
Da quando si è votato per la Brexit, la scena politica inglese ha riacquisito interesse anche da noi. Era dai tempi di Tony Blair, infatti, che non si guardava con grande attenzione a quello che accadeva nel Regno Unito. Quasi che il paese di Elisabetta II fosse diventato una potenza secondaria. E invece di recente il peso delle scelte della Gran Bretagna si sente in tutta Europa, soprattutto quando sono estreme.
Gli sconvolgimenti della Brexit
Proprio la Brexit, infatti, ha portato alla caduta del governo di David Cameron e a una rapida successione nella leadership delle varie forze politiche, con l’ascesa di uomini e donne nuovi e la loro veloce rovina.
Vale quindi la pena di fare un po’ il punto su quali sono i principali partiti politici del paese. E di comprenderne la linea attuale e i nuovi leader.
Per farlo, abbiamo scelto di concentrarci sui voti reali. In Inghilterra vige infatti il sistema maggioritario, che dà maggiore risonanza a partiti ben radicati sul territorio, a volte anche regionali. Qui guarderemo invece non al numero di seggi, ma alle percentuali dei voti.
Ecco quindi i cinque partiti inglesi che nelle ultime elezioni politiche, nel 2019, hanno riportato il maggior numero di voti.
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Indice
1. Partito Conservatore
Il più antico partito inglese
Il più vecchio e forte partito politico inglese è sicuramente quello Conservatore. Fondato ufficialmente nel 1834, in realtà affonda le sue radici addirittura più indietro nel tempo.
Si tratta infatti dell’erede del Tory Party che comparve per la prima volta sulla scena alla fine del ‘600, durante le due rivoluzioni inglesi. Per questo ancora oggi i simpatizzanti di questo partito – il cui nome completo è Conservative and Unionist Party – vengono chiamati tories.
Dal punto di vista degli schieramenti, i conservatori si pongono nel centrodestra. Storicamente fautori di un’economia liberista, hanno sempre preferito una politica estera votata all’isolamento.
Nell’epoca dell’Unione Europea tutto questo si è concretizzato in un moderato euroscetticismo. Proprio per questo motivo la sterlina è rimasta fuori dagli accordi sull’euro. Più di recente, inoltre, il partito si è spaccato sul referendum per l’uscita dalla UE.
Winston Churchill e Margaret Thatcher
Molti sono stati i Primi Ministri britannici usciti da questa formazione, ma due si stagliano su tutti gli altri. Il primo è Winston Churchill, che dopo essere stato più volte ministro iniziò a guidare l’esecutivo britannico nel 1940, nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale. Fu proprio lui a portare la Gran Bretagna a una sofferta ma importante vittoria.
La seconda è Margaret Thatcher, che guidò il governo dal 1979 al 1990, segnando in modo così profondo la scena da far parlare gli osservatori di “era thatcheriana”.
In tempi più recenti il Partito Conservatore è tornato al governo nel 2010. A guidarlo, allora, era David Cameron, che salì al potere grazie ad un’alleanza con i Liberal Democratici. Nel 2015 il partito è infine tornato a vincere le elezioni, questa volta garantendosi una maggioranza in Parlamento senza il bisogno di alcuna alleanza.
Il nuovo governo di Cameron è entrato però subito in difficoltà per via dei rapporti con l’Unione Europea. In seguito al referendum sull’uscita dall’UE, svoltosi nel giugno 2016, Cameron si è quindi dimesso, venendo sostituito da Theresa May.
Pochi mesi prima delle elezioni del 2019 anche lei, però, ha lasciato l’incarico (travolta dalle difficoltà negoziali della Brexit) al collega di partito Boris Johnson, che ha vinto le elezioni del 2019 con un ottimo risultato.
2. Partito Laburista
Da Blair a Starmer
Dagli anni ’20 del ‘900, il principale (e per certi versi l’unico) antagonista del Partito Conservatore sulla scena britannica è stato il Partito Laburista. Fu fondato nel 1900 come unione di diverse sigle operaie e sindacali, assumendo il nome di Labour Party.
