Cinque memorabili canzoni su New York

Un taxi giallo a New York

Spesso la musica moderna ha celebrato delle città, descrivendone le caratteristiche migliori o gli aspetti più controversi e, di conseguenza, consolidandone il mito; ma poche metropoli contemporanee possono vantare un numero di brani ad esse dedicati che sia paragonabile a quello di New York.

La Grande Mela è infatti stata protagonista, direttamente o indirettamente, di centinaia di canzoni, cosa che ha reso particolarmente complicata anche la stesura di questo articolo.

Solo per citare alcuni esclusi eccellenti, non possiamo non ricordare classici del jazz come quelli di Duke Ellington o George Gershwin (la cui Rhapsody in Blue fu usata, non a caso, da Woody Allen nella celebre introduzione di Manhattan), la Living for the City di Stevie Wonder.

E poi alcuni brani di Leonard Cohen come Chelsea Hotel no.2 o First We Take Manhattan e alcuni altri di Bruce Springsteen (Does This Bus Stop at 82nd Street?, New York City Serenade e la post-11 settembre The Rising), oltre ad altre canzoni dei Rolling Stones, dei Pogues, di Ryan Adams, di Billy Joel e di Simon & Garfunkel.

Noi, giocoforza, abbiamo dovuto sceglierne solo cinque, cercando di dare una panoramica il più possibile esaustiva. Ecco dunque le canzoni della lista, alcune arcinote ed assurte ormai a inni (ufficiosi e in un caso addirittura ufficiali) della città e altre che speriamo di farvi scoprire.

 

1. Billie Holiday – Autumn in New York

Il crepuscolo di una grande cantante

New York è una città che divide: le sue luci – come recita una canzone degli U2 – sono accecanti e le speranze che riesce a suscitare nei suoi abitanti molte volte vengono deluse.

Emblema di questa città che premia e che stronca continuamente è stata, forse, Billie Holiday, una delle cantanti più dotate della storia del blues e del jazz ma allo stesso tempo una star dalla vita incredibilmente infelice.

Billie Holiday nel 1947
Nata forse a Filadelfia e forse a Baltimora da una tredicenne non sposata, abbandonata dal padre e violentata ad appena 10 anni, Eleanora Fagan – questo probabilmente il suo vero nome – arrivò nella Grande Mela da bambina, stabilendosi ad Harlem e guadagnandosi da vivere come donna delle pulizie e prostituta.

La sua voce fu solo una parziale via di salvezza, perché la fece sì uscire dai bordelli ma non ne curò il malessere, che la spinse rapidamente a dipendere da alcool e stupefacenti, fino alla prematura morte avvenuta a 44 anni.

Per un musical

Una delle canzoni più celebri ad essere interpretata dalla Holiday (ma anche da Louis Armstrong, Charlie Parker, Ella Fitzgerald ed altri ancora) è stata Autumn in New York, uno standard jazz composto da Vernon Duke nel 1934 come brano contenuto nel musical di Broadway Thumbs Up!.

Mentre il musical è finito presto nel dimenticatoio, il brano jazz ha avuto una sorte notevolmente diversa, venendo reinterpretato centinaia di volte.

La versione della Holiday è del 1952, incisa pochi anni prima della sua scomparsa. Tra l’altro, il tono crepuscolare del brano è rimasto talmente impresso nella cultura americana che nel 2000 è stato girato un film dallo stesso titolo con Richard Gere e Winona Ryder, film che voleva raccontare una struggente storia d’amore ma che è stato accolto da critiche molto negative.

 

2. Lou Reed – Walk on the Wild Side

Nelle strade di New York con transessuali, drogati e artisti

Cambiamo registro – ma solo fino a un certo punto – con Lou Reed, un artista che col jazz aveva poco a che spartire (anche se sui dischi del free jazz si era formato) ma che ha saputo rappresentare quella stessa doppia faccia della metropoli nordamericana che già Billie Holiday aveva colto nella sua esistenza.

