
Come abbiamo scritto altre volte, gli anni ’60 sono stati un decennio di passaggio. Nei primi anni si respirava ancora l’aria del decennio precedente, della Guerra fredda, di una certa rigidità di costumi, di una svolta attesa ma non ancora arrivata. Sul finale, invece, tutto cambiò rapidamente, aprendo la strada ad un mondo nuovo che si sarebbe però concretizzato nei ’70. Qualcosa di simile avvenne anche in letteratura. Tanto è vero che non è facile individuare i più grandi autori degli anni ’60.
Un decennio strano
Molti degli scrittori più letti di quel decennio, infatti, avevano visto il loro periodo di gloria negli anni precedenti. Alcuni erano addirittura già morti, e si dava spazio ai loro libri postumi. Stiamo pensando a scrittori come John Steinbeck, Ernest Hemingway, Truman Capote. O, per quanto riguarda la letteratura italiana, Pier Paolo Pasolini.
Altri pubblicarono sì dei libri molto importanti in quel decennio, ma non riuscirono a caratterizzarlo a fondo. Pensate, ad esempio, a Gabriel García Márquez: il suo Cent’anni di solitudine arrivò in Europa nel 1968, quando l’autore colombiano era sostanzialmente sconosciuto. Ci volle un po’ perché diventasse un punto di riferimento. O pensate, in senso opposto, all’americana Harper Lee, che scrisse un capolavoro come Il buio oltre la siepe ma poi non pubblicò altro.
Insomma, è difficile analizzare gli autori degli anni ’60, perché in realtà non ce ne sono molti a cui andrebbe bene quell’etichetta. Noi ci abbiamo comunque provato, identificando alcuni scrittori che si legarono al clima del tempo e alle sue contraddizioni. Un paio sono americani, molto diversi tra loro. Uno è gallese, e scriveva libri per bambini. Uno è russo e uno è italiano. La panoramica, insomma, è piuttosto ampia. Scopriamoli.
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Indice
Roald Dahl
La fabbrica di cioccolato ed altri libri per ragazzi
Quando si pensa ai grandi autori di un decennio, si cerca di individuare uno scrittore che abbia pubblicato tante opere. Romanzi mastodontici, o comunque molto importanti, che ritraggano la società e il clima del tempo. Noi però partiamo con uno scrittore che non solo non obbedisce a questa esigenza, ma la contraddice. Roald Dahl infatti non ha mai scritto grandi opere. Il suo genere erano infatti i libri per l’infanzia.
Se il nome non vi dice niente, di sicuro vi suoneranno familiari i suoi titoli. A partire dal 1961 Dahl ha infatti pubblicato romanzi celeberrimi, come James e la pesca gigante, La fabbrica di cioccolato, Furbo, il signor Volpe (noto anche col titolo originale di Fantastic Mr. Fox), Il GGG e Matilde. In pratica, se ve ne siete resi conto, molti dei più fantasiosi film per l’infanzia degli ultimi anni sono tratti dai suoi libri.
Il matrimonio con Patricia Neal
Nato nel 1916 in Galles, era figlio di genitori norvegesi. Combatté durante la Seconda guerra mondiale e, poco dopo la fine del conflitto, sposò Patricia Neal, attrice americana. Con lei ebbe cinque figli, anche se la coppia dovette subire molte disgrazie.
La primogenita morì infatti a 7 anni per le complicazioni del morbillo. Un altro figlio dovette convivere con l’idrocefalia. La stessa Patricia subì poi un pesante ictus, che per fortuna non ne minò più di tanto la carriera. Nel 1963 ottenne infatti un Oscar per Hud il selvaggio, mentre due anni prima aveva recitato in Colazione da Tiffany.
