Cinque imperdibili opere conservate al Louvre

Cosa vedere al Louvre, il principale museo di Parigi

Come diceva Enrico IV, Parigi val bene una messa. Ma probabilmente anche molto di più di una messa: già in passato, non a caso, vi abbiamo parlato dei suoi monumenti che si possono visitare in più o meno giorni, e del suo fascino trasmessoci da canzoni, film e libri.

E tra le tante cose vi abbiamo parlato dei suoi numerosi ed importanti musei, dal Louvre al Museo d’Orsay passando per il Centro Georges Pompidou, frutto di una tradizione artistica che ha fatto di Parigi la capitale mondiale dell’arte per almeno un secolo, dalla metà dell’Ottocento fino alla metà del Novecento ma anche di una forza politica che, dal Rinascimento fino a Napoleone, ha permesso alla nazione di importare in patria le opere dei grandi artisti di mezza Europa (e anche di molti italiani). Ma quali sono le cinque opere che non si può non vedere al Louvre, quelle che nessuna visita degna di questo nome può mancare? Ecco le nostre scelte.


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La Gioconda

Il ritratto, firmato da Leonardo da Vinci, più famoso dell’intera storia dell’arte

La Gioconda, sicuramente la più famosa tra le opere conservate al LouvreCominciamo dalla scelta più scontata e banale, ma inevitabile: la Gioconda di Leonardo da Vinci, senza ombra di dubbio il ritratto più famoso della storia dell’arte e, più in generale, forse il quadro simbolo di tutta la pittura mondiale. Visitata da migliaia di persone ogni giorno, tanto è vero che la coda per ammirarla può essere estenuante, la Gioconda è ospitata dal Louvre dai tempi della Rivoluzione francese, lì portata dopo che fu sottratta ai reali: contrariamente a quanto popolarmente si pensa, infatti, il quadro non fu uno di quelli portati in Francia da Napoleone Bonaparte, ma ci si trovava già da molto tempo, portato dallo stesso Leonardo, che lo vendette personalmente al re Francesco I.

Nonostante siano state avanzate le più disparate ipotesi sulla donna rappresentata e sul paesaggio alle sue spalle, probabilmente la Monna Lisa del titolo altri non è, banalmente, che Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo, esponente di una nobile famiglia fiorentina che abitava proprio di fianco a Leonardo durante la sua terza permanenza a Firenze; notizie del dipinto infatti si hanno fin dai primi anni del Cinquecento, anche se l’artista ritoccò più volte l’opera, aggiungendovi particolari e togliendone altri, come anche varie analisi ai raggi X hanno evidenziato.

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Celebre, in particolare, l’enigmatico sorriso della donna, su cui si sono scritte migliaia di pagine e che tanto ha contribuito al fascino del dipinto, un fascino capace di influenzare decine di artisti (che, come Duchamp, l’hanno parodiato o, come Warhol e Banksy, l’hanno attualizzato) ma anche di sconvolgere la mente di mitomani, che nel corso degli anni hanno più volte tentato di distruggere l’opera lanciandole contro l’acido, i sassi, le tazze da caffè ed altro ancora (non a caso, oggi l’opera è protetta da un vetro antiproiettile).

Infine, una curiosità: nel 1911 l’opera scomparve improvvisamente dal museo, rubata, si sarebbe scoperto poi, da un inserviente italiano che intendeva riportarla in patria in quanto la riteneva – erroneamente – rubata da Napoleone; questi la tenne per due anni in casa propria, fino a quando non contattò un antiquario fiorentino, che denunciò l’accaduto; l’uomo, tale Vincenzo Peruggia, fu condannato a una pena piuttosto lieve, ma in un primo tempo erano stati sospettati dalla polizia francese sia Guillaume Apollinaire, sia Pablo Picasso, il primo perché calunniato dall’amante, il secondo perché si immaginava che il furto potesse essere una provocazione delle varie avanguardie di inizio Novecento.

 

La Venere di Milo

La statua senza braccia di Alessandro di Antiochia

La Venere di MiloSpostiamoci dalla pittura alla scultura con due opere che hanno un valore fondamentale per comprendere lo stile e le capacità artistiche degli antichi. La prima è la Venere di Milo, statua celeberrima che è conservata al Louvre dal 1821: ritrovata – spezzata in due tronconi – l’anno prima nell’isola greca di Milos da un contadino, venne sequestrata dalle autorità ottomane che all’epoca dominavano sulla Grecia e fu portata in Francia solo grazie all’intercessione dell’ambasciatore francese nell’Impero e ai fondi garantiti da un ufficiale della marina transalpina, Olivier Voutier, che ne aveva riconosciuto la pregevole fattura; qui arrivò proprio all’epoca della Restaurazione, quando sul trono era stato risistemato Luigi XVIII e la Francia stava in un certo senso ancora “pagando il fio” delle imprese napoleoniche; non a caso, il Louvre aveva appena perso la Venere Medici, altra statua greca che Napoleone aveva in un certo senso rubato alla città di Firenze e che la Francia si era vista costretta a restituire.

