Cinque memorabili frasi di Shakespeare

William Shakespeare al suo tavolo di lavoro, mentre cerca l'ispirazione per una delle sue memorabili frasi

Ecco le cinque frasi di William Shakespeare che abbiamo scelto: vota la tua preferita e leggi l'articolo per scoprire le altre.

 
William Shakespeare è uno di quegli scrittori che entrano non solo nella storia della letteratura, ma della cultura in generale. Si è molto discusso – come sempre avviene quando il talento è talmente grande – se tutte le opere che gli sono attribuite siano effettivamente sue, e fino a che punto. Ma a noi, che le leggiamo oggi, poco importa: l’importante è che riescano ancora a parlarci.

Il più grande drammaturgo di ogni epoca?

Nonostante abbia scritto importanti poesie, Shakespeare infatti è stato soprattutto un drammaturgo, forse il migliore di ogni epoca. Le sue opere sanno ancora oggi farci ridere o piangere, farci pensare ed emozionare. Dalla sua ha trame ottimamente congegnate, ma soprattutto una capacità di far parlare i personaggi che è merce rara. Pensate a certi scambi di battute dei protagonisti dell’Amleto, o ai drammatici monologhi del Romeo e Giulietta.

Insomma, dalle sue opere si possono estrarre molte cose. Perfino delle frasi piuttosto brevi, che però sono talmente potenti da lasciarci a bocca aperta. Ne abbiamo scelte cinque che sono forse le più famose della prosa di William Shakespeare. Eccole.


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Essere o non essere, questo è il problema…

Da Amleto

Partiamo dalla frase più famosa in assoluto, il monologo più celebre di tutta la storia del teatro: quello di Amleto con in mano il teschio di Yorick. La storia del triste principe di Danimarca la dovreste conoscere tutti. Il dramma infatti racconta di come al giovane Amleto appaia il fantasma del padre, il sovrano da poco morto, e di come questi racconti al figlio di essere stato avvelenato dal fratello, che ora ne ha preso il posto.

Da lì parte la terribile vendetta di Amleto, una vendetta che passa attraverso la finzione di essere pazzo. Ma prima di arrivare con risolutezza al finale della tragedia, l’eroe si chiede sostanzialmente se ne valga la pena. E se lo chiede davanti alla tomba di quello che era stato il buffone di corte, appunto Yorick, personaggio a cui da bambino era particolarmente affezionato.

Essere o non essere, questo è il problema. È forse più nobile soffrire, nell’intimo del proprio spirito, le pietre e i dardi scagliati dall’oltraggiosa fortuna, o imbracciar l’armi, invece, contro il mare delle afflizioni, e combattendo contro di esse metter loro una fine? Morire per dormire. Nient’altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali di cui è erede la carne! Quest’è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire per dormire. Dormire, forse sognare. È proprio qui l’ostacolo; perché in quel sonno di morte, tutti i sogni che possan sopraggiungere quando noi ci siamo liberati dal tumulto, dal viluppo di questa vita mortale, dovranno indurci a riflettere. È proprio questo scrupolo a dare alla sventura una vita così lunga! Perché, chi sarebbe capace di sopportare le frustate e le irrisioni del secolo, i torti dell’oppressore, gli oltraggi dei superbi, le sofferenze dell’amore non corrisposto, gli indugi della legge, l’insolenza dei potenti e lo scherno che il merito paziente riceve dagli indegni, se potesse egli stesso dare a se stesso la propria quietanza con un nudo pugnale? Chi s’adatterebbe a portar cariche, a gèmere e sudare sotto il peso d’una vita grama, se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte – quel territorio inesplorato dal cui confine non torna indietro nessun viaggiatore – confonde e rende perplessa la volontà, e ci persuade a sopportare i malanni che già soffriamo piuttosto che accorrere verso altri dei quali ancor non sappiamo nulla. A questo modo, tutti ci rende vili la coscienza, e l’incarnato naturale della risoluzione è reso malsano dalla pallida tinta del pensiero, e imprese di gran momento e conseguenza, devìano per questo scrupolo le loro correnti, e perdono il nome d’azione.

