
Lungi da noi esaltare in maniera acritica la figura di papa Francesco che va così di moda in questi mesi, però bisogna ammettere che il pontefice argentino ha portato una carica di novità e affabilità che mancavano da tempo nella Chiesa cattolica. E forse non solo in essa, ma addirittura anche nel panorama politico-sociale italiano ed internazionale.
Nel giro di pochi mesi ha imposto uno stile nuovo, meno formale e più sentito, col quale tiene i suoi discorsi ma anche scrive ai giornali. Col quale si rivolge all’interno della chiesa ma pure telefona a uomini, donne e ragazzi sparsi per il paese.
Le aperture di Bergoglio
Per questo anche i giornali e le TV riferiscono con maggior attenzione i discorsi di Bergoglio, che spesso finiscono per fare notizia per aperture – per quanto tiepide – a persone o atteggiamenti che fino a pochi mesi fa sembravano più osteggiate.
E allora, rivediamo il Bergoglio-pensiero attraverso cinque omelie di papa Francesco scelte tra quelle tenute ogni mattina nella messa che celebra nella Domus Sanctae Marthae. Ovvero nell’edificio dove il pontefice ha deciso di stabilire la sua residenza, lasciando gli appartamenti papali alle sole visite dei capi di Stato e per la recita dell’Angelus.
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Indice
Chi si avvicina trovi porte aperte e non controllori
L’atteggiamento davanti a coppie e ragazze madri
Salito al soglio pontificio il 13 marzo del 2013, Jorge Mario Bergoglio ha dato subito segnali di uno stile nuovo, fin nel nome scelto per il ruolo di papa. Nel maggio di quello stesso anno, coerentemente, richiamava gli operatori della chiesa ad essere accoglienti e non controllori, con queste parole.
«Pensiamo ai cristiani buoni, con buona volontà; pensiamo al segretario della parrocchia, una segretaria della parrocchia… “Buonasera, buongiorno, noi due – fidanzato e fidanzata – vogliamo sposarci”. E invece di dire “Ma che bello!”, dicono: “Ah, benissimo, accomodatevi. Se voi volete la Messa, costa tanto…”. Questi, invece di ricevere una accoglienza buona – “È cosa buona sposarsi!” – ricevono questo: “Avete il certificato di Battesimo, tutto a posto…”. E trovano una porta chiusa».
Controlliamo ma non facilitiamo
«Siamo tante volte controllori della fede – continuava poi –, invece di diventare facilitatori della fede della gente. […] Pensate a una ragazza madre, che va in chiesa, in parrocchia e al segretario: “Voglio battezzare il bambino”. E poi questo cristiano, questa cristiana le dice: “No, tu non puoi perché non sei sposata!”. Ma guardi che questa ragazza che ha avuto il coraggio di portare avanti la sua gravidanza e non rinviare suo figlio al mittente, cosa trova? Una porta chiusa!»
«Questo non è un buon zelo! – concludeva – Allontana dal Signore! Non apre le porte! E così quando noi siamo su questa strada, in questo atteggiamento, noi non facciamo bene alle persone, alla gente, al Popolo di Dio. Ma Gesù ha istituito sette Sacramenti e noi con questo atteggiamento istituiamo l’ottavo: il sacramento della dogana pastorale! Gesù si indigna quando vede queste cose perché chi soffre è il suo popolo fedele, la gente che Lui ama tanto».
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Una chiesa ricca è una chiesa che invecchia
La differenza con le ONG
Il pontificato di papa Benedetto XVI è stato contraddistinto, soprattutto nei mesi finali, da una serie di polemiche e problematiche legate allo IOR, la cosiddetta Banca Vaticana. Una delle principali premure di Francesco è stata di conseguenza quella di chiarire che la chiesa non deve badare alle ricchezze.
