Cinque grandi brani rock strumentali

Jimi Hendrix in concerto

Una grande canzone, per entrare nell’immaginario e vendere milioni di dischi, ha bisogno di un grande testo. Non è un caso che tutti i più importanti compositori – almeno da un certo punto in poi della storia del rock – siano stati o grandi parolieri o quantomeno dei provocatori. Se ripensiamo a musicisti del calibro di Bob Dylan, Neil Young, Bruce Springsteen o anche agli italiani Fabrizio De André o Francesco Guccini, risulta evidente quanto i brani rock strumentali, cioè senza parole, partano svantaggiati.

Senza testo

Ciononostante, a volte un pezzo può sfondare anche in assenza di un testo di valore. Addirittura, in qualche raro caso, può farlo senza nemmeno una parte cantata. Succede con quei pezzi strumentali che, soprattutto se scritti ed eseguiti da band all’altezza, riescono ad essere perfino più espressivi di quelli in cui è all’opera un cantante.

E d’altronde la storia del rock è piena di band che si sono cimentate in brani di questo tipo. I Metallica, i Led Zeppelin o i Pink Floyd ne hanno scritti di memorabili. Anche molti altri gruppi – magari meno noti al grande pubblico – sono però riusciti perfettamente nell’impresa. Per fornire una panoramica sull’argomento, vi presentiamo oggi cinque grandi brani rock strumentali, con una breve storia della loro genesi.

 

Booker T. & the MG’s – Green Onions

L’organo Hammond più famoso degli anni ’60

La copertina di Green Onions, uno dei brani rock strumentali più famosiPartiamo, con la nostra selezione, dal 1962. Ce ne sarebbero infatti molti, di pezzi strumentali, risalenti anche ad anni anteriori ma afferenti ad altri generi musicali (soprattutto al jazz). Fu invece solo dagli anni ’60 che il rock – magari mitigato come in questo caso nelle forme del blues, del soul, o dell’R&B – si concesse dei pezzi completamente strumentali. Pezzi che comunque riuscivano a scalare le classifiche e a conquistare milioni di appassionati.

Proprio del 1962 è infatti Green Onions, forse il brano più famoso di Booker T. Jones e dei suoi MGs. Il gruppo era formato da Steve Cropper alla chitarra, Lewie Steinberg al basso, Al Jackson jr. alla batteria e lo stesso Booker T. all’organo Hammond.


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Il capofila della band aveva all’epoca appena diciassette anni. D’altro canto, la band si era appena formata. L’idea era più che altro quella di provare a suonare qualcosa insieme in uno studio della Stax Records a Memphis. Non è un caso che la sigla MG, inizialmente rubata ad una marca automobilistica, sarebbe finita per diventare l’acronimo di Memphis Groove.

Cipolle verdi

Dalla session nacque un singolo. Il disco doveva essere aperto da Behave Yourself e contenere, come lato B, Green Onions. Si trattava di un pezzo strumentale ispirato da un riff di chitarra portato da Cropper e il cui titolo (“cipolle verdi”) pare fosse ispirato alla camminata di un gatto di quel nome. O, secondo una versione differente, all’idea di qualcosa di sgradevole che veniva spesso buttato via.

Il successo imprevisto del “riempitivo” però portò subito la casa discografica a ristampare il disco. Ma stavolta lo fece invertendo l’ordine delle canzoni e mettendo Green Onions come pezzo principale. Il singolo entrò così in classifica e raggiunse il terzo posto di quella americana, diventando in assoluto uno dei pezzi strumentali più venduti della storia della musica moderna. Da allora è stato usato in decine di film (tra cui anche American Graffiti), serie TV (Prison Break su tutte), spot, cartoni animati e perfino videogiochi.

Molte, infine, le cover, incise anche da mostri sacri come Henry Mancini, Blues Brothers, Pink Floyd e altri ancora.

