Cinque grandi quadri astratti

One: Number 31 di Jackson Pollock

Col termine “astrattismo” si identificano, in arte, cose anche molto diverse tra loro: i quadrati monocromi di Mondrian come gli spruzzi di Pollock, i cerchi neri di Malevič come le armonie dei colori di Delaunay.

Tutto e il contrario di tutto, in un certo senso, perché l’astrattismo non fu un movimento unitario, ma una contemporanea scoperta – da parte di artisti anche distanti l’uno dall’altro – della possibilità di staccarsi definitivamente dall’idea di rappresentare la realtà.


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Di per sé, il movimento è – come sempre accade – figlio della sua era: la belle époque, che col suo ottimismo aveva dominato gli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tramontò definitivamente con la Prima guerra mondiale, che segnava il tracollo di tutte le speranze e dei facili ottimismi della cultura.

Ci si accorse all’improvviso che la realtà non era razionale come la si era immaginata, che era anzi attraversata da spinte perverse, simili a quelle che Freud aveva individuato nelle profondità dell’animo umano.

Partire da fauves e cubisti per andare oltre

L’arte, ovviamente, si adeguò, cercando, a partire dagli anni Venti, di rappresentare questo irrazionale, facendo proprie le lezioni dei fauves, degli espressionisti e dei cubisti, che già avevano intrapreso la loro stessa strada, portando all’estremo l’uso del colore e la geometrizzazione dello spazio.

Quali sono però, oggi, le principali opere di quella corrente così composita? Selezionarne solo cinque è difficile: noi ci abbiamo provato, cercando di offrire una panoramica il più completa possibile; voi, come al solito, non esitate ad integrare la lista con altri suggerimenti o segnalazioni nei commenti.

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Paul Klee – Palloncino rosso

Geometria e caldi spazi cittadini

Palloncino rosso (1922) di Paul Klee«L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è», scriveva, nel pieno della sua attività creatrice, Paul Klee. Ed in effetti la sua esperienza come pittore fu sempre caratterizzata dal tentativo di rappresentare non tanto la realtà oggettiva e visibile, quanto quella invisibile.

Nato nei pressi di Berna, nel 1879, da padre tedesco e madre svizzera, Klee praticò in gioventù diverse arti, prima di orientarsi definitivamente per la pittura: scrisse molto e si appassionò alla poesia, oltre a diventare un eccellente musicista, divenendo uno dei violinisti dell’orchestra di Berna.


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A conquistarlo definitivamente, però, fu l’arte pittorica, soprattutto grazie all’influenza che lasciarono su di lui prima gli esponenti dello Jugendstil (l’Art Nouveau tedesca), poi gli espressionisti, movimento al quale aderì per qualche tempo.

Fu però a partire dal 1914 – prima con alcuni viaggi anche in Africa, poi con l’esperienza della Prima guerra mondiale e infine con il lavoro come insegnante alla scuola Bauhaus – che Klee acquisì uno stile prettamente personale, rafforzato poi dall’amicizia con Kandinskij, che dell’astrattismo era in un certo senso il padre.

Influenzato da tutte le correnti, esponente di nessuna

Il quadro che abbiamo scelto, Palloncino rosso, è solo un nobile rappresentante della molto proficua produzione degli anni ’20, quando un Klee ormai maturo riceveva stimoli dall’incontro con i grandi artisti del presente e del passato – Picasso ma anche i mosaici di Ravenna – e dalla stessa attività di docente, che gli consentiva di approfondire l’aspetto teorico del suo lavoro.

Conservato al Guggenheim Museum di New York, Palloncino rosso è un olio su tela montata su cartone che mostra per l’ennesima volta la volontà di Klee di non essere incasellato in nessuna corrente artistica, pur lasciandosi influenzare da tutte; qui si mescolano forme geometriche che richiamano l’esperienza cubista e dell’astrattismo geometrico ma anche il ricordo di un paesaggio cittadino, rivisto tramite l’esperienza dell’anima e quei colori caldi che Klee aveva imparato a dominare, qualche anno prima, in Tunisia.