«La predicazione evangelica nasce dalla gratuità, dallo stupore della salvezza che viene, e quello che io ho ricevuto gratuitamente devo darlo gratuitamente. E dall’inizio erano così, questi. San Pietro non aveva un conto in banca, e quando ha dovuto pagare le tasse il Signore lo ha mandato al mare a pescare un pesce e trovare la moneta dentro al pesce, per pagare».
Annunciare, non fare proseliti
«Filippo, quando ha trovato il ministro dell’economia della regina Candace, non ha pensato: “Ah, bene, facciamo un’organizzazione per sostenere il Vangelo…”. No! Non ha fatto un “negozio” con lui: ha annunziato, ha battezzato e se n’è andato. […] Il Signore ci ha invitato ad annunciare, non a fare proseliti».
«E quali sono i segni di quando un apostolo vive questa gratuità? Ce ne sono tanti, ma ne sottolineo due soltanto: primo, la povertà. L’annunzio del Vangelo deve andare per la strada della povertà. La testimonianza di questa povertà: non ho ricchezze, la mia ricchezza è soltanto il dono che ho ricevuto, Dio. Questa gratuità, questa è la nostra ricchezza! E questa povertà ci salva dal diventare organizzatori, imprenditori…»
«Si devono portare avanti le opere della Chiesa, e alcune sono un po’ complesse; ma con cuore di povertà, non con cuore di investimento o di un imprenditore, no? La Chiesa non è una ONG: è un’altra cosa, più importante, e nasce da questa gratuità. Ricevuta e annunziata. […] L’altro segno è la capacità di lode: quando un apostolo non vive questa gratuità, perde la capacità di lodare il Signore. […] E quando troviamo apostoli che vogliono fare una Chiesa ricca e una Chiesa senza la gratuità della lode, la Chiesa invecchia, la Chiesa diventa una ONG, la Chiesa non ha vita».
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La sindrome di Giona
Il fariseo e il pubblicano
Di nuovo l’apertura verso l’altro è il tema della terza omelia che abbiamo scelto, datata ottobre 2013. E il parallelo che Francesco mette in campo è quello col profeta Giona, che aveva fatto di tutto per non obbedire alla chiamata di Dio.
«La settimana scorsa la liturgia ci ha fatto riflettere su Giona. E ora Gesù promette il segno di Giona. Giona non voleva andare a Ninive e fuggì in Spagna. “La dottrina è questa, si deve credere questo. Se loro sono peccatori, si arrangino; io non c’entro!”. Questa è la sindrome di Giona. Gesù la condanna».
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«Per esempio, nel capitolo ventitreesimo di san Matteo quelli che credono in questa sindrome vengono chiamati ipocriti. Non vogliono la salvezza di quella povera gente. Dio dice a Giona: “Povera gente, non distinguono la destra dalla sinistra, sono ignoranti, peccatori”».
«Ma Giona continua ad insistere: “Loro vogliono giustizia! Io osservo tutti i comandamenti; loro si arrangino”. [La sindrome di Giona] colpisce quelli che non hanno lo zelo per la conversione della gente, cercano una santità – mi permetto la parola – una santità di tintoria, cioè tutta bella, tutta ben fatta ma senza lo zelo che ci porta a predicare il Signore».
Contro l’ipocrisia
«Davanti a questa generazione, malata della sindrome di Giona, [Gesù] promette il segno di Giona. Nell’altra versione, quella di Matteo, si dice: ma Giona è stato nella balena tre notti e giorni… Il riferimento è a Gesù nel sepolcro, alla sua morte e alla sua risurrezione. E questo è il segno che Gesù promette: contro l’ipocrisia, contro questo atteggiamento di religiosità perfetta, contro questo atteggiamento di un gruppo di farisei».
«[C’è un’altra parabola] che rappresenta bene quello che Gesù vuole dire. È la parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio. Il fariseo è talmente sicuro davanti all’altare che dice: “Ti ringrazio Dio che non sono come tutti questi di Ninive e neppure come quello che è là!”. E quello che era là era il pubblicano, che diceva soltanto: “Signore, abbi pietà di me che sono peccatore”».
