
La pazzia ci affascina e ci spaventa. Da sempre il folle ci sembra in grado di comprendere la reale natura del mondo, di comunicare con l’Aldilà, di avvicinarsi a Dio. Allo stesso tempo però ci preoccupa per la sua imprevedibilità, per l’incapacità di porsi con gli altri in un rapporto ordinato e normale. Non è un caso che la letteratura e la storia siano intrisi di folli.
I folli di carta ed in carne ed ossa
Folli sono alcuni personaggi come l’Orlando di Ariosto, il Don Chisciotte, il re Lear. Lo sono, a modo loro, anche i protagonisti di Pirandello o di alcuni romanzi di Dostoevskij. Folli sono anche, spesso, gli stessi artisti o i filosofi, che sospettiamo siano arrivati alla vetta della loro arte proprio grazie a questa pazzia (o che la follia sia il prezzo del loro sforzo mentale). Pensate ad esempio a Torquato Tasso, a Friedrich Nietzsche, a Vincent van Gogh, a Virginia Woolf e a decine di altri.
Eppure la follia l’abbiamo espulsa dal nostro consesso civile, isolandola a lungo in ospedali specifici. E anche oggi, nonostante molte cose siano cambiate, lo stigma sociale rimane. Proprio da questa ambivalenza e da questo paradosso siamo partiti per selezionare cinque frasi che possono aiutarci a riflettere sulla pazzia. Come vedrete, sono opera di alcuni tra i più grandi letterati e pensatori della nostra epoca. Eccole, con qualche nota biografica sui loro autori.
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Indice
Risultati diversi
Una frase celebre, di cui non si conosce il reale autore
Cominciamo con una citazione che è diventata popolare negli ultimi anni, perché in un certo senso ben sintetizza il meccanismo logico della pazzia. Una frase, però, di cui raramente si riesce a leggere il reale autore. Il più delle volte la si vede infatti attribuita ad Albert Einstein, ma non risulta che il fisico tedesco abbia mai detto nulla di simile. Altre volte la si trova attribuita a Mark Twain, ma anche in questo caso mancano le prove.
In realtà, è stato scoperto che la prima a citarla in un libro è stata probabilmente Rita Mae Brown, scrittrice americana che vedete ritratta qui di fianco. Ma anche lei, quella frase, la riprendeva da altre fonti. È stata infatti trovata in un opuscolo di inizio anni ’80 dei Narcotici Anonimi, un gruppo impegnato nel supporto alla disintossicazione. Chiunque ne sia l’autore, la frase rimane una delle sintesi migliori del comportamento dei pazzi.
Follia è fare sempre la stessa cosa ed aspettarsi risultati diversi.
(anonimo)
Tra l’altro, visto che l’abbiamo citata, vale la pena di spendere due parole si Rita Mae Brown. Una donna che di certo non è pazza, ma che si è dovuta scontrare, soprattutto in gioventù, con chi la riteneva tale per via delle sue preferenze sessuali. Nata nel 1944, la Brown è considerata una delle madri della letteratura lesbica americana. Ed ha contribuito per tutta la sua carriera ad articoli e riviste femministe e, appunto, lesbiche.
Il suo romanzo più famoso è La giungla di fruttirubini, pubblicato per la prima volta nel 1973 ed in parte autobiografico. Ma la sua fama è dovuta anche alle sue relazioni sentimentali. La Brown è stata infatti in passato compagna di Martina Navrátilová, forse la più grande tennista di tutti i tempi. In tempi più recenti si è legata a Fannie Flagg, altra grande scrittrice omosessuale, autrice del libro da cui lei stessa ha poi tratto la sceneggiatura del film Pomodori verdi fritti alla fermata del treno.
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La follia è come la gravità
La celebre frase del Joker
Se si pensa a pazzia e narrativa, il pensiero corre anche ad alcuni personaggi ricorrenti, magari provenienti dai racconti popolari, che ormai incarnano nel nostro immaginario l’idea del folle. Uno fra questi è sicuramente il Joker, storico antagonista di Batman, protagonista di numerosi fumetti ma anche di film di grande successo. E c’è da dire che, almeno sotto certi punti di vista, quello di Joker è un personaggio addirittura più affascinante della sua controparte “buona”.