Dall’horror ai libri per l’infanzia
Nelle storie di Dahl, anche in quelle scritte in quegli anni ’60, emerge una grandissima fantasia e un anticonformismo inusuali per il tempo. I suoi protagonisti sono bambini dal cuore puro, che si trovano però a vivere in un mondo dominato da grandi poco raccomandabili. Gli adulti, infatti, o sono dei veri e propri “cattivi”, o sono comunque inadeguati al ruolo. La fabbrica di cioccolato, il suo più grande successo del periodo, in questo senso è emblematico.
Il senso dell’orrido
A quei libri, però, Dahl non arrivò impreparato. Pubblicò il primo racconto durante la guerra e, poco dopo, anche un romanzo per ragazzi, The Gremlins, che fu a un passo dall’essere adattato in film da Walt Disney. Poi però abbandonò il genere e si dedicò a storie per adulti, perlopiù horror venati da un certo umorismo nero. Fu proprio il lavoro su temi macabri che gli permise poi di mettere un “tocco speciale” nelle sue storie per ragazzi.
I racconti horror vendevano bene e furono anche più volte adattati per la TV (in Ai confini della realtà o Alfred Hitchcock presenta). La nascita dei figli, però, lo spinse verso temi diversi, che gli diedero maggior visibilità come autore. In quanto scrittore horror e televisivo era noto agli appassionati, ma il suo nome rimaneva spesso in secondo piano. Con i libri per l’infanzia, invece, divenne presto famoso in tutto il mondo.
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Aleksandr Solženicyn
Il dissidente russo che sconvolse gli anni ’60
La vita di Roald Dahl è stata segnata da varie vicissitudini personali, da problemi riguardanti i suoi cari. Quella di Aleksandr Solženicyn è stata altrettanto difficile, ma in senso completamente diverso. Lo scrittore russo scomparso nel 2008 è stato infatti a lungo rinchiuso nei gulag del suo paese. E il suo principale contributo alla storia della letteratura consiste proprio nel racconto di quell’esperienza, cominciato nel 1963 con Una giornata di Ivan Denisovič.
Nato alle pendici del Caucaso nel 1918, Solženicyn crebbe nella povertà. Il padre, giovane ufficiale dell’esercito, rimase infatti vittima di un incidente di caccia prima che lui nascesse. Anche le proprietà della famiglia della madre – una famiglia di kulaki – vennero espropriate durante la Rivoluzione d’ottobre.
L’arresto
Per questo dovette rinunciare al sogno di studiare a Mosca, anche se si laureò in matematica a Rostov. Combatté durante la Seconda guerra mondiale, distinguendosi anche per il valore e guadagnandosi i gradi di capitano. Nel febbraio 1945, quando il conflitto volgeva però al termine, venne arrestato. L’accusa era quella di aver criticato Stalin in una lettera privata destinata ad un amico. Fu condannato ad 8 anni di lavoro nei gulag e poi al confino perpetuo.
Scontò la pena in vari campi, lavorando come minatore, operaio e muratore. Non potendo scrivere, compose dei versi imparandoli a memoria. Fu rilasciato solo nel 1953, quando la prima moglie aveva ormai ottenuto il divorzio e nessuno voleva più vederlo. Tra l’altro, ammalato di tumore, andò vicinissimo alla morte. Ma l’esperienza del gulag lo portò a rifiutare ogni fede comunista – a cui aveva comunque aderito in gioventù – e ad avvicinarsi invece al cristianesimo ortodosso.
Dopo il gulag
Dopo la morte di Stalin poté tornare in città e iniziare a lavorare. Divenne anche insegnante, anche se di giorno non osava raccontare la sua esperienza passata. Di notte, però, scriveva, anche se pensava che i suoi ricordi non avrebbero mai trovato pubblicazione. Nel 1962, dopo aver avvicinato il poeta Aleksandr Tvardovskij, riuscì a far pubblicare il suo primo libro, Una giornata di Ivan Denisovič.