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Vasilij Kandinskij – Giallo, rosso, blu

Il capolavoro del creatore della pittura astratta

Giallo, rosso, blu (1925) di Kandinskij, conservata al Centro PompidouFiglio dell’esperienza del Bauhaus è anche Giallo, rosso, blu, il quadro che abbiamo scelto per parlare dell’opera di Vasilij Kandinskij, probabilmente il più noto e importante pittore astratto europeo del ‘900: esso fu realizzato, infatti, nel 1925, nel pieno del periodo che il pittore russo svolse come insegnante della scuola fondata da Walter Gropius a cavallo tra le due guerre, periodo nel quale divenne anche intimo amico del Klee del quale abbiamo appena finito di parlare.

Più maturo d’età, Kandinskij era all’epoca già un pittore affermato, che da una quarantina d’anni si spostava tra la Germania e il resto d’Europa all’inizio per trovare un proprio stile e un proprio linguaggio e poi via via per farsi influenzare dalle diverse correnti e avanguardie che emergevano, in quei tempi, come funghi.

I colori, per area

Vicino anch’egli, all’inizio, allo Jugendstil, abbracciò poi gli ideali della Secessione berlinese fino a quando, già dal 1910, non iniziò a dipingere le prime tele astratte, abbandonando nell’anno successivo l’arte figurativa e concentrando i suoi studi sugli effetti del colore (o, meglio, degli accostamenti di colori) e della linea.

Giallo, rosso e blu, conservato al Centro Georges Pompidou di Parigi, è un olio su tela piuttosto grande (127 x 200 centimetri) in cui gli elementi geometrici vengono contrapposti a curve e serpentine, e i colori formano delle aree ben individuabili (quella gialla a sinistra, quella rossa nel centro e quella blu a destra). C’è, in tutto il quadro, un generale effetto di dinamismo, come se i colori si rincorressero e spostassero a vicenda, col giallo che tenta un’avanzata verso il blu, che sembra avviarsi invece alla fuga.

D’altronde Kandinskij dava un’importanza fondamentale a questi tre colori primari: per lui il giallo era il colore della vitalità, anzi addirittura della cieca follia vitale, come se fosse una fanfara o una tromba; il rosso era la stessa energia vitale, ma calda, e quindi in un certo senso canalizzata, più profonda e meditativa (e non a caso il pittore lo paragonava al suono di una tuba); il blu, infine, era indifferente e distante, paragonato al suono di un organo.


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Proprio da questa corrispondenza tra colori e suoni – che, approfondita ed espansa a tutte le tonalità della tavolozza, si ritrova nel suo libro Lo spirituale nell’arte – derivava l’idea che certi colori, e il loro accostamento, potessero produrre un ben determinato effetto sull’animo dell’osservatore, e che quindi la pittura dovesse, andando al di là del mero dato naturale, trasformarsi in una sorta di sinfonia dell’animo.

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Piet Mondrian – Composizione II con rosso, giallo e blu

La realtà ridotta alle sue radici elementari

Composition with Red, Yellow and Blue (1930) di Piet MondrianIl significato e l’accostamento dei vari colori era al centro della ricerca non solo di Kandinskij, ma di tutti i grandi pittori astratti di inizio Novecento, anche se è vero che nell’artista russo le varie teorie che andavano emergendo trovarono una più piena attuazione. D’altro canto, altri autori nel corso dei decenni successivi fecero propria la lezione di Kandinskij e dei suoi seguaci, adattandola alla propria sensibilità e alla propria idea di mondo e di spazio.

Uno degli interpreti più originali e significativi di questa tendenza fu senza dubbio l’olandese Piet Mondrian, classe 1872, esponente di punta del De Stijl, quel movimento – noto anche come Neoplasticismo – che proponeva un’arte astratta, essenziale e profondamente geometrica.