A dimostrarlo è, ad esempio, la scelta degli attori che negli anni sono stati chiamati a dargli un volto. Jack Nicholson, Heath Ledger e, recentemente, Jared Leto hanno infatti fornito prove di prim’ordine quando hanno dovuto vestire i panni di questo pazzo criminale. E hanno contribuito a lasciare un segno nella storia del cinema. Proprio a uno di loro dobbiamo riferirci con la seconda frase della nostra cinquina, tratta da Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan.
La follia, come sai, è come la gravità: basta solo una piccola spinta.
(Il cavaliere oscuro)
La battuta che trovate qui sopra viene pronunciata in quel film proprio da Joker, quando cerca di spiegare il piano che aveva messo in atto. Il progetto, secondo la sceneggiatura di Christopher e Jonathan Nolan, era quello di far scivolare lo stesso Batman nella pazzia. Il tutto confidando nel fatto che quello della follia è un vortice in cui è facile cadere ma da cui è difficile uscire.
Il concetto, tra l’altro, non era del tutto originale. Da vari anni è infatti una costante nei fumetti del personaggio della DC Comics. Il primo, anzi, a portare alla ribalta questo tema è stato il celebre Alan Moore, con la sua graphic novel The Killing Joke. Da lì in poi, però, l’argomento è stato esplorato da decine di altri autori. Sulla carta stampata e al cinema.
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Ricordiamoci di essere folli
L’ironia di Mark Twain
In apertura vi abbiamo presentato un aforisma di cui non si è riusciti a risalire al reale autore. Vi abbiamo però detto che nel tempo è stato attribuito, erroneamente, a varie fonti, come Albert Einstein o Mark Twain. Un errore comune, perché Einstein e Twain sono stati – oltre che un grande fisico e un grande scrittore – due ottimi aforisti, capaci di spaziare su una miriade di temi diversi. E così al terzo punto della nostra cinquina troviamo una frase firmata proprio da Twain.
Il grande scrittore americano parla però di follia in un modo diverso rispetto a quello degli altri autori che abbiamo visto. A lui non interessa parlare dei folli, ma dei sani. O, meglio, di quelli che vengono considerati sani, senza sapere in realtà di essere folli. L’idea è che l’uomo abbia dentro di sé una certa dose di pazzia. Una pazzia che cerca però di scordare, mortificandola al di sotto di una coltre di razionalità e buon senso.
Quando ci ricordiamo di essere tutti folli, i misteri della vita scompaiono e la vita trova una spiegazione.
(Mark Twain)
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Eppure questa pazzia, nel pensiero di Twain, è in realtà necessaria ad affrontare la vita. Se la vita si fa sempre più irrazionale, infatti, anche l’uomo deve diventare un po’ pazzo. D’altronde, tutta l’opera letteraria di Twain è segnata da una certa dose di follia. I suoi due romanzi più famosi sono Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn, in cui racconta le vicende di due ragazzi “strani”. Ovvero due amici contraddistinti dal rifiuto delle normali regole della civiltà.
Tom è infatti un discolo, che riesce a volgere a proprio vantaggio una serie di situazioni e, in generale, a farsi beffe del sistema. Huck è invece addirittura più estremo di lui, in quanto vive da vagabondo, dormendo addirittura in un barile. Ma l’umorismo di Twain era tutto giocato in questo contrasto tra sanità e pazzia, tra normalità e assurdità. E in questo senso, sono interessanti anche altre sue opere, come Il principe e il povero e Un americano alla corte di re Artù.