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Jimi Hendrix – The Star Spangled Banner

Quando a Woodstock si riscrisse l’inno americano

Jimi Hendrix e l'inno americanoQualche tempo fa abbiamo dedicato un articolo ai più celebri assolo di chitarra elettrica della storia del rock. Lì abbiamo parlato di pietre miliardi della storia della musica come Jimi Hendrix, Jimmy Page, Slash e David Gilmour. E anche Eddie Van Halen, la cui Eruption non avrebbe sfigurato neppure in questa cinquina.

È invece proprio con Jimi Hendrix che abbiamo deciso di far proseguire la nostra lista. Con un brano che ha fatto letteralmente epoca. All’alba del 19 agosto 1969, infatti, Hendrix salì sul palco di Woodstock – il più celebre festival del rock di ogni epoca – assieme a una versione allargata della sua band e si esibì nella performance di chiusura di tutta la manifestazione, suonando per circa due ore.

Una chitarra come una mitragliatrice

Il momento topico fu raggiunto quando, armato solo della sua chitarra, Hendrix si mise a suonare The Star Spangled Banner. L’inno americano venne letteralmente trasfigurato, con l’aggiunta di vari effetti sonori. Effetti che intendevano imitare il suono dei bombardamenti e delle mitragliatrici.

Fu, ovviamente, l’apoteosi di tutto il festival, nonostante più di metà dei partecipanti se ne fosse già andata a casa. E nonostante il fatto che Hendrix suonasse quella particolare versione dell’inno già da qualche tempo nei concerti. La sua esibizione venne interpretata come un durissimo atto d’accusa nei confronti della politica militare americana e della guerra in Vietnam. E, nonostante lo stesso Hendrix sostenesse semplicemente di averla eseguita perché «è meraviglioso suonare [quel brano] così», diventò l’inno di un’intera generazione.

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Edgar Winter Group – Frankenstein

Il pezzo chirurgico del polistrumentista albino

Frankenstein dell'Edgar Winter GroupRimaniamo a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, nell’epoca d’oro della musica progressive. Il nostro terzo pezzo è forse poco noto nel titolo e nel nome degli esecutori, ma celebre per il suo riff. Un riff che lo portò a vendere nel 1972 addirittura un milione di copie solo negli Stati Uniti, rivaleggiando in testa alla classifica con il Paul McCartney di My Love.

Frankenstein, singolo estratto dall’album They Only Come Out at Night dell’Edgar Winter Group, nacque nel 1972 come B-side di Hangin’ Around. Rapidamente si convinse però la casa discografica, la Epic Records, a invertire l’ordine delle canzoni nelle successive ristampe. Anche in questo, l’operazione fu compiuta per venire incontro alle richieste dei DJ radiofonici.


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Frankenstein era un brano hard rock in cui dominava, a livello di performance, Edgar Winter. Questi era un polistrumentista albino che aveva esordito appena due anni prima, ma che stava rapidamente dando prova di sé. Incantando il pubblico soprattutto dal vivo.

Nel brano, Winter – che dal vivo fu probabilmente il primo ad introdurre l’uso della tastiera a tracolla – si esibiva infatti sia alle tastiere che al sax che alle percussioni. E non disdegnava neppure l’uso dei primi synthesizer.

L’origine del titolo

Ultima nota di colore: il titolo della canzone, che è sempre difficile da assegnare ad un brano strumentale, fu scelto in modo particolare. Non perché, come credono alcuni, le sonorità ricordassero ai membri della band la storia del Frankenstein di Mary Shelley.

No, il nome fu scelto perché in origine il brano durava una decina di minuti, ma la versione dell’album ne dura 4 e 44 e quella del singolo 3 e 28. Furono quindi operati tagli, suture, rattoppi e amputazioni. E alla fine il nastro sembrava più il frutto di un’operazione, appunto, del dottor Frankenstein che non un’opera di mixaggio.

