Cinque indimenticabili personaggi de I promessi sposi

Alla scoperta di cinque memorabili personaggi de I promessi sposi di Alessandro Manzoni

Ecco i cinque personaggi de I promessi sposi che abbiamo scelto: vota il tuo preferito e poi leggi l'articolo per scoprire le loro storie.

 
I promessi sposi è uno di quei libri che, volenti o nolenti, hanno formato la nostra identità nazionale. Tutti gli studenti d’Italia l’hanno letto e, almeno in parte, l’hanno odiato. Tutti hanno sentito parlare dell’ignavia di don Abbondio, della cattiveria dei bravi, della conversione dell’Innominato e della sciagurata risposta della monaca di Monza. E tutti continuano a ricordare queste cose.

Certo, il romanzo di Alessandro Manzoni non è forse invecchiato benissimo in ogni sua parte, né ha il fascino che serve a conquistare dei ragazzi di 15 o 16 anni. Questo non vuol dire però che non possa in qualche modo parlare anche agli italiani di oggi.

Personaggi memorabili

Proprio i suoi personaggi, a mio modo di vedere, sono anzi uno degli elementi di maggior pregio dell’opera, sia per la capacità ritrattistica del Manzoni, sia per l’universalità di certi caratteri, che ancora si possono ritrovare nell’Italia di tutti i giorni, quasi fossero connaturati alla nostra idea di società e alla nostra cultura.

Lasciando da parte Renzo e Lucia, che sono forse quelli paradossalmente più datati, ripercorriamo insieme la storia di alcuni di questi personaggi, quelli più celebri e che hanno lasciato maggiormente il segno.

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Don Abbondio

Il curato pavido e malfidente

Don Abbondio, forse il più memorabile dei personaggi de I promessi sposiForse il personaggio meglio tratteggiato e più realistico di tutto il romanzo di Manzoni è quello che sostanzialmente lo apre, don Abbondio. Ovvero il prete che dovrebbe celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia ma non ha abbastanza coraggio per farlo. Celeberrima la descrizione che ne dà l’autore fin dalle prime pagine: «Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro».

In un mondo pieno di persone dure, che non si piegavano ma s’imponevano, Abbondio era un vaso di terracotta, cioè fragile, delicato, pronto a rompersi al primo scontro. Una natura che emergeva, subito, dall’incontro coi bravi di don Rodrigo, che lo attendevano a bordo strada e lo fermavano durante la sua passeggiata per intimargli di non celebrare il matrimonio. Le parole che usarono sarebbero diventate celebri: «Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai». Parole alle quali il curato reagiva con una paura debordante, annullando subito la cerimonia.

Il latino e la fuga, le risorse di Don Abbondio

A poco servivano, quindi, i tentativi di Renzo e di Lucia di andare avanti comunque con le nozze. Davanti alle insistenze del promesso sposo il curato sfoderava anzi la carta del latino, mentre quando i fidanzati tentavano di coinvolgerlo in una sorta di “matrimonio a sorpresa” lui, nonostante fosse piuttosto corpulento e avesse già superato i sessant’anni, riusciva rapidamente a darsela a gambe.

La sua non era solo paura, che sarebbe potuta essere anche comprensibile davanti alle minacce di un brigante al potere, ma proprio terrore puro. Quando l’Innominato si convertiva e gli veniva imposto di recarvisi, era praticamente sicuro che la conversione fosse una farsa e che oscure minacce pendessero su di lui. Quando don Rodrigo moriva e le nozze si potevano finalmente celebrare, dubitava perfino di quel decesso e si convinceva finalmente a fare il suo dovere solo quando la notizia diventava ufficiale.

Un personaggio che rappresenta i mali della Chiesa

Insomma, nel romanzo don Abbondio è l’emblema di tutto quello che un sacerdote secondo Manzoni non doveva essere, il simbolo dei mali della chiesa del tempo. La sua, d’altronde, non era una vocazione ma una carriera, peraltro umile, intrapresa per puro interesse. Ma non era solo questo. Don Abbondio contravveniva ai più elementari comandamenti, rappresentava la faccia oscura di quella medaglia che vedeva dall’altra parte la figura di fra Cristoforo, di cui torneremo a parlare.

Ultima curiosità. In apertura del capitolo VIII il curato pronunciava la celebre frase: «Carneade, chi era costui?». Ebbene, Carneade era un antico filosofo scettico, e non stupisce che Manzoni abbia messo in bocca al suo personaggio un riferimento del genere. Perché in un certo senso era scettico, anche se per motivi completamente diversi, pure don Abbondio.

