
Il Positivismo è stato sicuramente una delle più importanti correnti di pensiero dell’Ottocento; anzi, in una certa fase anche la corrente dominante, capace di segnare un’epoca e di presentarsi – pur con qualche distinguo – come l’ideologia in cui si riconosceva la classe borghese, fiduciosa verso il futuro e desiderosa di sviluppo economico e libertà politiche.
In realtà, però, il movimento è stato uno dei più variegati che mai si siano visti nella storia della filosofia, annoverando al proprio interno reazionari e rivoluzionari, proto-socialisti e accaniti liberali, federalisti e statalisti, laici e pseudo-religiosi, francesi e inglesi, gente vissuta agli inizi dell’Ottocento e gente vissuta alla fine dello stesso secolo. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Cerchiamo di ricostruire la storia e le principali linee di pensiero di questo movimento filosofico tramite cinque grandi autori che, nei manuali, vengono fatti rientrare all’interno del filone positivista.
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Indice
Jeremy Bentham
Utilitarismo e libertà
Jeremy Bentham non fu propriamente un filosofo positivista: nacque infatti a Londra nel 1748 e morì nella stessa città nel 1832, prima che la nuova corrente filosofica, che nasceva proprio in quegli anni in Francia, potesse effettivamente diffondersi nella sua Inghilterra; nel suo pensiero, però, si trovano già le tracce del superamento dell’Illuminismo allora dominante e dell’apertura verso una nuova forma di progresso che tanta influenza avrebbe avuto sui successivi pensatori positivisti inglesi. Abbiamo pertanto deciso di includerlo nella nostra cinquina come una sorta di anticipatore degli ideali che sarebbero stati poi formulati da Saint-Simon e Comte, anche perché i suoi testi continuano ad essere studiati e a risultare particolarmente moderni, molto più di quelli di altri suoi colleghi.
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Il suo pensiero spazia dall’etica alla politica. Per quanto riguarda il comportamento umano, in Introduzione ai principi della morale e della legislazione propose la trasformazione della morale in una vera e propria scienza (un concetto basilare nel Positivismo), basata sui principi dell’utilitarismo e quindi su un calcolo algebrico del piacere e del dolore. In politica, d’altro canto, fu fautore di un liberalismo particolarmente acceso, che separava nettamente stato e chiesa, sanciva l’importanza della libertà di parola e d’opinione, richiedeva la fine della schiavitù e delle punizioni fisiche, oltre che il libero commercio delle merci. Ma le istanze più innovative della sua filosofia, per le quali viene ancora oggi letto e tradotto, riguardavano la depenalizzazione dell’omosessualità, il diritto al divorzio, la parità dei diritti delle donne e, per la prima volta in assoluto, la richiesta di una formulazione giuridica dei diritti degli animali.
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Henri de Saint-Simon
Tra tecnica, socialismo e cristianesimo
I due padri del Positivismo, però, come accennato non si trovano in Inghilterra ma nella Francia della prima metà dell’Ottocento, e si identificano in particolare in Henri de Saint-Simon, più anziano, e soprattutto Auguste Comte. Il conte di Saint-Simon era nato a Parigi nel 1760 ed era discendente di Louis de Saint-Simon, celebre memorialista vissuto un secolo prima e fine narratore dello stile di vita a Versailles; al contrario dell’avo, fin da giovane Henri fu affascinato dalle idee dell’Illuminismo, stringendo particolare amicizia con Jean d’Alembert, ma fu solo negli ultimi anni della sua vita, con l’avvento della Restaurazione, che i suoi scritti acquisirono importanza.
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Tra i primi esponenti del socialismo, Saint-Simon in realtà non faceva differenze tra imprenditori e artigiani, industriali e contadini, legato com’era ad una società in cui ancora non si erano visti gli effetti alienanti della rivoluzione industriale. Il suo bersaglio polemico, infatti, erano i ceti sociali “oziosi”, come la nobiltà, il clero, i militari, a cui si contrapponevano le forze produttive del paese. Il suo ideale, quindi, prevedeva una serie di riforme politiche che fossero guidate dalla scienza e dalla tecnica, sicuro che queste avrebbero portato al progresso. Fu lui, non a caso, a coniare il termine “positivismo” e sarebbe stato lui ad avere un’influenza decisiva su Comte, considerato il vero padre del movimento; ciononostante, negli ultimi mesi della sua vita il pensatore francese sembrò riavvicinarsi a un ideale di tipo religioso, con la speranza di un Nuovo Cristianesimo che, basato sull’amore evangelico, potesse migliorare le misere condizioni degli operai.