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Tutto il mondo è un teatro…

Da Come vi piace

Come Pirandello ci insegna, chi vive di teatro ha spesso ben presente come il dramma sia una rappresentazione che non differisce poi così tanto dalla vita. Anche nella nostra esistenza quotidiana, infatti, siamo sempre sopra a un palcoscenico. Ognuno di noi recita la sua parte, e ognuno di noi si deve attenere a un ben determinato copione, che non ha sempre scritto di suo pugno.


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Questa consapevolezza l’aveva anche Shakespeare, che l’ha più volte messa in bocca ai personaggi delle sue opere. Ad esempio, nel secondo atto di Come vi piace il personaggio di Iacopo espone l’amara riflessione che trovate qui di seguito. Ma qualcosa di molto simile lo si ritrova anche ne Il mercate di Venezia, in questa forma: «Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte».

Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti…

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Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?

Da Romeo e Giulietta

Se tutti ci siamo commossi sentendo Amleto che medita il suicidio, abbiamo pianto ancora di più lacrime amare quando abbiamo sentito Giulietta chiedere a Romeo di rinnegare il suo nome. Anche in questo caso, la storia è arcinota. Romeo e Giulietta sono due giovani veronesi appartenenti a famiglie rivali. Lui è un Montecchi, lei una Capuleti. La loro storia d’amore è impossibile, a causa della faida che da tempo attanaglia le loro famiglie.

Così, quando nel secondo atto Romeo si trattiene nel giardino dei Capuleti, sente la sua innamorata pronunciare parole che lo vorrebbero senza nome, privo di quel cognome che si frappone fra di loro. Proprio in quella nottata terribile, i due si giureranno amore eterno e prometteranno di sposarsi. Un matrimonio che verrà effettivamente celebrato, ma che avrà conseguenze tragiche.

Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome! O, se non lo vuoi, tienilo pure e giura di amarmi, ed io non sarò più una Capuleti.

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Non ha occhi un ebreo?

Da Il mercante di Venezia

Il mercante di Venezia è forse il dramma di William Shakespeare che negli ultimi anni ha avuto maggiori attenzioni da parte del grande pubblico. La sua trama, figlia dell’epoca in cui fu scritto, permette infatti una rilettura in chiave moderna, che presenta elementi di sicuro interesse.


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Il punto focale di tutto è la questione dell’antisemitismo. La società inglese del tempo non era certo tenera verso gli ebrei, che venivano sempre descritti come “avidi usurai”. E anche Shakespeare non fa fare certo una bella figura a Shylock, il suo coprotagonista, quando lo descrive come crudele e assetato di sangue cristiano. Ma allo stesso tempo, forse inconsapevolmente, Shakespeare scrive delle frasi destinate a diventare il fulcro della lotta stessa all’antisemitismo.

Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni? Non si nutre anche lui di cibo? Non sente anche lui le ferite? Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato dalle medicine, scaldato e gelato anche lui dall’estate e dall’inverno come un cristiano? Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?

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Tutto il mondo è una perpetua tempesta…

Da Pericle, principe di Tiro

Abbiamo detto che spesso Shakespeare inseriva nelle sue opere delle frasi che mettevano in piedi il paragone tra il teatro e la vita. Ma la vita non era per lui simile solo a un palcoscenico, bensì anche a una tempesta. La visione, ovviamente, è in questo caso più oscura e pessimista, perché a teatro si può anche ridere ma una tempesta è sempre un tragedia. Il bardo inglese, però, sapeva ben toccare anche le corde del patetico.

La frase più bella al riguardo è quella che abbiamo trovato nel Pericle, principe di Tiro. Un’opera di sicuro minore, non nota quanto le altre che abbiamo citato in questa cinquina, ma che è anche considerata la prima di genere romance della produzione shakespeariana. Un’opera di cui, probabilmente, i primi due atti non furono scritti da Shakespeare ma da un suo collaboratore, anche se la citazione che riportiamo è sicuramente sua, perché tratta dal quarto atto.

Tutto il mondo è una perpetua tempesta in cui perdi via via le persone che ami.

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