La protezione di Chruščёv
La cosa fu possibile solo perché Nikita Chruščёv, fortemente critico nei confronti delle purghe staliniane, diede il suo esplicito assenso all’operazione. Quello rimase l’unico libro pubblicato da Aleksandr Solženicyn in Russia fino alla caduta del comunismo. Chruščёv infatti perse il potere nel 1964 e la censura ritornò presto. La pubblicazione del romanzo successivo, Padiglione cancro, fu quindi proibita. Solženicyn subì anche la perquisizione e il sequestro di molti manoscritti da parte del KGB.
Dopo essere sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento, lo scrittore fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1970. In quel tempo stava lavorando all’altro suo capolavoro, Arcpelago Gulag, che però la censura sovietica mirava a distruggere. Proprio il Nobel e la fama internazionale gli consentirono di salvarsi, perché l’URSS non poteva eliminarlo senza clamore. Così, nel 1974 venne espulso e privato della cittadinanza. All’estero poté infine pubblicare Arcipelago Gulag e molti altri lavori.
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Kurt Vonnegut
Fantascienza e umanismo
«Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai, voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine».
Questa è una frase tratta da Dio la benedica, Mr. Rosewater, romanzo del 1965 di Kurt Vonnegut. E ci serve per introdurre sia lo scrittore che, più in generale, il genere fantascientifico nel nostro discorso. Gli anni ’60, infatti, in base a quanto abbiamo detto furono anni incerti, senza un’identità chiara. Ma in realtà qualcosa che li caratterizza in maniera netta c’è: la corsa verso lo spazio.
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Nel 1957 l’Unione Sovietica aveva dato il via alla corsa allo spazio lanciando in orbita lo Sputnik, il primo satellite artificiale. Sempre in quell’anno i russi inviarono anche la cagnolina Laika. Ma fu negli anni ’60 che si ottennero i risultati più memorabili. Tra il 1961 e il 1962 i sovietici spedirono nello spazio il primo uomo (Yuri Gagarin) e la prima donna (Valentina Tereškova), con gli americani impegnati a cercare di recuperare lo svantaggio accumulato.
Gli Stati Uniti riuscirono a segnare il loro primo, e più importante, successo alla fine del decennio. Nel 1969, infatti, l’Apollo 11 arrivò sulla Luna, permettendo all’astronauta Neil Armstrong di diventare il primo uomo a camminare sul satellite. Questo evento ebbe un’eco incredibile. E coronò un secolo in cui la fantascienza era definitivamente decollata, sia nella letteratura che nel cinema.
La fantascienza di Vonnegut
Uno dei massimi interpreti di questa tendenza fu il già citato Kurt Vonnegut. Nato a Indianapolis nel 1922, cominciò a scrivere alla fine degli anni ’40, sfornando soprattutto racconti di fantascienza. Il genere, all’epoca, era in grande espansione e molte riviste avevano bisogno di materiale sempre nuovo. Nel 1959 pubblicò il suo secondo romanzo, Le sirene di Titano, che però segnò una parziale svolta nella sua produzione.
Per tutti gli anni ’60, infatti, Vonnegut continuò a scrivere storie che bene o male appartenevano al genere che l’aveva lanciato, ma in cui i temi fantascientifici diventavano sempre più secondari. La fantascienza, il futuro, le scoperte facevano cioè da sfondo a storie profondamente umane, addirittura umanistiche. L’uomo veniva calato nella scienza futuribile, insomma, per aiutarci a comprenderlo meglio più che per parlare del futuro in sé.
I libri degli anni ’60
Nel decennio che ci interessa Vonnegut pubblicò quattro romanzi, tutti oggi considerati dei classici della sua produzione. Il primo fu Madre notte, che con la fantascienza non c’entrava nulla. All’apparenza storia di spionaggio, in realtà indagava sui meccanismi di adesione al nazismo e soprattutto sull’identità delle persone, su cosa ognuno è (o diventa).
Al di là del già citato Dio la benedica, Mr Rosewater, datato 1965, i due romanzi più importanti di quel periodo sono Ghiaccio-nove e Mattatoio n.5. Entrambi sono ancora legati alla Seconda guerra mondiale, ma vanno ben oltre la storia. Nel primo caso, Vonnegut immagina che l’inventore della bomba atomica su Hiroshima effettui un’altra scoperta per fini militari, dall’effetto dirompente sul clima terrestre.
