Cinque importanti esponenti della Scuola di Francoforte

Horkheimer e Adorno – due dei principali esponenti della Scuola di Francoforte – nel dopoguerra, con, sullo sfondo, un giovane Jürgen Habermas (foto di Jeremy J. Shapiro via Wikipedia)
Horkheimer e Adorno – due dei principali esponenti della Scuola di Francoforte – nel dopoguerra, con, sullo sfondo, un giovane Jürgen Habermas (foto di Jeremy J. Shapiro via Wikipedia)

La storia della filosofia – come ogni forma di storiografia – ha sempre bisogno di un certo distacco, per valutare e giudicare. Così, mentre è abbastanza chiaro quali siano stati i più grandi pensatori del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento, per quanto riguarda il Novecento è facile, per un profano, sentirsi sperso: le correnti filosofiche si sono moltiplicate, gli esponenti maggiori rischiano di essere decine e decine, e non è facile capire chi verrà studiato ancora tra cento o duecento anni e chi invece verrà beatamente dimenticato.

È quindi complesso valutare il peso specifico di una corrente piuttosto che di un’altra. Di sicuro, però, la cosiddetta Scuola di Francoforte è stata una di quelle che hanno lasciato maggiormente il segno, se non a livello filosofico quantomeno a livello politico e sociale.

Le riflessioni messe in piedi da una serie di filosofi, sociologi e psicanalisti tra gli anni ’30 e gli anni ’60, infatti, hanno fornito il retroterra culturale di tutta la sinistra sessantottina e post-sessantottina, come dimostrano anche, per assurdo, oggi una lunga serie di siti complottisti di estrema destra che vedono nella loro influenza (e nel loro essere, contemporaneamente, marxisti ed ebrei) il segno della crisi dell’Occidente.

In realtà, Horkheimer, Adorno, Marcuse e soci hanno sì avuto un’influenza rilevante sui giovani, ma sono forse oggi un po’ passati di moda, sorpassati dai tempi assieme a una certa parte delle loro utopie; ma forse proprio per questo, può ritornare utile studiarli, liberi dagli impedimenti dell’attualità e della moda.

Perché negli studiosi dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte emerge un tentativo di conciliare alcune delle scuole di pensiero più interessanti della fine dell’Ottocento e del primo Novecento: la tradizione marxista, la riflessione freudiana e l’analisi weberiana. Vediamo come.

 

1. Max Horkheimer

Il direttore in esilio e la repressione

Cominciamo con Max Horkheimer, filosofo che divenne la prima vera guida della Scuola, assumendo la direzione dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte nel 1930, pochi anni dopo la laurea e appena ottenuta la cattedra di filosofia sociale nella giovane università della città.

Nativo di Stoccarda, rampollo della borghesia ebraica – tanto è vero che i suoi genitori non volevano che studiasse ma avrebbero preferito che si fosse occupato dell’azienda di famiglia –, Horkheimer poté agire per poco tempo in Germania, visto che già nel 1933, con l’avvento del nazismo, gli fu revocata la licenza e l’Istituto fu chiuso.

Max Horkheimer

Così emigrò prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti, ottenendo rapidamente la cittadinanza americana e incontrando lì molti dei suoi vecchi colleghi e in particolare Theodor Adorno, a cui era legato da amicizia e identità di vedute.

L’anno più importante per la sua produzione filosofica fu indubbiamente il 1947, quando si trovava ancora in America e poco prima di rientrare in Germania. In pochi mesi, infatti, videro la luce due libri fondamentali per la Scuola di Francoforte, che portavano la sua firma: il primo è Dialettica dell’illuminismo, che scrisse assieme ad Adorno; il secondo è Eclisse della ragione, che compose invece da solo.


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In entrambi questi volumi il filosofo tedesco presentava un marxismo critico, che si rendeva conto che le forme del dominio non erano più quelle delineate da Karl Marx, ma si erano fatte in un certo senso più subdole: l’uomo, ogni uomo, risultava in un certo senso soggetto ad una repressione che egli stesso imponeva a sé. La scienza e la tecnica, infatti, lo avevano reso più schiavo di quanto non avesse fatto il capitale, una schiavitù che lo aveva portato a rinunciare alla libertà e al piacere e dalla quale nessuno riusciva a liberarsi.

Una riflessione piuttosto amara, che si fece più schiettamente pessimista negli ultimi anni della vita di Horkheimer. Una volta rientrato in Europa e riaperto l’Istituto, il filosofo arrivò infatti anche a confrontarsi con gli esiti delle varie rivoluzioni marxiste avvenute nel mondo, ammettendo che Marx si era illuso, e che giustizia e libertà non sembravano essere concetti in grado di convivere su questa terra.