All’inizio fece in realtà fatica ad imporsi, anche a causa di una legge elettorale che non ammetteva tutti gli uomini al voto ed escludeva le donne. Da quando la classe operaia poté votare completamente, però, il Labour divenne uno dei protagonisti della scena. E lo fece soppiantando il Partito Liberale, con cui era stato fino ad allora alleato.
L’ideologia è tipicamente socialdemocratica e riformista, lontana, anche in epoca di Guerra fredda, dal comunismo ma allo stesso tempo fautrice di profonde riforme sociali. Questo lo si vide soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Fu in quell’epoca, infatti, che il Labour riuscì per la prima volta a formare governi solidi e autonomi. Questo permise agli uomini del premier di allora, Clement Attlee, di varare un tipo di welfare state che divenne un modello anche per altri paesi europei.
Il New Labour
Dopo i grandi successi degli anni ’40, ’60 e ’70, il partito entrò però in crisi negli anni ’80. Il successo della Thatcher, infatti, lo aveva ricacciato piuttosto indietro nei voti. Rinacque alla fine del decennio successivo grazie alla svolta di Tony Blair e alla nascita del cosiddetto New Labour.
Una svolta segnata dallo spostamento verso il centro del partito, dall’apertura a un’economia liberista (anche se mediata da correttivi) e alla devolution di Galles, Scozia e Irlanda del Nord. Ma segnata anche da una contestata alleanza con George W. Bush nella lotta contro il terrorismo.
A Blair è poi succeduto Gordon Brown, ma nel 2010 i laburisti sono tornati all’opposizione. La linea politica si è poi spostata a sinistra con l’elezione di Jeremy Corbyn a segretario, con proposte economiche spingevano verso la fine dell’austerity e un ruolo sempre più attivo dello Stato nel sostegno all’occupazione.
Questa linea, però, è stata duramente attaccata anche all’interno del partito dopo la sconfitta nel referendum sulla Brexit e soprattutto nelle elezioni politiche del 2019, in cui i laburisti hanno preso appena il 32% dei voti. Questo ha portato alle dimissioni di Corbyn, sostituito dall’avvocato Keir Starmer.
3. Liberal Democratici
Diritti ed economia
Al terzo posto alle elezioni del 2019 si è piazzato, nel Regno Unito, il Partito dei Liberal Democratici, comunemente chiamati Lib Dem. Il partito è nato nel 1988 dalla fusione tra il Partito Liberale e il Partito Social Democratico, un gruppo di scissionisti usciti dal Labour.
A sua volta, il Partito Liberale aveva alle spalle una storia secolare. Fondato nel 1859, era l’erede nel Partito Whig, che aveva conteso il potere ai tories dalla fine del ‘600 fino appunto alla metà dell’800.
Dall’incontro di tutte queste diverse culture è nato un partito che oggi si colloca al centro. Nel suo programma, però, ci sono anche alcuni elementi che lo fanno propendere verso destra ed altri verso sinistra.
Dal punto di vista economico, ad esempio, i Lib Dem sono liberisti. Eredi di una tradizione che affonda le sue radici nel pensiero di Adam Smith, sono convinti che il mercato tenda ad autoregolarsi, una volta che l’economia cresce.
Dal punto di vista sociale, però, si piazzano a sinistra. Chiedono infatti una politica estera di pace, una maggior devoluzione federale e difendono i diritti degli omosessuali.
Il momento d’oro di Kennedy e Clegg
Da quando è stato fondato, il partito si è configurato come la terza forza del paese. Tra il 1992 e il 2001 si è infatti attestato attorno al 17% delle preferenze. Nel 2005, però, sotto la guida di Charles Kennedy fece registrare un exploit, raggiungendo il 22% dei voti.
Cinque anni dopo, quando la leadership era ormai passata al giovane Nick Clegg, il risultato fu confermato con un 23% alle politiche. Questo permise al partito di entrare in un governo di coalizione coi conservatori. Lo stesso Clegg fu nominato vice-premier.
