desiderio e questa capacità sono gli artisti, che possono usarla per creare qualcosa di importante e innovativo. Forse anche per questo, in molti nel corso della storia hanno cercato di formulare delle frasi sulla creatività che possano in qualche modo sintetizzare il segreto che sta dietro a questa strana capacità.

Nelle società più antiche, anzi, la creatività era ritenuta qualcosa di divino, qualcosa che solo chi veniva ispirato da un Dio poteva mettere in pratica. Con l’andare nei secoli, invece, si è capito che la creatività ha più componenti.

Da una parte c’è sicuramente l’ispirazione, cioè qualcosa di inesprimibile e irrazionale che sa guidare l’artista o comunque il creativo verso certe direzioni. Dall’altra però si è anche capito che la creatività non è solo inventiva: c’è anche metodo, lavoro, studio e fatica.

E probabilmente ci sarebbe ancora moltissimo altro da dire per cercare anche solo di sfiorare il problema della creatività. Invece di farlo noi, però, lasciamo che siano gli stessi creativi a farlo.

Abbiamo scelto infatti cinque frasi che ci sembrano le migliori su questo tema. Ve le presentiamo qui di seguito, corredate da una breve biografia della persona che le ha scritte e pronunciate per la prima volta.

 

1. Sul ciglio di un burrone

La storia del cinema è piena di personaggi creativi e vulcanici, certo, ma anche di abili professionisti. Personaggi, questi ultimi, che hanno molta poca intenzione di innovare all’interno del loro campo e però sono molto bravi ad applicare ricette già confezionate e a renderle fruttuose.

Orson Welles in una celebre foto di Carl Van Vechten

Alla prima tipologia, quella dei creativi, però appartiene una figura come quella di Orson Welles, celebre regista di Quarto potere e di numerosi altri capolavori. Il cineasta, nato nel Wisconsin nel 1915, si fece notare già giovanissimo per la sua fervida fantasia.

Come forse saprete, negli anni ’30 conduceva infatti un programma radiofonico della CBS, in cui proponeva alcuni classici della letteratura.

Durante la puntata dedicata a La guerra dei mondi, il romanzo di fantascienza di H.G. Wells, decise di renderlo in maniera fin troppo realistica, tanto che mezza America si spaventò, convinta che gli Stati Uniti fossero stati invasi dagli alieni.

La creatività di Orson Welles

Grazie a questo successo, Welles poté portare la sua fantasia al cinema, realizzando subito uno dei più bei film della storia di questo mezzo, appunto Quarto potere. Un film in cui ogni inquadratura era piena d’invenzione, di novità, anche di rottura con la consuetudine.

Queste sue caratteristiche sarebbero emerse anche nei film successivi, spesso però di difficile realizzazione.

Gli impiegati stanno al sicuro, i creativi su qualche ciglio di burrone – che è proprio il posto loro, naturalmente.
(Orson Welles)

Per tutta la sua carriera, infatti, ebbe sempre un rapporto conflittuale con i produttori, più interessati al successo al botteghino che alla resa artistica delle pellicole. Negli anni ’40 arrivò a realizzare ben cinque film, ma nei decenni successivi, infatti, i suoi progetti trovarono vari ostacoli e furono più volte abbandonati e poi ripresi.

Tra i più riusciti bisogna citare sicuramente lo straordinario L’infernale Quinlan, del 1958, ma anche La signora di Shanghai e Otello. In ogni caso il suo rapporto con la creatività rimase sempre complesso, di difficile risoluzione, e però affrontato anche con una certa ironia.

Gli orologi a cucù

La frase che indichiamo in questo paragrafo è in questo senso significativa, e viene dal bel libro-intervista di Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Orson Welles.

Ci piacerebbe però ricordarne anche un’altra. Welles infatti fu anche attore di un certo talento e recitò in vari capolavori del noir. Tra questi bisogna menzionare Il terzo uomo, diretto nel 1949 dall’inglese Carol Reed e vincitore del Grand Prix a Cannes.