Due forme, due colori

Inizialmente architettonica, questa scuola credeva che arte fosse già l’accostamento elementare di due forme geometriche e di due colori, in un percorso che l’artista (e l’arte occidentale tutta) conduceva dalle forme naturali a quelle d’emozione della geometria. Dal 1917 vari furono gli architetti, i designer e i pittori che si riconobbero in questi ideali, ma di tutte le opere che vennero messe a punto, quelle di Mondrian rimangono a tutt’oggi le più celebri e imitate.

L’idea di partenza dell’olandese – che nei primi anni della sua attività artistica aveva attraversato praticamente tutte le correnti artistiche disponibili al suo tempo, dall’impressionismo ai fauves, fino anche al cubismo – era quella di semplificare il suo sguardo sulla natura a una serie di linee ben calibrate e di colori primari, che nelle sue intenzioni avrebbero fatto emergere la struttura più intima del mondo.

1930: il punto d’arrivo di una lunga ricerca

Questo lavoro lo portò ad abbandonare la pittura di ispirazione naturalistica e, dopo la Prima guerra mondiale, a dar vita allo stile che l’ha reso famoso. Uno stile che troviamo esemplificato in Composizione II con rosso, giallo e blu, del 1930. Questo quadro segna forse il punto d’arrivo della ricerca di pulizia di Mondrian. I rettangoli sono ampi e poco numerosi, molti dei quali addirittura lasciati bianchi, mentre i colori primari si distribuiscono con equilibrio anche se in volumi diversi.

Anche per l’olandese, d’altronde, dietro a questa pittura c’era un ideale filosofico: già a partire dal 1908 aveva cominciato ad interessarsi alla teosofia di Helena Petrovna Blavatsky, cercando una conoscenza spirituale del mondo che non fosse più basata sui sensi, e sulla vista in particolare, ma su una comprensione più profonda della realtà.

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Henri Matisse – Jazz

Il fauve che era stato il maestro degli astrattisti

Le cheval, l'écuyère et le clown da Jazz, di Henri MatisseCome abbiamo avuto modo di vedere in queste poche righe, alcune correnti di inizio Novecento posero le basi per lo sviluppo dell’astrattismo, tanto è vero che molti dei pittori astratti provenivano o comunque attraversarono per un certo periodo quelle scuole e quegli stili. E, tra queste, un posto di riguardo lo merita il fauvismo e in particolare il suo massimo interprete, Henri Matisse.

Francese, classe 1869, era stato uno degli ispiratori del movimento, che comunque non ebbe, sulle prime, una gran fortuna: dall’esordio nel 1905 al declino già l’anno successivo, il fauvismo suscitò all’epoca più critiche che elogi, e lo stesso successo di Matisse arrivò solo negli anni successivi, quando paradossalmente la sua corrente era già stata sorpassata da altre e più aggressive avanguardie.

Tra Gertrude Stein e Pablo Picasso

Ciononostante, nella Parigi degli anni ’10 Matisse era una vera autorità. Sostenuto da Gertrude Stein e in amichevole competizione con Pablo Picasso, ormai giunto alla maturità artistica era considerato una delle più importanti voci della capitale, un maestro da riverire e da ascoltare.

La sua vita cambiò però notevolmente negli ultimi anni: separato dalla moglie e costretto su una sedia a rotelle, si trovava impossibilitato a continuare a dipingere come aveva sempre fatto fino ad allora, e quindi riuscì a inventarsi un nuovo modo di realizzare opere. Il risultato non era più fauvismo né, forse, arte figurativa, ma qualcosa di molto simile all’astrattismo, anche se difficilmente etichettabile.

La tecnica del papier découpé

Il prodotto più riuscito di quest’ultimo periodo fu Jazz (1947), un libro in edizione limitata realizzato tramite la tecnica del papier découpé. Era cioè sostanzialmente del collage creato incollando forme ritagliate in precedenza.