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The Allman Brothers – Jessica

I lutti e la nascita del southern rock

Jessica, uno dei brani più famosi degli Allman BrothersMolti dei brani di cui abbiamo parlato finora li avete di sicuro già sentiti da qualche parte. Il bello di un brano strumentale è infatti che può essere utilizzato da chiunque, praticamente con qualsiasi scopo. In questo senso, anzi, la mancanza di un testo può diventare un vantaggio che permette a pubblicità, film e trasmissioni TV di impossessarsi di una canzone senza doverne forzare il senso.

Il quarto pezzo che abbiamo scelto ha subìto, non a caso, il medesimo destino. Molti di voi infatti lo riconosceranno come la sigla di Top Gear, il celebre programma di motori britannico. Si tratta di Jessica, canzone degli Allman Brothers contenuta nel loro terzo album, Brothers and Sisters.


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Il brano e l’intero disco nacquero in un periodo di grande difficoltà per la band. I primi due album di studio si erano contraddistinti per un suono che mescolava blues e influenze psichedeliche. Il tutto ottenuto grazie al ruolo preminente dei due fratelli Allman, Gregg e Duane.

Il 29 ottobre 1971, però, Duane aveva trovato la morte ad appena 25 anni in un incidente con la sua Harley-Davidson. Tredici mesi più tardi la stessa sorte, quasi allo stesso incrocio, toccò anche a Berry Oakley, il bassista della band.

La svolta obbligata

La doppia tragedia, com’era inevitabile, influì pesantemente sugli equilibri del gruppo. Il leader e l’autore delle canzoni diventò Dickey Betts, dando un’impronta più country alle canzoni degli Allman Brothers. E creando, di fatto, il southern rock.

Brothers and Sisters è infatti il primo disco in cui si percepì questo cambiamento di rotta. A renderlo evidente furono il singolo Ramblin’ Man e Jessica, scritta da Betts in onore della figlia nata da poco. Inoltre, questo brano era una sorta di omaggio al chitarrista jazz Django Reinhardt. La parte della chitarra è infatti pensata per essere suonata con solo due dita, secondo quello stile creato proprio da Reinhardt negli anni ’40, quando la sua mano sinistra rimase paralizzata nel medio, nell’anulare e nel mignolo.

Il successo di questa nuova versione degli Allman Brothers fu comunque clamoroso. E catapultò la band in vetta alle classifiche proprio mentre attraversava il suo momento più buio.

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Rush – YYZ

Quando l’hard rock esalta la propria città

Moving Pictures, lo straordinario album dei Rush che conteneva YYZOltre che finire sugli spot e sulle sigle dei vari programmi, il destino di questi leggendari brani strumentali è quello di venire prima o poi inseriti in qualche videogioco per aspiranti musicisti. Quei titoli in cui si sfidano i giocatori ad emulare le loro rockstar di riferimento.

YYZ, il brano dei Rush (dall’album Moving Pictures del 1981) con cui concludiamo la nostra cinquina, ha subìto questa sorte addirittura due volte. È stato infatti inserito sia in Guitar Hero II, sia in Rock Band, i due principali titoli del settore. D’altro canto, era davvero difficile lasciar fuori il pezzo, data la qualità delle parti strumentali che si accavallano l’una sull’altra e che da sempre sono un marchio di fabbrica della band canadese.

La fine della seconda fase

La canzone, uscita nell’album che chiudeva quella che viene chiamata la seconda fase dei Rush, è considerata uno dei capolavori della band. È dedicata alla loro città natale, quella Toronto il cui codice aeroportuale è proprio la YYZ che dà il titolo al brano. L’introduzione del pezzo, infatti, suona in arrangiamenti diversi quello che è il codice Morse per YYZ.

In generale, si trattava del secondo brano strumentale di tutta la carriera della band. Il precedente era stato La Villa Strangiato del 1978, uscito cioè tre anni prima. I tre avrebbero replicato solo dieci anni più tardi con Where’s My Thing?, uscito all’interno di Roll the Bones.

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