 

2. Theodor Adorno

L’arte, la morale e la critica alla società

Come detto, Dialettica dell’illuminismo fu un libro fondamentale per gli esiti successivi della scuola, e fu scritto a quattro mani da Horkheimer e Adorno.

Quest’ultimo era nativo proprio di Francoforte, più giovane di Horkheimer di quasi dieci anni e di origini ebraiche, anche se suo padre si era convertito al protestantesimo in tempi non sospetti e sua madre era cattolica; all’Istituto di Francoforte era entrato soprattutto grazie all’amicizia con Horkheimer, creatasi sui banchi dell’università, coltivando però parallelamente alla sociologia anche un importante interesse per la musica, di cui si sarebbe rivelato uno dei più attenti studiosi.

Theodor Adorno

Lasciò anch’egli la Germania all’avvento di Hitler, rifugiandosi prima a Oxford e poi negli Stati Uniti, salvo poi ritornare nella madrepatria dopo la fine della guerra. Considerato un mito dal movimento studentesco, sembrò non capire in realtà le prime istanze dei suoi stessi studenti: quando questi occuparono i locali dell’Istituto per la Ricerca Sociale (tra l’altro pochi mesi prima della sua morte), Adorno non esitò infatti a chiamare la polizia perché li facesse sgomberare.

Per quanto riguarda gli studi, Adorno seguì tre linee parallele: da un lato, approfondì l’analisi sociologica, interessandosi in particolare alla cosiddetta personalità autoritaria, anche con studi che, nonostante un iniziale successo, in realtà nel corso degli anni sono stati ampiamente criticati per un approccio metodologico piuttosto superficiale; dall’altro, si interessò anche di morale e di estetica, in maniera molto originale.

Nel primo caso, scrisse un’opera destinata a un grande successo come Minima moralia, in cui, in maniera molto semplice e quasi divulgativa, descrisse la crisi della società contemporanea e dell’uomo costretto a vivere all’interno di essa; nel secondo caso, si interessò di musicologia e delineò un ruolo duplice dell’arte nella società industriale, visto che essa poteva essere sia strumento di repressione (diventando industria culturale che trasforma le persone in consumatori), sia però anche strumento rivoluzionario.

 

3. Walter Benjamin

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Fu molto meno fortunata e molto meno ricca di soddisfazioni l’avventura professionale e umana di Walter Benjamin, in maniera tra l’altro molto paradossale: in vita, al filosofo nativo di Berlino mancarono successi e benemerenze, tanto è vero che fallì l’abilitazione all’Università di Francoforte e non riuscì, a differenza dei suoi colleghi, a diventare professore universitario.

I suoi lavori, per quanto profondi e maturi, non ebbero alla loro uscita il successo sperato; e infine, la morte fu quanto di più sfortunato si potesse pensare nella pur tragica situazione dell’Europa della Seconda guerra mondiale.

Walter Benjamin

Rifugiatosi a Parigi già da tempo perché anch’egli di famiglia ebraica, Benjamin accolse con terrore l’arrivo dei nazisti nella capitale francese nel 1940, scappando immediatamente con alcuni amici verso sud, con la speranza di varcare il confine con la Spagna e da lì imbarcarsi per gli Stati Uniti; in realtà, in territorio spagnolo il visto gli fu ritirato per qualche ora e il filosofo si lasciò prendere dal panico, suicidandosi con la morfina, non sapendo che lo stesso visto per l’espatrio gli sarebbe stato riconsegnato solo poche ore dopo.

Al di là di questa esistenza particolarmente sfortunata, però, come dicevamo Benjamin è oggi forse il più studiato e letto tra quelli che furono gli intellettuali vicini all’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte: mentre gli scritti degli altri personaggi di questa cinquina hanno avuto periodi di grande fortuna ma oggi, a tratti, sono passati in secondo piano, quelli di Benjamin stanno vivendo da vari anni una seconda giovinezza, anche perché capaci di anticipare in maniera acuta alcuni degli sviluppi della società.

Il suo testo più famoso è sicuramente L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, un breve saggio in cui delinea gli sviluppi dell’arte nell’epoca della fotografia, del cinema e del fonografo, un’arte che ha perso completamente la sua aura sacra ma che riesce a parlare per la prima volta a tutti, influenzandone la vita; un’arte che quindi può essere strumento di repressione totalitaria ma anche di emancipazione e democraticizzazione.