In questo libro, realizzato seguendo l’ispirazione del momento e affiancando le illustrazioni a poesie o a scritte vergate dallo stesso Matisse, emergevano immagini legate soprattutto al mondo del circo o ai miti del passato (celebre la pagina di Icaro), ma anche opere meno facilmente riconducibili a elementi descrittivi, come Le cheval, l’écuyère et le clown (il cavallo, il cavaliere e il clown) che vedete qui sopra, in cui sì si scorge il cavallo, ma in cui domina la contrapposizione spaziale dei colori.

Un elemento, quest’accostamento di elementi figurativi ed altri astratti, che ritornò anche nelle ultime opere della vita di Matisse; basti pensare a La tristezza del re del 1952, che è considerato il suo testamento spirituale, in cui, grazie alla stessa tecnica del collage, metteva insieme elementi decorativi, simbolici, elementari e figurativi, in una commistione decisamente originale.

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Jackson Pollock – One: Number 31

L’invenzione dello sgocciolatura

One: Number 31 di Jackson PollockConcludiamo la nostra rassegna con quello che, insieme a Kandinskij, è probabilmente l’astrattista più famoso, sinonimo stesso di un’arte che era ormai completamente slegata dalla realtà, o almeno dalla realtà sensibile: Jackson Pollock.

Nato nel 1912 negli Stati Uniti, ben lontano dalla vecchia Europa delle avanguardie e delle sperimentazioni, arrivò alla pittura astratta per una strada decisamente personale, legata soprattutto alla sua particolare interiorità e alla conoscenza dell’arte dei nativi.


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Negli anni ’40, infatti, dopo una formazione tutto sommato tradizionale, Pollock cominciò a dipingere con una nuova tecnica da lui stesso inventata, il dripping, spesso tradotto in italiano come sgocciolatura. Stendendo la tela sul pavimento del suo studio, faceva letteralmente gocciolare dai pennelli – o da qualsiasi altro strumento gli capitasse sottomano, dalle siringhe alle spatole, passando per i bastoncini – la vernice, che formava quindi delle linee completamente irregolari sulla tela.

Se i pittori astratti europei di vent’anni prima creavano figure in buona parte geometriche, riempite di colore perlopiù uniforme, Pollock schizzava le tele con gocce di colore, mescolando a volte la vernice anche con sabbia, pezzi di vetro ed altri materiali che servivano ad indurire il composto. Una tecnica completamente nuova, che il pittore aveva elaborato facendosi ispirare dai nativi americani e dalle loro pitture con la sabbia, che seguivano schemi tutto sommato simili ai suoi.

Camminando intorno alla tela

One: Number 31 – realizzato nel 1950, lungo più di 5 metri e 30 centimetri e conservato al MoMA – è forse il suo capolavoro e uno degli ultimi quadri realizzati con la tecnica che lo rese famoso, prima di cambiare almeno in parte modo di comporre la tavola; lo realizzò stando in piedi attorno alla tela, girandole intorno continuamente, secondo una modalità che – lo spiegava lui stesso – gli permetteva di sentirsi parte dell’opera, di immergersi completamente al suo interno.

Qui, in particolare, sembra emerge nel caos quasi una certa regolarità: in molti, nel corso degli anni, hanno infatti cercato di capire il senso delle opere di Pollock, o almeno di spiegarne i processi realizzativi, visto che lo stesso artista non dipingeva a caso ma sembrava aver sempre ben presente l’effetto che voleva ottenere.

Alcuni, sulla base di precisi studi, sono giunti ad affermare che nei getti di colore si colgono le caratteristiche dei frattali, secondo uno schema che si fa più preciso col passare degli anni. E qui la regolarità, ben difficile da spiegare o da individuare razionalmente, si riesce comunque a percepire, ed è forse questo l’aspetto più straordinario dell’opera.

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