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Perpetua

La governante pettegola che non sa mantenere i segreti

Perpetua, uno dei personaggi il cui nome ha influenzato addirittura l'italianoA volte un personaggio è così azzeccato da dare il nome all’intera categoria di appartenenza. È avvenuto, in tempi relativamente recenti, con il Paparazzo de La dolce vita di Fellini. Anche Manzoni, però, fu in grado di incidere profondamente sulla nostra lingua quando creò il personaggio di Perpetua, la donna di mezz’età che aiutava don Abbondio ed il cui nome è diventato sinonimo di tutte quelle persone che fanno da “donne di casa” dei preti. E che a volte non mancano di assomigliare, nel carattere, alla signora manzoniana.

Quello di Perpetua è infatti un personaggio ambiguo, con qualche luce e qualche ombra, che lo scrittore descrive spesso con il tono divertito di chi la sa lunga. Nata presumibilmente dalle parti di Lecco, ha una quarantina d’anni e non dev’essere una gran bellezza. Le comari del luogo, infatti, dicono che nessuno l’ha voluta, nonostante lei affermi di aver rifiutato due pretendenti. Un vanto che viene poi sfruttato da Agnese quando si tratterà di distrarla per permettere a Renzo e Lucia di tentare di mettere in piedi il “matrimonio a sorpresa” ai danni del curato.

Il vizio del pettegolezzo

Rispetto a don Abbondio, Perpetua ha maggior coscienza dei doveri di un sacerdote e prende a cuore il destino di Renzo e Lucia. Non è però comunque un personaggio completamente positivo, perché ha la tendenza piuttosto marcata a cadere nel pettegolezzo ed è incapace di mantenere qualsiasi segreto.

Quando don Abbondio le rivela di essere stato avvicinato dai bravi, ad esempio, lei promette di non rivelare la confidenza. Già nel capitolo successivo però si lascia sfuggire, con Renzo, che la causa del mancato matrimonio è da ricercarsi in «un prepotente». Tutto questo salvo poi giurare e spergiurare col curato di non aver spifferato nulla.


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Di lei Manzoni scrive che «sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie». È purtroppo una delle vittime dell’epidemia di peste che colpisce Milano. Epidemia che mette a dura prova anche don Abbondio nel fisico – Manzoni lo descrive come smagrito e indebolito – ma anche nel morale, visto che rimane senza la spalla che gli rendeva più sopportabile la vita.

 

Azzecca-garbugli

L’avvocato dei potenti

L'avvocato Azzecca-garbugliMolto simile, per carattere, a don Abbondio è anche Azzecca-garbugli, avvocato che fa la sua comparsa nel terzo capitolo del romanzo, quando riceve la visita di Renzo Tramaglino. Simile al curato, dicevamo, non tanto fisicamente – è più giovane, magro ed abbastanza alto, con una vistosa voglia di lampone sul viso, che ne rende evidente il vizio del bere – quanto psicologicamente. Anch’egli è infatti pavido e desideroso di non incrociare mai la sua spada con quella dei potenti.

Esercita a Lecco e Renzo si reca da lui per sapere se esiste una grida che possa fermare don Rodrigo. In un primo momento l’avvocato crede che Renzo sia un furfante che ha bisogno che qualcuno lo tragga d’impiccio, e si dimostra anzi ben disposto ad aiutarlo, usando la legge come strumento. Quando poi capisce come stanno realmente le cose e, soprattutto, sente pronunciare il nome di don Rodrigo, si guarda bene dal dare ancora confidenza a Renzo e anzi lo caccia in malo modo.

Un esperto della frode

Già il soprannome, d’altronde, è chiarificatore dell’indole del personaggio. Non un avvocato che ricerca la verità, né un fedele servitore della legge (nonostante nel suo studio vi sia un profluvio di libri negli scaffali e carte sui tavoli), ma in un certo senso un esperto della frode. Un uomo cioè capace di utilizzare le norme ad esclusivo vantaggio dei potenti, per dare legittimità alle loro angherie, e mai per proteggere i più deboli.

Il suo vero nome non viene mai rivelato ne I promessi sposi, anche se nelle precedenti redazioni del romanzo Manzoni aveva provato a dargliene uno. Veniva chiamato infatti Pettola o Duplica, nomi che erano comunque legati al suo carattere. Il soprannome definitivo è entrato anch’esso nell’immaginario collettivo, ad indicare, com’era nelle intenzioni dell’autore, la sua capacità di indovinare il nodo giusto per trarre la legge a proprio vantaggio. L’abilità quasi sofistica di citare il cavillo perfetto al momento giusto e trionfare in tribunale.

In realtà, al contrario di quanto comunemente si crede, questo nome non fu però un’invenzione manzoniana. La stessa espressione infatti si ritrova in uno scritto di inizio ‘500 di Niccolò Machiavelli, che probabilmente Manzoni aveva letto. È però solo dalla comparsata dell’avvocato ne I promessi sposi che la parola è diventata sinonimo di avvocato esperto ma ingaggiato solo per confondere le acque e rendere impossibile il trionfo della verità.