«Il segno che Gesù promette è il suo perdono tramite la sua morte e la sua risurrezione. Il segno che Gesù promette è la sua misericordia, quella che già chiedeva Dio da tempo: “Misericordia voglio e non sacrifici”. […] La sindrome di Giona ci porta all’ipocrisia, a quella sufficienza che crediamo di raggiungere perché siamo cristiani puliti, perfetti, perché compiamo queste opere, osserviamo i comandamenti, tutto».
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Anche Dio piange
Gli esempi di Davide e Giairo
Sembra un titolo da scadente telenovela sudamericana, ma “anche Dio piange” è una frase che Francesco ha usato spesso in questa recente omelia. Dio piange perché è come Davide che piange il figlio Assalonne e come Giairo che si dispera per la figlia morta.
«Per loro [Davide e Giairo] ciò che è più importante è il figlio, la figlia! Non c’è un’altra cosa. L’unica cosa importante! Ci fa pensare alla prima cosa che noi diciamo a Dio, nel Credo: “Credo in Dio Padre…”. Ci fa pensare alla paternità di Dio. Ma Dio è così. Dio è così con noi! “Ma, Padre, Dio non piange!”. Ma come no!».
Nei momenti difficili
«Ricordiamo Gesù, quando ha pianto guardando Gerusalemme. “Gerusalemme, Gerusalemme! Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali”. Dio piange! Gesù ha pianto per noi! E quel pianto di Gesù è proprio la figura del pianto del Padre, che ci vuole tutti con sé. Nei momenti difficili il Padre risponde».
«Ricordiamo Isacco, quando va con Abramo a fare il sacrificio: Isacco non era sciocco, se ne era accorto che portavano il legno, il fuoco, ma non la pecorella per il sacrificio. Aveva angoscia nel cuore! E cosa dice? “Padre!”. E subito: “Eccomi figlio!”. Il Padre rispose».
«Quello è il nostro Dio! La nostra paternità deve essere come questa. Il Padre ha come un’unzione che viene dal figlio: non può capire se stesso senza il figlio! E per questo ha bisogno del figlio: lo aspetta, lo ama, lo cerca, lo perdona, lo vuole vicino a sé, tanto vicino come la gallina vuole i suoi pulcini. Andiamo oggi a casa con queste due icone: Davide che piange e l’altro, capo della Sinagoga, che si getta davanti a Gesù, senza paura di diventare una vergogna e far ridere gli altri. In gioco erano i loro figli: il figlio e la figlia».
Quando fallisce un amore
L’apertura ai divorziati
L’ultima omelia è materia quasi d’attualità, visto che è stata interpretata come un’apertura – non la prima per la verità – verso i divorziati, finendo citata su vari giornali e mezzi d’informazione.
«Il Vangelo di Marco racconta che i farisei, proprio per metterlo alla prova, pongono a Gesù questo problema sul divorzio. […] Gesù risponde anzitutto chiedendo loro cosa dice la legge e spiegando perché Mosè ha fatto quella legge così. Poi dalla casistica va al centro del problema, qui va proprio ai giorni della creazione».
Dobbiamo sentire il dolore
«Questa è la storia dell’amore. Questa è la storia del capolavoro della creazione. E davanti a questo percorso di amore, a questa icona, la casistica cade e diventa dolore. Quando lasciare il padre e la madre per unirsi a una donna, farsi una sola carne e andare avanti, quando questo amore fallisce – perché tante volte fallisce – dobbiamo sentire il dolore del fallimento. Dobbiamo accompagnare quelle persone che hanno avuto questo fallimento nel loro amore. Non condannare ma camminare con loro. E soprattutto non fare casistica con la loro situazione».
«Quanto bello è l’amore, quanto bello è il matrimonio, quanto bella è la famiglia, quanto bello è questo cammino. Ma anche quanto amore, e quanta vicinanza, anche noi dobbiamo avere per i fratelli e le sorelle che nella loro vita hanno avuto la disgrazia di un fallimento nell’amore».