Mattatoio n.5
Nel secondo, Vonnegut segue la vita del suo alter-ego Billy Pilgrim dalla Seconda guerra mondiale fino agli anni ’60. Costruito a mosaico con una serie di flashback, il libro intreccia fatti storici ed eventi fantascientifici. Pilgrim, ad esempio, racconta sia il bombardamento di Dresda, che lo stesso Vonnegut visse come prigioniero di guerra, sia il suo rapimento da parte degli alieni. E davanti a tutti gli eventi della vita, commenta sempre con un laconico «Così va la vita».
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Charles M. Schulz
Il papà di Charlie Brown
Questo articolo è dedicato agli autori degli anni ’60, non necessariamente agli scrittori. E se anche i due termini si usano spesso come sinonimi, in realtà il primo ha un significato più ampio. È autore chiunque crei un’opera personale. Perfino un artista, un pittore o uno scultore, può essere considerato un autore, anche se raramente viene identificato così. Sicuramente, però, il termine “autore” è quello che si usa quando si parla di fumettisti.
In effetti, gli anni ’60 sono stati un decennio in cui il fumetto ha vissuto un periodo d’oro. Su tutti i fronti. In Italia, solo per fare un esempio, nacquero in quel periodo Zagor e Diabolik, due mostri sacri, ma si rafforzò anche il numero di lettori di Tex. Mentre si sperimentavano nuovi generi con Corto Maltese e Alan Ford.
Un buon periodo per i fumetti
In Francia, d’altro canto, s’imponevano Asterix e i Puffi, mentre in America la Silver Age portava in auge la Marvel, coi suoi supereroi con superproblemi. Tutte novità interessantissime, che ci tengono compagnia ancora oggi. Ma il fumetto che più lasciò il segno anche al di fuori del mondo delle nuvolette è secondo noi Peanuts di Charles M. Schulz.
Per questo abbiamo deciso di inserire il suo autore nella nostra cinquina. Perché Schulz è stato forse il fumettista che più di tutti ha attirato i riflettori su un mezzo umile ma non banale. È stato il primo disegnatore ad essere considerato un poeta (usando una celebre definizione di Umberto Eco), ma anche un filosofo e un narratore a tutto campo. Insomma, è quello che ha sdoganato il fumetto e l’ha reso non più solo oggetto di intrattenimento, ma qualcosa in più.
La vita e la carriera
Charles Schulz nacque nel 1922, pochi giorni dopo Kurt Vonnegut, a Minneapolis. Suo padre era tedesco, sua madre norvegese. Crebbe timido e un po’ introverso, con un cane a fargli da amico. Sviluppò ben presto la passione per il disegno, anche se cominciò a dedicarvisi a tempo pieno solo dopo la guerra.
Nel 1947 lanciò la sua prima striscia, Li’l Folks, che oggi è considerata la prova generale per i suoi futuri personaggi. Nel 1950 creò poi Peanuts, in cui gradualmente introdusse personaggi memorabili. Il protagonista, Charlie Brown, era modellato su di sé, o meglio sul ricordo della propria infanzia. Snoopy, invece, riprendeva il cane che Schulz aveva avuto da ragazzo, anche se il suo era un pointer.
L’arrivo in Italia
Dopo un periodo di rodaggio, la striscia decollò. Il suo momento d’oro furono proprio gli anni ’60. In quel decennio infatti Schulz, ormai maturo, sfoderò le sue battute più memorabili. Il suo ritratto dei bambini, poi, ben si adattava all’atmosfera in fermento di quegli anni. Non è un caso che proprio nel 1963 i volumi della striscia cominciarono ad essere pubblicati in Italia, mentre nel 1965 nacque una rivista apposita, linus, baciata da uno straordinario successo.