 

4. Herbert Marcuse

La guida teorica del movimento studentesco

Ebreo e berlinese era anche Herbert Marcuse, e anzi fin dagli anni della giovinezza più dei suoi futuri compagni impegnato politicamente, avendo aderito alla SPD nei mesi caldi che portarono alla fine della Prima guerra mondiale e alla rivoluzione spartachista, poi repressa nel sangue dalla nascente Repubblica di Weimar.

Studiò in varie università tedesche e si avvicinò alla Scuola di Francoforte subito prima di fuggire dalla Germania, rifugiandosi prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti, dove nel 1940 prese la cittadinanza.

Herbert Marcuse, guida teorica del movimento del '68

Qui fu molto attivo durante gli anni della guerra, lavorando coi servizi segreti e fornendo informazioni sul suo paese d’origine; successivamente, nel dopoguerra, fu ingaggiato per una serie di studi sociali sulla Russia sovietica, prima di iniziare a insegnare in molte università americane. Tra tutti gli esponenti della scuola, fu probabilmente quello più apprezzato dal movimento studentesco, tanto che sul finire degli anni Sessanta lasciò gli Stati Uniti per spostarsi nelle varie capitali europee e tenere discorsi e lezioni agli studenti.

Dal punto di vista concettuale, le sue idee più celebri si trovano espresse nel volume Eros e civiltà del 1955 e in L’uomo a una dimensione del 1964, in cui delinea come la civiltà moderna, dominata dalla tecnica e dall’industrializzazione, sia per sua natura repressiva e portatrice di infelicità; una condizione che accomuna sia il capitalismo che il socialismo sovietico, da questo punto di vista vittime degli stessi difetti strutturali.

Riprendendo Freud e portando però ben più in là la propria analisi, Marcuse ritiene che l’infelicità e la repressione dell’uomo non siano dati necessari, ma che siano frutto di una irrazionale organizzazione sociale, che distribuisce le risorse in maniera iniqua.

Solo una nuova rivoluzione – alimentata però non più dalla classe operaia, che è ormai uniformata a questa situazione – potrà liberare veramente l’uomo dall’infelicità a cui lui stesso si è condannato: per questo bisogna rivolgersi a chi ancora non è dentro al meccanismo, cioè agli studenti, facendosi guidare non più dalla parola o dalla ragione ma dall’immaginazione (da qui il celebre motto dell’«immaginazione al potere»).

 

5. Erich Fromm

Il freudiano che si interessava delle malattie della società

Completamente diverso – e spesso in aperta polemica con quello di Marcuse – era l’atteggiamento di Fromm nei confronti del maestro Freud. Erich Fromm, nato proprio a Francoforte nel 1900, è anzi della scuola l’esponente forse più divulgativo ma allo stesso tempo quello meno legato alla speculazione filosofica: sociologo e psicoanalista, ha infatti dedicato la sua vita e i suoi studi non tanto a delineare utopie sociali, quanto a curare le nevrosi che la società generava negli individui.

Nato da una famiglia ebraica profondamente osservante, iniziò a collaborare con Freud giovanissimo, trasferendosi negli Stati Uniti all’avvento del nazismo e qui ottenendo la cittadinanza; si spostò poi, negli anni Cinquanta, in Messico, prima di tornare in Europa negli ultimi anni della sua vita. Le sue opere principali sono Psicanalisi della società contemporanea e, anche per le fiorenti vendite, L’arte di amare e Avere o essere?

Erich Fromm, forse il più grande divulgatore della scuola

La tesi di fondo della sua ricerca è che la malattia psicologica, la nevrosi, non sia solo individuale, ma possa essere anche sociale; e che anzi una società “malata” possa indurre nevrosi anche in cittadini che nascono sani. In questo modo si concentrò sullo studio sociologico sia dei sistemi occidentali che del socialismo reale, notando come entrambe le forme di governo privassero l’uomo di un’effettiva libertà, provocando disumanizzazione e alienazione.


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Per questo propose anche attivamente un socialismo umanista, centrato cioè sull’uomo e sulle sue esigenze, cercando di far riemergere l’originale pensiero di Marx – ormai profondamente travisato dagli esiti rivoluzionari russi – e di promuovere politiche per una pacificazione globale.

Interessanti, inoltre, le sue analisi sull’amore e la personalità dell’individuo, oltre che le risposte che questi secondo lui può dare ad una società che non è come la desideriamo. Così, non lesinando anche critiche al suo antico maestro Freud, Fromm descrisse una sessualità nuova, più libera ma allo stesso tempo più responsabile, che l’uomo contemporaneo doveva riscoprire e fare propria nel rapporto con l’altro.

 

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