Nato a Brooklyn e cresciuto a Long Island, Reed ha legato tutta la sua esistenza alla città di New York, cantandone la scena artistica underground e le evoluzioni nell’arco di almeno quarant’anni.


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Giovanissimo, fondò i Velvet Undeground assieme al gallese John Cale ed entrò nel giro della factory di Andy Warhol, artista che decise di prendere i ragazzi sotto la sua ala protettrice e di lanciare il loro disco d’esordio, disegnandone la copertina e promuovendolo in giro per gli Stati Uniti.

Già in quei primi dischi – dallo scarso successo commerciale ma dalla grande influenza sul rock successivo – Reed e Cale concentravano la loro attenzione sui derelitti e gli esclusi che affollavano le strade di Manhattan.

Da Transformer

Fu però soprattutto con la carriera solista, avviata nel 1970, che Lou Reed scese ancora di più agli inferi, metaforicamente parlando.

Lou Reed nel 1977

Il suo capolavoro fu probabilmente Transformer, album del 1972 che si avvaleva della produzione di David Bowie e conteneva brani divenuti celeberrimi come Vicious, Perfect Day e Satellite of Love, ma soprattutto Walk on the Wild Side.

Questa canzone, una delle più emblematiche del repertorio reediano, parla senza peli sulla lingua di tutti i tabù dell’epoca, che pure sulle strade di New York – o quantomeno del Village e di certe altre zone – trovavano spazio per proliferare.

 
Ecco quindi la droga, i transessuali, la prostituzione anche maschile, il sesso orale e in generale tutto l’entourage non certo convenzionale che bazzicava attorno alla factory di Warhol.

 

3. Frank Sinatra – Theme from “New York, New York”

L’inno ufficiale della Grande Mela

In apertura, parlavamo di canzoni che sono diventate quasi un inno per la città di New York. Il tema da New York, New York cantato da Frank Sinatra, però, non è più solo inno informale, visto che nel 1985, durante il lungo mandato di Ed Koch come sindaco della città, divenne anche ufficialmente la canzone-simbolo della Grande Mela.

Contrariamente a quanto si pensa, però, il brano non era un classico né del repertorio di Sinatra, né degli anni ’50, anche se ne aveva tutta l’aria.


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La canzone fu infatti scritta da Fred Ebb per il testo e John Kander per la musica in occasione del film omonimo del 1977 diretto da Martin Scorsese con Robert De Niro e Liza Minnelli, e fu registrata per la prima volta da Sinatra per il suo album Trilogy: Past, Present, Future del 1980. Il successo della versione del crooner italoamericano fu però rapidissimo.

I legami tra Sinatra e la Grande Mela

D’altronde, lo stesso Sinatra ha contribuito a farne uno standard, riproponendolo in ogni suo concerto fino alla morte (avvenuta nel 1998) e spesso eseguendolo in duetto con altri grandi interpreti come la stessa Minnelli o Tony Bennett.

Frank Sinatra nel 1947

Un legame che non era del tutto immotivato, visto che il cantante italoamericano era nato nel 1915 a Hoboken, cittadina del New Jersey che è ormai da tempo inglobata nell’area metropolitana di New York.

A New York poi Sinatra si era trasferito giovanissimo, ad appena 15 anni, cercando di imporsi come cantante, anche se era finito per tornare ad Hoboken con la coda tra le gambe dopo poche settimane.

 
Nella Grande Mela sarebbe ritornato dopo i vent’anni e soprattutto a partire dagli anni ’40, quando i suoi concerti al Madison Square Garden, al Waldorf Astoria e nei più prestigiosi locali della città ne fecero rapidamente un mito.

 

4. LCD Soundsystem – New York, I Love You but You’re Bringing Me Down

Il brano d’addio della band di James Murphy

I grandi del jazz e dello swing come Billie Holiday e Frank Sinatra, ma anche una personalità che ne raccoglieva l’eredità come Lou Reed, hanno rappresentato l’anima di New York almeno fino agli anni ’80; poi qualcosa è cambiato.

