Cinque memorabili aforismi di Friedrich Nietzsche

Friedrich Nietzsche

In genere, la filosofia è una disciplina piuttosto ostica per gli studenti: non tanto per i contenuti, che bene o male vengono assimilati con un po’ di studio, quanto per la comprensione intima dei ragionamenti e degli ideali dei vari pensatori che vengono affrontati; c’è, insomma, la tendenza a volte a memorizzare più che comprendere, complice anche un insegnamento forse un po’ vetusto e metodologicamente arretrato.

Uno dei casi più emblematici di questa tendenza è rappresentato forse dalla figura di Friedrich Nietzsche, celeberrimo autore della seconda metà dell’Ottocento da tutti studiato ma non da tutti compreso, se non superficialmente; cosa che avrebbe disgustato lo stesso Nietzsche, ben poco interessato ad uno studio dovuto al puro senso del dovere e sempre invece ambizioso di farsi capire, di farsi comprendere.

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Ne è prova anche il suo stile, ben poco sistematico e votato invece più all’aforisma, alla metafora, quasi all’annuncio oracolare; uno stile da cui è sempre stato facile trarre delle frasi ad effetto da scrivere sul diario o su Facebook, ma che a volte ha fatto sì che queste frasi non venissero capite per la loro reale portata. È facile, insomma, urlare “Dio è morto”; meno semplice è capire cosa Nietzsche volesse dire. Per dipanare un po’ la matassa e cogliere al balzo l’occasione per presentare, in maniera veloce ma speriamo non affrettata, il pensiero dell’uomo che si definiva una «dinamite», vi presentiamo quindi oggi cinque memorabili aforismi di Friedrich Nietzsche, con tanto di spiegazione.

 

Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!

da La gaia scienza, 1882

Le cinque frasi prescelte abbiamo deciso di presentarvele in ordine cronologico, sulla base della loro prima edizione a stampa; ciononostante, quella che apre l’elenco è probabilmente anche la più importante e celebre, quella che in un certo senso può riassumere tutto il pensiero di Nietzsche: «Dio è morto». Pronunciata, nella pagina più famosa de La gaia scienza, da un folle che si reca al mercato per cercare di aprire gli occhi alla gente, la frase ha un significato profondo che va ben oltre quello letterale.

Dio, per Nietzsche, non è infatti solo il Divino Creatore, ma è un simbolo che racchiude tutte le “credenze metafisiche”, cioè tutte le fedi in senso ampio; la fede religiosa, certo, che per Nietzsche è e rimane il male peggiore, con la sua menzogna riguardo l’aldilà, ma anche la fede politica, la fede in una morale che trascenda gli esseri umani, la fede nello Stato, in un sistema filosofico, diremmo oggi anche in una squadra di calcio.

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Ogni fede è morta, perché siamo stati noi ad ucciderle tutte: ci siamo resi insomma conto di quanto tutto questo sia pia illusione, di quanto la nostra vita sia destinata a non trovare alcuna spiegazione al di fuori di essa, di quanto sia priva di senso, o almeno di un senso dato dall’esterno, da una autorità che sta sopra di noi. Dio è morto e, con buona pace di Guccini, resta morto, non risorgerà più. L’uomo potrà solo, al massimo, cercare di andare oltre a tutto questo.

 

In passato foste scimmie, ma ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia

da Così parlò Zarathustra, 1883-1885

Tra il 1883 e il 1885 Friedrich Nietzsche dà alle stampe quello che è indubbiamente il suo capolavoro e il suo libro più complesso, il Così parlò Zarathustra in cui si profetizza l’avvento di un oltreuomo in grado di superare le mancanze dell’uomo tradizionale.

Nel Prologo, in particolare, delinea il progetto che ha in mente con alcune delle sue frasi più riuscite, sia per la forza delle parole che per i concetti che esse sottendono, e per tale ragione da lì, dallo spazio di poche righe, abbiamo voluto trarre due elementi della nostra cinquina. Il primo è questo: in passato foste scimmie, ma ancora oggi siamo più scimmie di qualsiasi altra scimmia; si sente, qui, l’eco dell’evoluzionismo darwiniano, che da poco aveva conquistato gli intellettuali europei, ma virato in un’ottica non così banalmente ottimista come avveniva, in quegli stessi anni, ad esempio col Positivismo, ma in una chiave nuova.

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L’uomo era scimmia, diamolo per assodato; ma non è solo la sua evoluzione biologica, sembra dirci Nietzsche, ad averne fatto una scimmia; è, piuttosto, il suo atteggiamento, il suo vivere ancora succube degli imbrogli delle fedi, il suo non voler crescere e non voler affrontare la vita per quello che è, al di là delle illusioni, al di là delle bugie, al di là del bene e del male. L’uomo è insomma scimmia, non solo perché da essa deriva, ma perché ha scelto di essere scimmia, e lo è ancora di più degli animali, che da ciò che sono hanno sempre ottenuto il massimo, mentre l’uomo continua imperterrito a limitarsi e sottomettersi.