Negli USA, infine, in quel decennio i Peanuts arrivarono anche in TV. Nel 1965 la NBC trasmise infatti lo special Un Natale da Charlie Brown, che vinse un Emmy e un Peabody Award. Questo, e i sequel che arrivarono negli anni successivi, aiutarono a fare della striscia uno dei simboli dell’America di quegli anni.
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Italo Calvino
Un italiano tra i grandi autori degli anni ’60
Dopo aver visto tre autori degli anni ’60 provenienti da paesi stranieri, presentiamone anche uno italiano. Perché il nostro paese, in quel decennio, qualche contributo importante alla letteratura l’ha pure dato. Quello più rilevante, a nostro avviso, è quello portato da Italo Calvino, che proprio in quel decennio raggiunse la maturità stilistica.
Nato a Cuba nel 1923 da genitori italiani là emigrati, rientrò in Italia nel 1925 e crebbe a Sanremo. Al liceo ebbe come compagno di banco Eugenio Scalfari e all’università cominciò a frequentare l’ambiente torinese, più vivace e legato ai fatti della politica italiana di quello di Sanremo. Allo scoppio della guerra continuò i suoi studi, ma con la caduta del regime nel 1943 prima si nascose e poi si arruolò tra i partigiani.
L’adesione al Partito Comunista
Figlio di un anarchico e di una socialista, Calvino finì, durante e dopo la guerra, per aderire al Partito Comunista. All’epoca quella era d’altronde la principale forza in grado di opporsi al centro e alle destre. Per qualche anno, tra il 1945 e gli anni ’50, fu un intellettuale fedele alla linea del partito. Nel 1956, in seguito ai fatti d’Ungheria, decise però di dimettersi dalle cariche e si collocò su posizioni critiche.
Negli anni precedenti, comunque, aveva già cominciato a lavorare nell’editoria – presso Einaudi – e a pubblicare le prime opere. L’esordio era arrivato nel 1947 con Il sentiero dei nidi di ragno, romanzo neorealista a tema partigiano. Poi errano arrivati racconti e raccolte di fiabe, oltre ad alcuni romanzi fantastici. Tra questi, si segnalano Il visconte dimezzato del 1952, Il barone rampante del 1957 e Il cavaliere inesistente del 1959.
Gli anni ’60
Gli anni ’60 si aprirono proprio con la raccolta di questi tre romanzi brevi in I nostri antenati, pubblicato dalla fida Einaudi. Ma furono anche il decennio di maggior vigore espressivo (e personale) per Calvino. Ormai scrittore sicuro delle proprie possibilità, sempre più amato dal pubblico e libero dalle appartenenze politiche, sperimentò e approfondì il proprio stile e i propri interessi.
Nel 1963 uscì La giornata d’uno scrutatore, ambientato nel 1953 e prova del travaglio politico vissuto da Calvino. Anche nel successivo, La speculazione edilizia, lo scrittore rifletté sul decennio precedente, con giudizi critici. Infine, tutto queste venne trasfigurato nella fantasia di Marcovaldo, raccolta di racconti per ragazzi dedicati alla vita un po’ stralunata e incerta di un manovale in città.
La fantascienza e la fantasia
Infine, anche Calvino si mise a scrivere di fantascienza. A differenza dei suoi colleghi americani, però, l’autore italiano conservò lo spirito favolistico e umoristico, già emerso in alcune delle opere precedenti. Arrivarono così Le cosmicomiche e Ti con zero, che ebbero anche un buon successo.
Affascinato dalle nuove tecniche letterarie, in questo periodo arrivò anche a sperimentare la scrittura combinatoria. L’esempio più celebre di questi tentativi – allo stesso tempo avanguardistici ma anche facilmente accessibili – è Il castello dei destini incrociati, racconto pubblicato nel 1969. In quegli anni, d’altra parte, Calvino, si era anche trasferito a Parigi e si era messo a tradurre Raymond Queneau e altri intellettuali francesi, entrando nel circolo della grande letteratura europea.
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