Fu probabilmente anche per questo che l’arrivo della Venere di Milo fu esaltato dalla pubblicistica francese, ben interessata a far dimenticare il capolavoro perduto e a sostituirlo, nel cuore dei francesi, con la nuova opera, che di sicuro poteva rivaleggiare con quella italiana per bellezza e impatto visivo.

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Attribuita ad Alessandro di Antiochia, del quale al Louvre è conservata anche una statua di Alessandro Magno, e datata attorno al 130 a.C., la statua manca delle due braccia, cosa che invece di sminuirne il valore ne ha in un certo senso alimentato il mito, rendendola ancora più facilmente riconoscibile (basti pensare, per fare un esempio, alla citazione che ne fa Bernardo Bertolucci nel suo The Dreamers, in cui l’attrice Eva Green si presenta, in una scena, nuda dalla vita in su nella posa della statua, con dei guanti neri – su sfondo ugualmente nero – a mascherarne le braccia).

Probabilmente la posa dell’opera era quella di Afrodite che consegna il pomo dorato a Paride, visto anche che milos significa mela e che vicino ai due tronconi della statua fu ritrovata una mano con appunto una mela, ma molte sono state le ipotesi di possibili ricostruzioni che sono state avanzate nel corso degli anni, a volte anche molto fantasiose.

 

La Nike di Samotracia

Tra le opere principali, anche la Vittoria alata appena restaurata

La Nike di SamotraciaConcludiamo il nostro brevissimo excursus scultoreo – ricordando che comunque al Louvre è conservata anche l’Amore e Psiche del Canova di cui abbiamo parlato altrove – con un’altra statua greca del periodo ellenistico, la Nike di Samotracia che fa bella figura di sé in cima allo scalone progettato da Lefuel.

Ritornata al suo posto poche settimane fa dopo un anno di restauri finanziati interamente dai privati (primo caso del genere in Francia, grazie alle sovvenzioni di Bank of America, Nippon TV e altri, oltre a quelle di quasi 7mila donatori individuali), la statua risale circa al 180 a.C. ed è forse opera di Pitocrito, scolpita a Rodi per celebrare un’affermazione militare – Nike era infatti la dea della vittoria – ottenuta dalla città sulla flotta fenicia durante la battaglia di Side, anche se forse potrebbe essere la copia di una statua ancora più antica, visto che la stessa postura si trova ritratta in anfore, monete e altri documenti.

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Ritrovata nel 1863 a Samotracia, un’isola dell’Egeo allora possedimento ottomano, nelle condizioni in cui è adesso, e cioè senza testa e braccia (anche se quasi un secolo più tardi ne è stata ritrovata una mano), destò subito l’attenzione del console francese Charles Champoiseau, che riuscì a farla spedire in Francia lo stesso anno; restaurata e riassemblata, fu infine collocata al Louvre nel 1884, nella posizione che occupa ancora oggi, posizione da cui non si è più mossa se non per i restauri e, durante la Seconda guerra mondiale, per essere messa al sicuro.

Unanimemente considerata uno dei massimi capolavori della scultura antica, è particolarmente apprezzabile per la postura, che sembra scontrarsi contro il vento e in cui il panneggio delle vesti, molto raffinato ed elaborato, sembra perfino anticipare uno stile quasi barocco. Probabilmente in origine era stata costruita per essere posizionata sulla prua di una grande nave posta sulla collina di fronte al Santuario dei Cabri a Samotracia, e il panneggio serviva infatti ad indicare che la statua tagliava l’aria mentre guidava la nave alla vittoria; inoltre, grazie al frammento della mano ritrovata, si è ipotizzato che la statua fosse protesa in una sorta di saluto. Altro emblema celeberrimo della classicità, fu citata in questo senso anche da Filippo Tommaso Marinetti nel suo Manifesto del futurismo, quando affermava che per il nuovo movimento una corsa automobilistica era più bella della Nike di Samotracia.

 

Il Codice di Hammurabi

L’uniformità delle leggi nell’antica Babilonia

Il Codice di HammurabiDi interesse più prettamente storico e archeologico è invece il Codice di Hammurabi, ritrovato tra il 1901 e il 1902 dall’archeologo francese Jacques de Morgan tra le rovine di Susa, antica capitale del regno di Elam, oggi in Iran, e prontamente portato in Francia.

L’importanza dell’opera, che si studia in ogni libro di storia, è fondamentale per comprendere l’evoluzione del diritto nelle società antiche e le leggi che regolavano il vivere civile di allora; se, infatti, sono presenti numerosi codici antichi che mostrano leggi, usi e costumi delle varie popolazioni, questa è nettamente quella più corposa, capace di abbracciare ogni ambito del vivere sociale e quindi piuttosto esaustiva di una civiltà e delle sue leggi.