In quella pellicola Welles interpretava il cinico Harry Lime, personaggio privo di scrupoli che però, ad un certo punto, se ne usciva con una battuta memorabile. Una battuta che, a detta dello sceneggiatore Graham Greene, fu improvvisata dallo stesso Welles e che quindi fotografa molto bene il suo talento caustico e imprevedibile.

In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.

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2. Come Dio

Abbiamo accennato a come Orson Welles abbia avuto varie difficoltà nel corso della sua vita. Ma quelle del cineasta americano non sono paragonabili a quelle patite da Sándor Márai, grande scrittore ungherese.

Sándor MáraiNato nell’attuale Slovacchia da una famiglia appunto ungherese e di antico lignaggio, Márai ha attraversato con la sua vita tutto il ‘900. Non è un caso che il suo anno di nascita sia proprio il 1900 esatto, l’anno che apriva il nuovo secolo. E le ferite di quel periodo storico che Eric Hobsbawm ha definito “breve” si trovano tutte impresse nella biografia di Márai.

Dopo la formazione in Ungheria, decise di trasferirsi in Germania per studiare giornalismo. Qui, grazie anche al denaro paterno, poté stabilirsi e trovare rapidamente lavoro in giornali via via sempre più prestigiosi.

Finì per prendere la residenza a Berlino, dove visse anni intensi pur nella precarietà della Repubblica di Weimar, e dove si sposò con una donna di origini ebraiche.

Il lungo peregrinare

Quando, attorno alla metà degli anni ’20, sulla Germania si abbatté la crisi economica, preferì trasferirsi in Francia, lavorando sempre come corrispondente per alcuni quotidiani tedeschi.

Poi, visto che i soldi non bastavano per garantisce una vita agiata a Parigi, ritornò in Ungheria, dove rimase per tutta la Seconda guerra mondiale, scampando per fortuna agli esiti più drammatici di quel conflitto.

È questo l’unico terreno sul quale l’uomo può misurarsi con Dio, ed essere in qualche modo alla sua altezza: quando crea dal nulla, come Lui.
(Sándor Márai)

Quando l’Ungheria però finì in mano comunista preferì emigrare, insofferente come era ad ogni forma di totalitarismo.

Passò anche per l’Italia, in particolare per la Campania, prima di approdare negli Stati Uniti dove finì anche per prendere la cittadinanza. All’Italia comunque rimase sempre legato, tanto da tornarvi a vivere durante gli anni ’701.

Sándor Márai, scrittore da riscoprire

Durante tutte queste peregrinazioni l’unico tratto comune della sua vita fu forse la scrittura. Aveva uno stile fortemente realistico, eppure impregnato dell’atmosfera di quell’Europa centrale in cui era cresciuto e in cui si era formato.

D’altra parte, già in gioventù era stato uno degli scopritori dell’opera di Franz Kafka e la sua preparazione letteraria era eccellente.

Leggi anche: Cinque cose che non sapete sull’essere creativi e la creatività

Ciononostante, il suo lavoro rimase per lungo tempo sconosciuto ai più. A suo sfavore giocò anche la scelta della lingua in cui scrivere. Márai infatti al tedesco preferì l’ungherese, limitando di fatto la platea dei suoi possibili lettori internazionali.

Probabilmente anche per questo motivo la sua fama è stata purtroppo postuma. Dopo una serie di lutti familiari, Márai si è infatti suicidato nel 1989, pochi mesi prima della caduta del Muro di Berlino.

I romanzi

I suoi libri sono stati tradotti in francese, in tedesco, inglese e infine anche in italiano solo a partire dagli anni ’90, con la vera e propria riscoperta di questo scrittore raffinato.

La sua attività artistica e creativa, quindi, è stata perlopiù solitaria, visto che Márai scriveva quasi solo per sé stesso e per i lettori che aveva in madrepatria. Nonostante tutto questo, però, sta forse proprio qui la forza dei suoi romanzi, composti come un atto creativo fine a se stesso.