Da lì, però, cominciarono i guai. L’alleanza coi tories portò i Lib Dem a votare anche per leggi che andavano contro le loro stesse promesse elettorali. Ad esempio, Clegg approvò l’aumento delle tasse universitarie, alienandosi così le simpatie degli studenti che l’avevano fino a quel momento sostenuto.
Alle elezioni successive, del 2015, il partito precipitò così al suo minimo storico, ottenendo infatti meno dell’8% dei consensi. Da quel momento è cominciata una girandola di leader, tutti tesi però a spostare di nuovo l’asse verso sinistra. Le elezioni del 2019 hanno premiato questa scelta, con una risalita all’11,6% dei consensi.
4. Partito Nazionale Scozzese
Il meccanismo del maggioritario
Come dicevamo in apertura, il sistema elettorale britannico, per noi, suona a volte abbastanza strano. Si tratta infatti di un maggioritario puro, il che vuol dire che, molto semplicemente, il candidato che ottiene il maggior numero di voti in un collegio elettorale finisce in Parlamento.
Detta così, non sembra niente di troppo strano; è l’esito in certi casi che, però, può sorprendere. Prendiamo il caso per Partito Nazionale Scozzese: su base complessiva, la sua percentuale di voti nel 2019 si è attestata al 3,9%, circa un terzo di quanto hanno preso i Liberal Democratici (11,6%).
Se però andiamo a vedere i seggi in Parlamento, ci accorgiamo che il Partito Nazionale Scozzese ne ha conseguiti ben 48, mentre i Liberaldemocratici solo 11, meno di un quarto. Questo perché il Lib Dem sono andato abbastanza bene un po’ dappertutto, conseguendo però spesso il terzo o il secondo posto in molti collegi (e quindi non ottenendo seggi lì).
Il Partito Nazionale Scozzese – che è invece fortemente regionalizzato – si è presentato in meno luoghi (ovvero: solo in Scozia), ma lì ha conquistato spesso il primo posto nei collegi elettorali.
L’ascesa di Nicola Sturgeon
Il partito è nato nel 1934 dalla fusione del Partito Nazionale di Scozia e del Partito Scozzese, ma per molto tempo ha rappresentato solo una piccola minoranza in Scozia, visto che la causa dell’indipendentismo non era ancora così forte. A parte un seggio al Parlamento nel 1945, quello successivo lo ottenne ad esempio solo nel 1967.
Il peso dello SNP però andò crescendo negli anni ’70, quando divenne il secondo partito in Scozia dopo quello Laburista e ottenendo nel 1974 addirittura 11 seggi a Londra. Negli anni ’90, poi, ottenne l’istituzione anche di un Parlamento scozzese, in cui però inizialmente era la seconda forza (dietro sempre ai Laburisti).
Nel 2007 avvenne il primo sorpasso, rafforzato nel 2011 dalla maggioranza assoluta ottenuta al Parlamento scozzese. Questi successi furono la conseguenza del tentativo di aprirsi a diversi strati sociali, di virare più decisamente verso posizioni di centro-sinistra e della leadership di Alex Salmond.
Salmond, però, incappò in una sconfitta quando, nel 2014, ottenne un referendum per l’indipendenza della Scozia, in cui vinse il no. Dimessosi (e poi uscito dal partito), lasciò spazio a Nicola Sturgeon, l’attuale leader, che ha portato il partito ai suoi massimi successi di sempre.
5. Partito Verde di Inghilterra e Galles
Una formazione in crescita
Concludiamo la nostra panoramica con un partito minore, che però negli ultimi anni ha visto crescere i propri consensi in Inghilterra.
Stiamo parlando del Partito Verde, fondato nel 1990 ma riuscito per la prima volta ad entrare in Parlamento nel 2010. Leader storica della formazione è stata Caroline Lucas, che dal 2015 ha poi diviso la segreteria col collega Jonathan Bartley. Oggi invece i leader sono Carla Denyer e Adrian Ramsay.
Alla base dell’ideologia del partito, che si ricollega a quella delle altre formazioni verdi europee, ci sono lo sviluppo di un’economia ecosostenibile, il federalismo e il localismo (oltre a un rafforzamento delle forme di democrazia diretta).