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La stele, alta più di due metri, presenta in alto il sovrano di Babilonia, Hammurabi, che rende omaggio al dio Shamash, divinità della giustizia, che in cambio gli dona le leggi; subito sotto, in caratteri cuneiformi, parte l’elenco, contrassegnato da un uso molto diffuso della cosiddetta Legge del Taglione secondo la quale ogni danno doveva essere ripagato con la medesima pena: all’insegna dell’«occhio per occhio, dente per dente», infatti, l’assassinio veniva punito con la pena capitale, ma addirittura l’omicidio di un uomo il cui padre era ancora in vita veniva punito con l’uccisione del figlio dell’assassino; non era contemplato inoltre l’omicidio colposo, e così si dice esplicitamente che l’architetto che avesse costruito una casa che fosse poi crollata sui suoi abitanti uccidendoli sarebbe stato punito con la morte.

Particolare interessante, infine, è il fatto che la stele conservata al Louvre non sia un unicum, ma che perfino nello stesso sito di Susa – dove probabilmente era arrivata come bottino di guerra – se ne trovò una copia, segno che probabilmente il codice era stato prodotto in un certo senso in serie e che era quindi disponibile in vari luoghi per la popolazione, che poteva così – ovviamente se sapeva leggere – consultare la legge e avere un punto di riferimento stabile e certo per i comportamenti e i reati, libero quindi dalle voglie e dagli umori del sovrano. Così non deve stupire che una copia meno nota della stessa stele sia conservata al Pergamonmuseum di Berlino, anche se è indubbiamente francese sia l’onore della scoperta del reperto, sia la sua prima decifrazione ad opera di Jean-Vincent Scheil (per la verità uno studioso nato proprio al confine tra Francia e Germania, in Lorena) già nel 1904.

 

La Vergine delle rocce

L’altro, innovativo, capolavoro tra i quadri di Leonardo da Vinci

La Vergine delle rocce di Leonardo da VinciPer l’ultimo punto della nostra cinquina avremmo potuto scegliere varie opere, perché il Louvre è talmente vasto e pieno di meraviglie che, una volta esauriti i pezzi fondamentali, è difficile limitarsi ad una sola cosa. Meritano una segnalazione, infatti, sia la già citata statua di Amore e Psiche del Canova, sia La zattera della Medusa di Géricault, sia L’astronomo di Vermeer, ma alla fine, anche per dare spazio ad opere di cui non abbiamo ancora mai parlato, abbiamo optato per La Vergine delle rocce di Leonardo, un altro dei suoi più grandi capolavori.


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Il dipinto fu probabilmente realizzato una ventina d’anni prima rispetto alla Gioconda, nel periodo compreso tra il 1483 e il 1486; giunto a Milano, infatti, Leonardo ottenne da una confraternita religiosa l’incarico di dipingere una pala d’altare assieme ai fratelli Evangelista e Giovanni Ambrogio De Predis: mentre i primi avrebbero dovuto realizzare le due parti più esterne di un trittico, Leonardo doveva dipingere quella centrale, il cui soggetto – si legge nel contratto – era stato stabilito in maniera molto precisa ma anche convenzionale. L’artista però se ne uscì con, forse, la sua creazione più originale, cioè il quadro attualmente conservato al Louvre in cui, ispirandosi ad alcuni Vangeli apocrifi e a testi devozionali, si racconta di un incontro tra Gesù e Giovanni Battista da bambini.

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Al di là della perfetta esecuzione del soggetto, ciò che stupisce è la disposizione della scena, fortemente innovativa per l’epoca: la pala è costruita infatti seguendo varie linee di forza in cui un peso centrale hanno le braccia della Madonna, che accoglie il piccolo Giovanni e pone una mano quasi minacciosa su Gesù, e soprattutto il dito dell’angelo, che indica il Battista in un modo mai visto prima e volge lo sguardo addirittura verso lo spettatore, coinvolgendolo nella scena.

La sorte del dipinto fu molto travagliata: Leonardo e i suoi colleghi chiesero ai committenti un adeguamento del compenso perché, dicevano, il soggetto era stato cambiato e reso più complesso; in questo modo però la causa si protrasse per anni e Leonardo ebbe modo di realizzare un’altra versione dello stesso dipinto, più convenzionale (mancano il dito dell’angelo e lo sguardo verso il pubblico) e dipinta con colori più freddi che oggi è conservata alla National Gallery di Londra. Alla fine l’opera giunse in Francia, non si sa se grazie alle razzie di Luigi XII – che conquistò Milano nel 1499 – o ad un dono che il duca Ludovico il Moro aveva fatto a Massimiliano d’Asburgo in occasione delle sue nozze, dono poi “riciclato” dall’austriaco nei confronti delle nozze di Francesco I, re di Francia; comunque siano andate le cose, il dipinto era sicuramente in possesso della corona francese nel XVII secolo e fu poi traslato al Louvre nel corso dell’Ottocento.

 

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1 COMMENTO

  1. Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Gesù di Nazaret avendo una intelligenza simile hanno avuto un volto somigliante verso il termine della vita, avvenuta ad età differenti. La Gioconda è un ritratto ideale, un rimando al volto archetipo di Gesù, un abile gioco di prestigio, una straordinaria illusione ottica che rimanda al volto di Leonardo (potrebbe essere un suo ritratto al femminile) e indirettamente a quello della Sindone (Il volto sindonico e l’autoritratto di Leonardo si somigliano). Questo è forse la ragione principale del mistero e fascino del quadro. Cfr. ebook (amazon)/book. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo.

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