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Fra Cristoforo

L’assassino convertito in paladino degli oppressi

Fra Cristoforo, uno dei personaggi più positivi de I promessi sposiDopo tanti personaggi caratterizzati in maniera più o meno negativa presentiamone almeno uno che sia in un certo senso ammirevole. Ovvero fra Cristoforo, il modello che Manzoni aveva scelto – assieme al cardinal Borromeo – per una Chiesa veramente evangelica.

La vicenda del frate cappuccino è una delle più emblematiche delle idee di religiosità e giustizia che erano proprie del Manzoni. Nato come Lodovico da una agiata famiglia di Cremona – città non citata ne I promessi sposi ma menzionata nelle redazioni precedenti –, era figlio di un mercante che aveva preso a comportarsi come un nobile, pur non avendo i titoli per farlo. Per questo suo figlio finiva spesso per essere escluso ed emarginato da quella classe a cui ambiva di appartenere.

Il duello, la fuga, il rimorso

Questo risentimento, unito al fastidio istintivo verso le angherie che i nobili commettevano nei confronti dei meno abbienti, lo portarono un giorno a scontrarsi con il rampollo di una potente famiglia. Il duello, nato da cause pretestuose, portò alla morte dell’avversario e del servitore Cristoforo e alla conseguente fuga di Lodovico, che dovette cercare rifugio in un convento. Il rimorso per quanto fatto, unitamente al perdono del nobile morente, operarono in lui la conversione che lo portò ad assumere il nome del servitore morto e ad orientare la propria vita all’aiuto dei poveri.


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Nel libro fra Cristoforo interviene, di conseguenza, a favore di Renzo e Lucia. Da un lato si scaglia contro don Rodrigo – contro il quale lancia il famoso «Verrà un giorno…» –, dall’altro consiglia loro di lasciare Lecco.

Quando Platone entra ne I promessi sposi

Celebre il ritratto anche fisico che ne fa Manzoni, richiamandosi in parte anche al mito platonico della biga: «La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione».

«Due occhi incavati – proseguiva lo scrittore – eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso».

 

La monaca di Monza

La storia vera di Gertrude ed Egidio

La monaca di Monza, personaggio ispirato a una storia veraConcludiamo, dopo tante figure grottesche ed una eroica, con una figura tragica, quella della celebre monaca di Monza, al secolo Gertrude. Un nome inventato, visto che il personaggio manzoniano è ispirato in realtà a quello di suor Virginia Maria, ovvero Marianna de Leyva y Marino, vissuta a Milano e Monza tra la fine del ‘500 e la metà del ‘600.

La storia di quest’ultima, infatti, aveva prodotto un grande scandalo nella Lombardia del XVII secolo. L’eco ne era arrivata pure al Manzoni, che come suo solito si documentò ampiamente per ritrarla nel suo romanzo. Figlia di un nobile spagnolo e della discendente di una famiglia d’antico lignaggio italiana, la ragazza era stata fatta entrare forzatamente in convento da suo padre. Presto però era incappata nelle attenzioni di tal Gian Paolo Osio, personaggio di dubbia fama che viveva di fianco al convento.

Un rapporto morboso

Questi, secondo le cronache dell’epoca, l’aveva prima violentata e aveva poi intrapreso una relazione amorosa con lei e con altre due monache. Queste infatti condividevano la stanza e anche l’uomo con suor Virginia, in un rapporto che aveva del morboso. La monaca aveva avuto addirittura due figli dall’uomo prima che una conversa da poco entrata nel convento non scoprisse la tresca e minacciasse di denunciare tutti, facendo così precipitare la situazione.

Osio la uccise e poi cercò anche di eliminare le altre due monache che l’avevano aiutato, per non lasciare testimoni. Una delle due però riuscì a sopravvivere e lo denunciò, costringendolo a scappare, anche se sarebbe stato ucciso poco dopo a Milano. Suor Virginia – che comunque non aveva partecipato agli omicidi – subì invece un umiliante processo che la portò ad essere rinchiusa, “murata viva”, in un altro convento. Una condanna dalla quale sarebbe stata “amnistiata” da Federico Borromeo quattordici anni dopo.

I tagli tra una versione e l’altra

Manzoni ben conosceva tutta questa vicenda e decise di inserirla nel suo romanzo. Inizialmente le diede grande spazio, anche se poi, nelle successive revisioni, la limitò, dandole comunque uno spazio importante. Cambiò i nomi dei personaggi – Marianna/Virginia divenne Gertrude, mentre Gian Paolo Osio si trasformò in Egidio – e spostò più avanti di una ventina d’anni la cronologia dei fatti.

Ciononostante, i personaggi mantennero i loro caratteri, con la donna che, forzatamente indotta ad entrare in convento, rimaneva una vittima ma anche, almeno in parte, l’artefice delle proprie disgrazie. Soprattutto perché, come Manzoni sintetizza in una celebre frase, davanti ai richiami dell’uomo malvagio «la sciagurata rispose».

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