
La guerra rappresenta sempre un buon soggetto per un racconto: mette i personaggi davanti a situazioni critiche, crea rapporti interpersonali nuovi, favorisce drammi e tragedie. E, tra tutte le guerre, il secondo conflitto mondiale è particolarmente vicino e abbastanza movimentato da fornire buone storie e interessare il pubblico. È forse per questo che il cinema hollywoodiano ha sfruttato l’argomento fino allo sfinimento, a partire già dagli anni stessi della guerra (pensate a Casablanca, solo per fare un esempio).
Ma non è stato solo il cinema americano a toccare il tema. Visto che il conflitto ha lambito in maniera drammatica varie parti del mondo, anche altre cinematografie vi si sono gettate a capofitto. E a volte hanno ottenuto, pur con minor mezzi produttivi, dei risultati artistici memorabili. Abbiamo perciò fatto una ricognizione del miglior cinema di guerra non americano, partendo dalla nostra Italia e passando per la Russia, la Gran Bretagna, la stessa Germania. Ecco che cosa abbiamo trovato.
Indice
Roma città aperta
La nascita del neorealismo italiano
Due sono i film italiani che abbiamo inserito in cinquina, separati tra loro da una cinquantina d’anni ma legati dal tentativo di rappresentare i dolori e le sofferenze della popolazione durante la Seconda guerra mondiale. Il primo è Roma città aperta, capolavoro di Roberto Rossellini del 1945. Realizzato a partire da un soggetto di Sergio Amidei e da una sceneggiatura dello stesso Amidei, di Federico Fellini, di Celeste Negarville e di Rossellini, il film è il primo capitolo di una trilogia di guerra che sarebbe proseguita con Paisà e Germania anno zero.
Sotto l’occupazione nazista
La storia è ambientata nella Roma occupata dai nazisti, poco prima della liberazione angloamericana. Vi si intrecciano le disavventure di don Pietro (Aldo Fabrizi), un parroco che aiuta vari componenti della Resistenza, Pina (Anna Magnani), promessa sposa di un simpatizzante dei partigiani catturato dai tedeschi, e Giorgio Manfredi (Marcello Pagliero), militante comunista.
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Ispirato in larga misura a fatti realmente accaduti l’anno prima, il film aprì la stagione del neorealismo, anche per motivi pratici: gli studi di Cinecittà erano infatti inagibili e giocoforza bisognava girare per le strade, con mezzi spesso di fortuna. Il film, che non ebbe in realtà un immediato successo economico, vinse la Palma d’Oro a Cannes e fu accolto con grande entusiasmo pure negli Stati Uniti.
U-Boot 96
La guerra vista dai tedeschi
In fondo, per gli americani è facile parlare della Seconda guerra mondiale, visto che l’hanno vinta. E lo è, in un certo senso, anche per italiani, francesi, russi, visto che – magari in fasi diverse – ne sono stati vittime. Meno semplice è raccontare quel conflitto dal punto di vista dei tedeschi, perché nell’immaginario collettivo sono proprio i tedeschi i responsabili di quella immane tragedia. Fateci caso: anche il nostro cinema italiano ha per lungo tempo evitato di raccontare gli episodi più scomodi della nostra partecipazione a quella guerra, limitandosi non per nulla agli anni resistenziali, in una sorta di spirito autoassolutorio.
[wpzon keywords=”u-boot 96″ sindex=”DVD” sort=”relevancerank” listing=”3″ country=”it” descr=”0″ col=”3″]U-Boot 96, film diretto da Wolfgang Petersen nel 1981, è però la dimostrazione che fare un film dal punto di vista dei tedeschi, riuscendo comunque a mostrarne l’umanità, non era impossibile. Tratto dal romanzo di Lothar Günter Buchheim, che durante la Seconda guerra mondiale aveva effettivamente vissuto le esperienze narrate, racconta la vita dell’equipaggio all’interno di un sommergibile tedesco in azione nell’Oceano Atlantico. E lo fa con onestà, semplicità e fedeltà storica, mostrando esaltazione, paura, sconforto, pazzia.
Il successo di Wolfgang Petersen
Sceneggiato dallo stesso Petersen, fu il film che ne fece decollare la carriera. Apprezzato non solo in patria ma anche in tutto il resto del mondo (anche se oggi ingiustamente dimenticato), il film ottenne ben sei nomination agli Oscar, senza però vincerne neppure uno. In ogni caso il regista tedesco ottenne, grazie a questo successo, i finanziamenti per realizzare poco dopo il suo capolavoro fantasy La storia infinita e poi passare a lavorare per Hollywood.
Tra i suoi successi principali in America bisogna infatti ricordare Nel centro del mirino con Clint Eastwood, Virus letale con Dustin Hoffman e Air Force One con Harrison Ford. In anni più recenti sono poi arrivati La tempesta perfetta (di nuovo ambientato in mare) con George Clooney e Troy.
Va’ e vedi
Dentro agli orrori della guerra
Ci siamo lamentati del fatto che U-Boot 96 sia oggi spesso dimenticato e difficile da reperire, ma la situazione è ancora peggiore con Va’ e vedi, film sovietico del 1985. D’altronde, la pellicola – che pure alla sua uscita ebbe una certa risonanza, venendo presentata a Cannes – è ben lontana dalla spettacolarità a cui siamo abituati oggi.