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La schizofrenia e l’arte
Il pensiero di Hermann Hesse
L’abbiamo detto subito: la follia affascina in primo luogo gli artisti. Un po’ perché loro stessi tendono a cedere a questa forma di dissociazione, un po’ perché amano il personaggio del matto, mettendolo al centro di molte opere. E, se si indaga un po’, se ne capisce anche il perché. Il folle guarda il mondo da una prospettiva diversa, e sa perciò metterne in risalto le contraddizioni. Un po’ come il bambino che, nella celebre fiaba di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, è l’unico ad urlare che il re è nudo.
Questo concetto lo troviamo ben espresso nella frase di Hermann Hesse che trovate qui di seguito. Una frase che anzi introduce una distinzione tra la pazzia e la schizofrenia, intendendo la prima – in senso letterario – come l’inizio di ogni sapienza e la seconda come l’inizio delle arti. D’altronde, come saprete, la schizofrenia è uno stato di dissociazione da sé e dalla realtà che in effetti, almeno nelle sue forme più lievi, può essere rintracciata nelle biografie di vari geni artistici.
Come la pazzia, in un certo senso elevato, è l’inizio di ogni sapienza, così la schizofrenia è l’inizio di tutte le arti, di ogni fantasia.
(Hermann Hesse)
Nato in Germania nel 1877, Hesse si trovò ad affrontare la pazzia anche durante la sua vita. La prima moglie, Maria Bernoulli, dalla quale divorziò nel 1923, diede pesanti segni di squilibrio mentale. Lo stesso Hesse fu vittima, in quegli anni, di una forte depressione. A questa, però, reagì in maniera vitalistica, anche abbracciando sensazioni e filosofie nuove.
Attratto dalla spiritualità – fosse essa orientale o cristiana medievale – e dalle domande che cercavano di dare un senso all’esistenza umana, rifiutò il nazismo e visse per gran parte della sua vita in Svizzera, ottenendo la cittadinanza di quel paese. Nel 1946, forte di capolavori come Siddharta, Il lupo della steppa e Narciso e Boccadoro, ottenne sia il Premio Nobel che il Premio Goethe. Morì nel 1962.
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Nasciamo pazzi
Il tagliente giudizio di Samuel Beckett
Concludiamo il nostro percorso attraverso la pazzia con una frase che, ci pare, in un certo senso chiude il cerchio sul tema. Perché abbiamo detto più volte che il folle è sì pericoloso, ma sa anche vedere più in là, sa svelare ciò che risulta nascosto. Sa, in un certo senso, rimanere bambino e non cedere alle lusinghe della ragione. O almeno questo è quello che sembra dirci la frase di Samuel Beckett che trovate qui di seguito.
Lo scrittore irlandese ha frequentato a lungo il terreno della pazzia. Fin da uno dei suoi primi romanzi, Murphy, scritto poco dopo i 30 anni, emergeva anzi l’attenzione verso questo tema, che sarebbe rimasto una delle costanti della sua opera. Pazzia, assurdità, incomunicabilità: tutti elementi che sarebbero stati alla base di quel fortunato genere teatrale che viene ricordato dai critici come il “teatro dell’assurdo”.
Si nasce tutti pazzi. Alcuni lo restano.
(Samuel Beckett)
In questo campo, Beckett fu sicuramente un apripista. Aspettando Godot, nel 1952, sconvolse gli intellettuali di mezza Europa, e Finale di partita, presentato quattro anni più tardi, diede loro il colpo di grazia. Sarebbero seguiti poi gli Atti senza parole, Giorni felici ed altre pièce, sempre impegnate a tessere un intreccio di incompiutezza attorno all’uomo moderno.
Anche nei suoi romanzi, però, Beckett approfondì temi simili. Perché dopo essersi staccato dall’influenza di Joyce, seppe dare vita a una trilogia di libri che ci permette di conoscerlo più da vicino. Questi tre romanzi – Molloy, Malone muore e L’innominabile – possono essere letti come un viaggio nella psiche di Beckett, nelle sue paure, nei suoi rimorsi, nei suoi rapporti familiari ed interpersonali. Un viaggio in parte allucinato, difficile da decifrare, in cui si accavallano diverse personificazioni dello stesso io. E in cui poco è come sembra.
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