Auguste Comte
La legge dei tre stadi e la sociologia
L’avrete probabilmente studiato a scuola, visto che spesso il Positivismo, almeno a livello di manuali, si fonde con lui, anche perché nel suo pensiero effettivamente sono più evidenti le caratteristiche fondamentali del movimento: stiamo parlando di Auguste Comte, nativo di Montpellier e vissuto tra il 1798 e il 1857. Amico e collaboratore proprio di Saint-Simon, oltre che grande ammiratore dell’americano Benjamin Franklin, iniziò a sviluppare il suo sistema a partire dalla metà degli anni ’20 dell’Ottocento, fondandolo sulla cosiddetta “legge dei tre stadi”.
Questa legge, per la quale Comte si era fatto ispirare dal pensiero di Vico, riteneva che ogni scienza fosse, nel corso della sua storia, passata attraverso tre stadi: quello teologico, in cui si attribuiscono i fenomeni a divinità antropomorfe; quello stadio metafisico, in cui i fenomeni fisici vengono attribuiti a forze astratte come la Natura di Spinoza o la Ragione dell’Illuminismo; infine lo stadio positivo, in cui si smette di cercare i fini dei fenomeni ma ci si concentra sui rapporti di causa-effetto. Ad essere passate attraverso questi stadi sono, in ordine cronologico, l’astronomia, la fisica, la chimica e la biologia; l’ultima scienza a dover presto compiere il percorso sarà la sociologia, incaricata di delineare – tramite il metodo scientifico – le linee per la società del futuro.
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Carlo Cattaneo
Un’Italia federalista
Nonostante il Positivismo abbia avuto successo soprattutto in Francia e Gran Bretagna, centri della vita culturale del vecchio continente e con la borghesia più sviluppata, anche in Italia questo movimento ebbe un certo seguito, soprattutto grazie all’opera di Roberto Ardigò, che insegnò per decenni all’Università di Padova. Il pensatore che però influenzò maggiormente il dibattito pubblico nel nostro paese e che è ancora oggi letto e studiato è Carlo Cattaneo, primo teorico del federalismo. Nato a Milano nel 1801 e morto a Lugano – dove da tempo viveva – 68 anni più tardi, Cattaneo fu uno dei grandi pensatori del Risorgimento, spesso ricordato perché la sua proposta era quella di unire l’Italia secondo un modello federalista.
Parte attiva durante i moti che portarono alle Cinque giornate di Milano, Cattaneo, come molti positivisti, riprendeva gli ideali dell’Illuminismo (e nel suo caso soprattutto quelli di Pietro Verri) e li adattava alle rinnovate condizioni della società, convinto che la scienza avrebbe portato inevitabilmente verso il progresso. Come nel pensiero di Stuart Mill, di cui parleremo tra poco, anche per lui al centro della vita politica deve esserci la libertà, intesa in primo luogo (ma non solo) come libertà di parola e di opinione: solo dal confronto tra le menti, infatti, può scaturire un reale progresso sociale. Questo confronto non deve riguardare però solo i singoli individui, ma anche i paesi e le loro storie: così per lui non doveva essere il Piemonte a guidare l’Unità italiana, visto che quella regione non era poi così avanzata né economicamente né politicamente, e sarebbe stata più utile una confederazione di repubbliche, simile al modello svizzero da lui sempre ammirato o al limite a quello statunitense.
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John Stuart Mill
Solo il pluralismo porta al progresso
E concludiamo con uno dei più tardi esponenti del Positivismo, ma anche uno di quelli che ha lasciato maggiormente il segno sulla cultura e la società anglosassoni, ovvero John Stuart Mill, considerato – a ragione – il padre del liberalismo moderno e il continuatore dell’opera di John Locke e Jeremy Bentham. Nato nel 1806 nei dintorni di Londra, Stuart Mill era figlio di un altro filosofo, John Mill, a sua volta tra i padri dell’utilitarismo e stretto collaboratore proprio di Bentham (oltre che amico dell’economista David Ricardo); una parentela che costò cara al povero Stuart Mill, che fu cresciuto con l’obiettivo di farne fin da bambino un rigoroso utilitarista, capace di calcolare il vantaggio ed il danno di ogni azione.
Sposato per qualche anno, dopo una lunghissima frequentazione, con la paladina dei diritti delle donne Harriet Taylor, dedicò i suoi studi filosofici alla logica e alla politica: nel primo campo, si concentrò in particolare sull’inferenza e sul tentativo di ridefinire i termini sia dell’induzione che della deduzione; nel secondo, tramite il celebre saggio On Liberty, difese il pluralismo, sancendo che l’unanimità è da evitare a tutti i costi e solo la divergenza di opinioni possa garantire il reale progresso di una società. Da questo assunto iniziale, peraltro finemente argomentato, discendevano tutta una serie di conseguenze politiche, come la valorizzazione delle diversità, l’esaltazione dei diritti delle minoranze (avvicinandosi molto al pensiero del suo amico Alexis de Tocqueville) e gli attacchi contro la sottomissione delle donne, affinché esse potessero diventare invece parte attiva nella vita del paese.
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