D’altronde, come la citazione che vi riportiamo ben sottolinea, la creazione è in un certo senso un fine di per sé, un obiettivo da perseguire indipendentemente dall’esito che quella creazione avrà sugli altri.

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3. Le parole per dirlo

Ungherese era anche Arthur Koestler, l’autore della terza frase con cui abbiamo scelto di corredare il nostro articolo. Ma mentre Márai era nato in un certo senso alla periferia del Regno d’Ungheria, Koestler arriva invece dal centro, cioè da Budapest.

Arthur Koestler nel 1969 (foto di Erich Koch/Anefo)
Arthur Koestler nel 1969 (foto di Erich Koch/Anefo)

Di famiglia ebraica, con parenti anche a Vienna (la madre era infatti di origine austriaca), il futuro scrittore crebbe tra Budapest e la capitale degli Asburgo, che dopo la fine della Prima guerra mondiale però era stata degradata da sede imperiale a capitale di un piccolo stato mitteleuropeo.

Koestler, che aveva una certa ambizione, non si accontentò di questa decadenza e peregrinò anche lui a lungo, alla ricerca di occupazione stabili e successi professionali. Per qualche anno, ad esempio, si stabilì anche in Palestina, tra i primi coloni ebraici in quella zona a cavallo tra le due guerre mondiali.

Poi cominciò anche a collaborare con vari quotidiani tedeschi, fino a trasferirsi in Germania e ad iscriversi al locale Partito comunista. La Repubblica di Weimar divenne in un certo senso la sua patria d’adozione, almeno fino a 1934, quando le persecuzioni razziali messe in atto da Hitler lo costrinsero a cambiare aria.

In Francia e in Spagna

Si stabilì allora in Francia, come molti altri intellettuali ebrei dell’epoca. Anche qui lavorò come giornalista e in particolare fu inviato in Spagna durante la guerra civile, per seguire le vicende del fronte repubblicano. E questa esperienza fu particolarmente rilevante per lui sotto diversi punti di vista.

Ad un certo punto, infatti, venne catturato dai franchisti e rischiò seriamente la vita, vedendosi salvare solo per l’intervento diplomatico britannico. Inoltre, venne a stretto contatto con lo stalinismo e soprattutto con le purghe che venivano inflitte ai dissidenti.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, qualche anno più tardi, si trovava comunque di nuovo in Francia. Riuscì, ebreo, a scampare alla deportazione arruolandosi nella Legione straniera e poi fuggendo a Londra. In Gran Bretagna iniziò a collaborare con molti giornali e a pubblicare anche i suoi romanzi più importanti.

Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler

Il suo libro più importante è datato proprio 1941 e si intitola Buio a mezzogiorno. È un libro in cui denuncia sostanzialmente i crimini dello stalinismo, visto che il protagonista è un membro del Partito Comunista sovietico che viene sottoposto a una purga.

Vagamente ispirato alle vicende di Bucharin, il romanzo descrive in maniera molto precisa il trattamento che veniva riservato a quelli che erano considerati i traditori del popolo, pur senza aver commesso nessun reale crimine. Gli interrogatori, le confessioni estorte, il clima delatorio sono riportati nella maniera più convincente mai vista su carta.

La vera creatività comincia spesso dove termina il linguaggio.
(Arthur Koestler)

Il successo di questo libro, ispirato alle cose viste in Spagna, attirò su Koestler molte critiche da parte degli intellettuali di sinistra, che portarono lo scrittore vicino al suicidio. Ciononostante, col tempo e con l’ammissione anche da parte dell’Unione Sovietica dei crimini staliniani, l’importanza di questo romanzo è stata finalmente riconosciuta.