 

Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante

da Così parlò Zarathustra, 1883-1885

La vita di Nietzsche, o meglio il suo esito finale, è bene o male noto: il 3 gennaio 1889, a Torino, ebbe un crollo psichico, abbracciando un cavallo maltrattato dal suo cocchiere in piazza Carignano, baciandolo e gettandosi a terra come in preda a spasmi. Poco dopo fu ricoverato in clinica, rimanendo sostanzialmente internato (lì o a casa, accudito dalla sorella) fino alla morte, nel 1900.

Molte ipotesi sono state fatte riguardo alla malattia che lo colpì: quelle più attendibili dal punto di vista medico – anche se ovviamente basate su congetture – riguardano la presenza di un tumore benigno che già probabilmente aveva colpito il padre, o un aggravarsi del disturbo bipolare di cui aveva sofferto in gioventù; più suggestiva, anche se ovviamente meno attendibile dal punto di vista scientifico, è però l’ipotesi che vuole il suo collasso mentale dovuto agli immani sforzi filosofici compiuti negli anni precedenti, quando era arrivato a demolire più o meno tutte le credenze consolidate della cultura occidentale.

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Questa ipotesi, d’altro canto, era stata più volte avallata dallo stesso Nietzsche, che in vari aforismi aveva mostrato il suo “caos interiore”: in Al di là del bene e del male nel 1886 aveva scritto «Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te», ma già prima, ancora una volta nel Prologo dello Zarathustra, aveva scritto la frase che riportiamo sopra. Che sia stata la pazzia – presente o in divenire che fosse – a fargli dire ciò che disse, a spingerlo oltre ai consueti confini del pensiero, non è dato saperlo; di sicuro lui stesso sembrava ammetterlo.

 

Senza musica la vita sarebbe un errore

da Crepuscolo degli idoli, 1889

L’amore di Nietzsche per la musica non è un mistero. Appresa in famiglia, soprattutto dal nonno e dal padre, la studiò anche per qualche tempo, sognando di potervisi dedicare a vita; ne scrisse poi a lungo, sia in testi di carattere filosofico che filologico, lavorando pure come critico musicale, ma fu soprattutto l’incontro con Richard Wagner a cambiargli la vita.

Conosciuto nel 1868, ne divenne un entusiastico ammiratore, cercando addirittura di comporre a sua volta dei pezzi per pianoforte e inviandoli ai coniugi Wagner in cerca di approvazione, approvazione che però fu sempre molto tiepida. Anche il rapporto con Wagner avrebbe finito per consumarsi nel giro di qualche anno: li divisero alcune incomprensioni personali ma soprattutto due idee estetiche che, appena lette più in profondità, rivelavano differenze insanabili; per Wagner, infatti, la musica era pur sempre un mezzo per giungere al dramma, mentre per Nietzsche essa aveva un valore in sé che superava qualsiasi poesia e testo, era puro spirito dionisiaco, cioè un modo per arrivare alla radice irrazionale e caotica della realtà.

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Nel Crepuscolo degli idoli, scritto a Torino negli ultimi mesi prima dell’avvento della pazzia, si consuma infine fin dal titolo dell’opera (Wagner aveva infatti composto il Crepuscolo degli dei) questa separazione definitiva, che però non intacca l’amore incondizionato per la musica.

 

C’è chi è nato postumo

da L’Anticristo, 1895

Concludiamo la nostra cinquina con una nota di tristezza. Anche L’Anticristo fu scritto negli ultimissimi mesi di lucidità di Nietzsche, a Torino, e rappresenta forse il suo testo più ardito, o quantomeno il più esplicito nella polemica anticristiana, tant’è vero che non fu pubblicato prima del 1895 per la paura dell’editore di incorrere nella censura. Nell’introduzione al testo, prima di scagliarsi con una grande veemenza polemica contro la religione, Nietzsche mette le mani avanti: dice che il testo è stato scritto “per pochissimi”, cioè per quelli che sono in grado di comprenderlo, e ammette che il suo messaggio è destinato a rimanere inascoltato per molto tempo. Di qui, la celebre frase: «C’è chi è nato postumo».

E, d’altronde, mai Nietzsche ebbe più ragione che allora: il grande successo il filosofo cominciò ad incontrarlo solo negli anni ’90 dell’Ottocento, quando ormai era troppo malato per accorgersene o per partecipare al dibattito sorto attorno al suo pensiero. Lui, come molti dei più grandi che hanno saputo anticipare i tempi, per usare le sue stesse parole “veniva troppo presto”.

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