Inoltre si punta anche sul disarmo, sui diritti degli animali e sulla promozione di scelte alimentari sostenibili. Il partito si colloca, di conseguenza, a sinistra.
La scelta (cautamente) europeista
Per quanto riguarda la Brexit, i Verdi hanno applaudito alla possibilità del popolo di esprimersi tramite un referendum. L’invito ai simpatizzanti era di votare a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, anche se il partito ha spesso attaccato le politiche comunitarie.
L’idea era quella di rimanere senza entrare però nell’eurozona, favorendo nel contempo una grande riforma del ruolo e delle iniziative dell’UE. All’interno del partito, però, alcuni si sono espressi anche a favore del Leave.
Dal punto di vista elettorale, il partito è stato a lungo una piccola formazione, incapace di andare oltre l’1% dei voti. Nelle elezioni del 2015, però, parallelamente a un aumento degli iscritti e della presenza nel territorio, i Verdi hanno sfiorato il 4% dei voti.
Questo ha permesso loro di quadruplicare il risultato precedente. Per i soliti meccanismi della legge elettorale, ottennero però un solo rappresentante seduto alla Camera dei Comuni. Negli anni successivi, però, i consensi sono calati: nel 2017 hanno preso solo l’1,6% mentre nel 2019 sono risaliti al 2,7%.
Bonus. Partito per l’Indipendenza del Regno Unito
L’UKIP di Nigel Farage, ora scomparso
La situazione, in Gran Bretagna, può apparire grossomodo bloccata. Da un secolo a questa parte, la carica di Primo Ministro è contesa sempre e solo tra Partito Conservatore e Partito Laburista e nessun’altra formazione riesce a emergere veramente a livello nazionale.
C’è stata però, di recente, un’eccezione, tanto fugace quanto decisiva. Quella del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito. Una formazione che ha sconvolto gli equilibri interni alla Gran Bretagna.
La sua nascita è datata 1993, quando l’UKIP – questa la sigla in inglese – fu fondato da un gruppo di scissionisti del Partito Conservatore. Scopo primario del partito era quello di far uscire il Regno Unito dall’Unione Europea.
Per tutti gli anni ’90 e i primi anni ’00 la formazione non andò oltre l’1,5% alle politiche. Faceva quindi parte di quei gruppi minori che, per via del sistema uninominale britannico, non ottenevano seggi alla Camera dei Comuni.
Diverso però era l’andamento alle europee, dove il meccanismo è proporzionale e dove si polarizzava il malcontento verso l’UE. Nel 1999 l’UKIP ottenne infatti il 6,7% e nel 2004 superò addirittura il 16%.
La vittoria al referendum
La vera svolta nella storia del partito è però arrivata nel 2014. La crisi economica e l’inasprimento delle misure previste da Bruxelles fecero infatti decollare i consensi per il partito.
Alle elezioni europee del 2014 l’UKIP superò addirittura conservatori e laburisti con il 27,5% dei voti. E per la prima volta, l’anno dopo, sfondò anche alle politiche, aggiudicandosi il 12,6% delle preferenze (corrispondenti, per il meccanismo elettorale britannico, però a solo un parlamentare).
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Il resto è storia piuttosto nota. Nel 2016 l’UKIP – dopo essersi alleato in Europa coi 5 Stelle – è stato tra i principali promotori del referendum sull’uscita dalla UE. Nigel Farage, il leader storico, dopo quel successo ha deciso di ritirarsi dal ruolo di segretario.
Il suo posto è stato così assunto dall’europarlamentare Paul Nuttall, che ha portato avanti la classica linea del partito: di destra, populista e nazionalista. Nuttall si è dichiarato anche contrario all’aborto e a permettere l’uso del burqa, oltre che favorevole alla reintroduzione della pena di morte per alcuni reati.
L’uscita di Farage e la Brexit già raggiunta però hanno fortemente ridimensionato l’UKIP, che è entrato pesantemente in crisi e ha cambiato più volte leader. Oggi è praticamente scomparso, con percentuali di voto minime.
E voi, quale partito politico inglese preferite?