In quel libro, d’altra parte, Koestler riusciva a descrivere in maniera precisa e sconvolgente un clima che sembrava molto complesso da poter restituire a parole. Merito della sua esperienza da giornalista, sicuramente, e di quanto visto sul campo, ma anche della creatività, come dimostra la frase che abbiamo scelto qui di riportare.

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4. Musica invece di rumore

Il nostro è un mondo che ama la creatività? È una domanda complessa, quindi non è certo facile rispondere. Per molto tempo, ad esempio, si è pensato e sostenuto che l’economia capitalistica avanzata fosse tutto fuorché creativa.

Si produceva in serie oggetti sempre uguali a loro stessi e tutta la produzione era finalizzata meramente al profitto e non tanto alla ricerca del bello. La tecnica sembrava quindi sostituirsi all’arte e l’interesse borghese alla ricerca della verità.

Oggi queste critiche, che sono sorte già all’inizio del ‘900 e sono divenute più forti nel corso degli anni ’60, possono però apparire in parte superate.

Creatività e lavoro oggi

La creatività è infatti diventata anche uno dei valori fondamentali della stessa economia capitalistica. Non è un caso che oggi le più grandi aziende mondiali cerchino di rinnovare continuamente i loro prodotti, rilanciando ogni anno sul mercato creazioni nuove e rivoluzionarie.

E non è un caso, neppure, che gli stessi giovani lavoratori siano invitati ad essere creativi, ad inventarsi letteralmente il loro lavoro.

Leggi anche: Hobby e legno: cinque idee creative fai da te

Certo, si tratta di una creatività diversa da quella a cui eravamo abituati in passato, di una creatività comunque finalizzata al profitto.

Fantasia e creazione sono comunque al centro di queste nuove attività e questo, in fondo, può essere visto anche come un passo avanti, come un tentativo di uscire dal meccanismo alienante che, ormai 150 anni fa, era stato descritto da Karl Marx.

Il pensiero di Hermann Hesse

Dicevamo però che per molto tempo si è pensato che la nostra società fosse diventata tutto fuorché creativa. Anzi, il trionfo della borghesia e l’epoca delle guerre mondiali hanno fatto a lungo tenere che la creatività, e più in generale la ricerca della fantasia e della spiritualità, fossero definitivamente bandite dal nostro panorama.

Hermann Hesse, autore di grandi romanzi, belle poesie e celebri aforismiA dar voce a questi timori ci hanno pensato filosofi, poeti e scrittori, e tra questi ultimi vale la pena di ricordare Hermann Hesse.

Romanziere, poeta e filosofo, l’autore tedesco naturalizzato svizzero ha dedicato varie opere a questo argomento. Opere che a volte si dirigevano in un certo senso verso oriente, alla ricerca della verità grazie all’influenza della spiritualità indiana, e a volte invece rimanevano profondamente radicate nella cultura tedesca.

Il lupo della steppa è uno dei suoi romanzi più famosi e anche dei più belli e apprezzati. Il protagonista è un uomo di mezza età, vero e proprio alter ego di Hesse, che scrisse il libro negli anni ’20, alla fine di una crisi esistenziale che l’aveva a lungo piagato.

Il lupo che riemerge

In questa storia, in cui si sentono gli echi della crisi dei valori che stava attanagliando tutta Europa, il protagonista cerca di far luce su se stesso e sulla sua doppia natura. Da un lato, infatti, si sente un uomo integrato, un borghese che, come tutti gli altri, ha un lavoro ben retribuito e bada al proprio interesse.

Dall’altro però si sente letteralmente come un lupo della steppa, cioè come un animale che ha bisogno di solitudine, che non riesce a conformarsi ai riti della vita e sociale e che non riesce neppure ad appagare la sua sete di qualcosa d’altro.

Chiunque voglia musica invece di rumore, gioia invece di piacere, anima invece di denaro, lavoro creativo invece di affari, passione invece di follia, non trova casa in questo nostro mondo insignificante.