Ambientato nella Bielorussia occupata dai nazisti, il film racconta una serie di vicende riconducibili a quelle della famigerata Brigata Dirlewanger. Tra il 1942 e il 1944 questo reparto, incaricato di combattere i partigiani locali, si macchiò di alcune tra le peggiori atrocità di quel conflitto, incendiando villaggi, compiendo stupri di massa e massacrando pare più di 100mila civili. Nel film, questa tragedia viene raccontata tramite gli occhi di Flёra, un ragazzino sopravvissuto ai rastrellamenti e desideroso di vendetta.
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Scritto da Ales’ Adamovič – che aveva combattuto tra i partigiani da ragazzo – assieme al regista Elem Klimov, il film trae il suo titolo da un passo dell’Apocalisse di San Giovanni. E proprio il clima apocalittico è quello che si respira in tutta la pellicola, che si conclude con una scena significativa in cui la rabbia del protagonista si scioglie in commiserazione. Pensato per celebrare i 40 anni dalla vittoria, fu un enorme successo in Russia ma ebbe un grande impatto anche in Occidente, soprattutto per la sua vivida rappresentazione della violenza.
La vita è bella
L’Olocausto raccontato da Roberto Benigni
Ritorniamo in Italia e spostiamoci dalla guerra verra e propria, coi suoi combattimenti e le sue atrocità, al dramma degli ebrei. Perché è innegabile che la Seconda guerra mondiale sia stata orribile sotto diversi punti di vista, ma con l’Olocausto ha senza dubbio toccato il suo punto più basso. Un punto che il cinema non poteva certo esimersi dal raccontare, sia con scopi morali che didattici. In Italia, questo filone ha trovato il suo capolavoro in La vita è bella di Roberto Benigni, uscito nel 1997.
La storia la conoscete sicuramente tutti, se non altro perché la pellicola è stata a lungo il film col maggior incasso nella storia del cinema italiano e quella con lo share più alto al primo passaggio televisivo. Il protagonista è Guido Orefice (lo stesso Benigni), un ebreo che nel 1939 si trasferisce ad Arezzo e, dopo un rocambolesco corteggiamento, riesce a conquistare il cuore di una maestrina (Nicoletta Braschi). I due si sposano e hanno un figlio (Giorgio Cantarini). Nel 1945, però, vengono deportati e il compito di Guido diventa quello non solo di salvare suo figlio, ma anche di non fargli comprendere la gravità della situazione, affinché non perda la speranza.
[wpzon keywords=”la vita è bella” sindex=”DVD” sort=”relevancerank” listing=”3″ country=”it” descr=”0″ col=”3″]La pellicola, come detto, è stata uno dei più grandi successi della storia del nostro cinema. Nonostante il soggetto decisamente rischioso e il fatto che Benigni (autore anche della sceneggiatura assieme a Vincenzo Cerami) provenisse dalla commedia pura, ha sfondato in tutto il mondo, incassando anche 57 milioni di dollari negli Stati Uniti. Ai premi Oscar del 1999 ottenne addirittura tre riconoscimenti: per il miglior attore, per la miglior colonna sonora e per il miglior film straniero. Altri premi arrivarono poi a Cannes, ai BAFTA, agli European Film Awards e in decine di altre manifestazioni.
Il pianista
I fatti di Varsavia
Sempre legato alla questione ebraica è anche Il pianista. Anzi, vi è legato ancora di più del film di Benigni, perché, mentre quest’ultimo non aveva vissuto gli orrori della guerra e non era ebreo, Roman Polanski, il regista de Il pianista, visse quei tragici eventi sulla propria pelle. Nato a Parigi da padre polacco e madre russa ma entrambi di origini ebraiche, crebbe a Cracovia, dove la famiglia si trasferì quando aveva tre anni.
Un Olocausto vissuto anche sulla propria pelle
Allo scoppio della guerra, con l’invasione tedesca della Polonia, Roman fu affidato – dietro una cospicua cifra – dai suoi genitori a una famiglia cattolica, cosa che gli permise di salvarsi dalla deportazione. La madre, invece, morì ad Auschwitz, mentre il padre, deportato a Mauthausen, riuscì a salvarsi. L’Olocausto è quindi una ferita aperta nella vita del regista franco-polacco, che però fino al 2002 non aveva mai affrontato il tema in un suo lungometraggio. Complice il successo di film come Schindler’s List e, appunto, La vita è bella, decise però di rompere finalmente gli indugi.
Il pianista non è però una storia autobiografica. Polanski, infatti, ha deciso di far adattare la vera storia di Władysław Szpilman, pianista ebreo che all’inizio della guerra lavorava per la radio. Estromesso dal lavoro e costretto a trasferirsi all’interno del ghetto di Varsavia, vide i suoi familiari partire verso quelli che ancora non sapeva essere i campi di sterminio, ma riuscì miracolosamente a salvarsi. L’ultimo grosso rischio lo corse quando venne sorpreso da un ufficiale tedesco che però, incantato dalla sua musica, decise di risparmiarlo e anzi aiutarlo.
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Il film ha conquistato tre premi Oscar: per la regia a Polanski (che non ha potuto ritirarlo, per la nota condanna per stupro che ancora pende su di lui in America), per il miglior attore ad Adrien Brody e per la miglior sceneggiatura a Ronald Harwood. I premi però sono stati numerosissimi in tutto il mondo, con il coronamento della Palma d’Oro a Cannes. Anche in Polonia – dove Polanski non girava dal 1962 – il film ha conquistato 8 premi nel principale concorso cinematografico nazionale.