Da Brooklyn sono arrivate sonorità rap che ben poco avevano a che spartire, sia a livello di testi che di musicalità, col jazz, mentre a Manhattan hanno trovato spazio gruppi indie e alternative votati più al sottovoce che al chiasso, all’indecisione che al vigore, all’estetica da perdenti che al fascino dei crooner.

Gli LCD Soundsystem nel 2011 (foto di Loretín via Flickr)
Gli LCD Soundsystem nel 2011 (foto di Loretín via Flickr)

Così, avremmo potuto inserire in questa nostra lista la No Sleep Till Brooklyn che nel 1986 fu lanciata da degli scatenati Beastie Boys, a rappresentare l’anima scanzonata e aggressiva di quegli anni.

Alla fine però abbiamo optato per New York, I Love You but You’re Bringing Me Down, una canzone che ci sembra rappresenti meglio la realtà della Grande Mela post-11 settembre, una città ancora maestosa ma allo stesso modo cupa e malinconica.

Da Sound of Silver

Autori di quel brano sono gli LCD Soundsystem di James Murphy, gruppo proprio di New York che ha avuto un’esistenza piuttosto breve (il primo disco è del 2005, lo scioglimento del 2011) ma che ha lasciato il segno sulla scena indie rock, soprattutto per la capacità di mescolare generi diversi come la dance, l’alternative, il synth pop e il punk.

Il brano – che chiudeva il secondo disco, Sound of Silver, del 2007 – è uno dei più acclamati e intimisti della carriera del gruppo, e ben descrive il complicato rapporto che New York sa generare nei suoi abitanti.

Un brano così emblematico che non a caso la band, nella sua esibizione pubblica di addio prima dello scioglimento, al Madison Square Garden proprio di New York, decise di utilizzarlo come pezzo di chiusura.

 

5. Jay-Z e Alicia Keys – Empire State of Mind

La canzone della New York più moderna e attuale

Concludiamo con un pezzo molto recente, uscito nel 2009 e baciato da grande fortuna: Empire State of Mind di Jay-Z e Alicia Keys, terzo singolo estratto dall’album The Blueprint 3 del rapper americano.

Un brano che è arrivato in vetta sia alle classifiche americane, sia a quelle di mezzo mondo, cementando ulteriormente – come se ce ne fosse bisogno – il mito di New York.


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Anche il video musicale, girato in un suggestivo bianco e nero in varie location della città, aveva proprio lo scopo di esaltare non solo le vie della metropoli, ma – come il titolo suggerisce, giocando sul motto dello stato di New York che è appunto “Empire State” – lo stato mentale dei newyorkesi, abituati a vivere in una città dalle mille contraddizioni ma che, proprio per questo, non si può non amare.

La genesi della canzone

Nonostante sia Jay-Z che Alicia Keys siano nativi della Grande Mela, la canzone ha avuto tra l’altro una genesi molto particolare che ha visto i due artisti mettervi mano solo in corso d’opera.

Una delle copertine di Empire State of Mind di Jay-Z e Alicia Keys

Il primo nucleo del brano, infatti, è stato scritto da due artiste di Brooklyn, Angela Hunte e Jane’t Sewell-Ulepi, a loro volta cantautrici dal successo ben più modesto di quello di Jay-Z; le due, infatti, durante una vacanza a Londra avevano sentito una nostalgia così forte per la loro città che avevano buttato giù in velocità una canzone.

 
Tornate a casa, le cantanti ne registrarono quindi un demo che fu poi inviato all’etichetta di Jay-Z, ricevendo però una recensione negativa. Passò qualche mese prima che il brano venisse riscoperto e ripreso proprio dal rapper, che decise però di mantenere solo il ritornello – la parte che sarebbe poi stata cantata da Alicia Keys – e di cambiare tutte le strofe.

Alla Hunte e alla Sewell-Ulepi fu offerta l’opportunità di cantare la parte centrale del pezzo, ma loro stesse proposero invece il nome della Keys, che poi qualche tempo dopo avrebbe anche inciso una sorta di sequel, Empire State of Mind, Pt. II (Broken Down).

 

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