Proprio in quest’ottica si spiega la frase che abbiamo scelto di proporvi. Una frase che mostra come nel nostro mondo moderno la creatività sia difficile, abbia spazi sempre più angusti, venga a volte soffocata dal profitto, dalla banalità, dalla tecnica.

Eppure, è anche una frase che lascia una speranza. Perché questa creatività può riemergere, perché questo lupo è in fondo dentro ognuno di noi e preme per venire fuori.

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5. Diventare un nuovo sole

Contrariamente a quanto si pensa, anche i filosofi sanno, in alcuni casi, essere creativi e artistici. Si è soliti pensare, infatti, che gli esperti della mente riferiscano ragionamenti logici e razionali che poco spazio lasciano alla fantasia e all’inventiva.

Friedrich Nietzsche

In realtà però non è sempre così e ce lo ricordano pensatori di primo piano come ad esempio Friedrich Nietzsche, uno dei più importanti del XIX secolo.

Questo filosofo, come ben sapete se avete studiato al liceo, aveva fin nel modo di scrivere uno stile che potremmo definire artistico. I suoi saggi non sono infatti dei trattati tradizionali, quanto piuttosto delle raccolte di aforismi. O, in certi casi, dei libri oracolari, quasi dei moderni Vangeli o comunque dei libri profetici.

È ovvio che in questo senso una buona parte del suo lavoro consisteva nel formulare le sue teorie in termini quasi poetici, che passassero attraverso simboli e miti. Una cosa in realtà non nuova nel campo della filosofia, visto che già gli antichi, come ad esempio Platone, sfruttavano spesso tecniche di questo tipo.

La frase di Bruce Detwiler

La frase che abbiamo scelto per chiudere la nostra cinquina, però, non è, contrariamente a quanto forse vi aspettate, di Nietzsche. È piuttosto una frase su Nietzsche, perché questo filosofo la creatività l’ha vissuta in un certo senso in prima persona.

L’autore della citazione è infatti lo studioso Bruce Detwiler, autore di un saggio su Nietzsche (Nietzsche and the Politics of Aristocratic Radicalism) e sul suo atteggiamento politico.

Nel migliore dei casi, il filosofo non è semplicemente chi ascende dalla caverna e percepisce il sole. Piuttosto, è chi, emergendo dalle profondità della sua stessa creatività, diventa un nuovo sole per l’umanità.

Una frase che però ci sembra particolarmente significativa anche se non scritta direttamente dal grande filosofo tedesco. Fotografa infatti esattamente che cosa sia la creatività, non solo in filosofia. E lo fa tra l’altro lanciando una evidente “frecciatina” a Platone, che è sempre stato uno dei principali bersagli polemici di Nietzsche.

Come noterete, infatti, nella fase si fa riferimento al mito della caverna del grande filosofo greco. In quel mito il protagonista, rappresentante del filosofo, riusciva ad uscire dalla caverna, simbolo del nostro mondo, per accedere al mondo delle idee, rimanendone almeno all’inizio accecato.

Il Sole

Nell’analisi che invece fa Detwiler, filtrata attraverso l’ottica nietzschiana, la verità non sta tanto fuori di noi, all’esterno della caverna, quanto nell’animo del filosofo. Perché è così che funziona la creatività: non la si trova andandola a cercare chissà dove, ma nasce da dentro.

Il Sole, quindi, diventa il simbolo del nostro diverso atteggiamento nei confronti del mondo. E forse è proprio questo l’insegnamento di Nietzsche: il mondo è sempre stato così com’è e dal suo punto di vista è destinato probabilmente a non cambiare.

Ma l’uomo può cambiare e poi trasformarsi, come sosteneva la dottrina del superuomo, in un uomo che va al di là di se stesso e dei propri limiti. Proprio come fa in un certo senso il creativo.

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Ecco cinque belle frasi sulla creatività: vota la tua preferita.

Note e approfondimenti

  • 1 Se volete approfondire il legame tra Márai e l’Italia, vi consigliamo questo articolo del 2008.

 

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