
Isabel Allende è una delle autrici latinoamericane più lette al mondo che, sebbene abbia cominciato a scrivere quasi per caso, è riuscita ad imporsi nel panorama letterario senza sforzo alcuno, con uno stile magico in grado di intrappolare i lettori nelle sue storie. È nata a Lima nel 1942, ma nelle sue vene scorre sangue cileno ed è infatti a Santiago che trascorre l’infanzia insieme alla famiglia materna dopo l’abbandono del padre.
L’unico parente paterno che l’abbia mai sostenuta è stato il presidente Salvador Allende, morto nel colpo di stato di Pinochet nel 1973. Prima di dedicarsi alla stesura dei romanzi, Isabel Allende ha svolto diverse professioni, come quella di giornalista, sia per una rivista che per la televisione. Non era tuttavia portata per quella carriera: il primo a farglielo notare fu il premio Nobel Pablo Neruda.
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Come lei stessa confessa in Paula, il poeta le disse: «Lei dev’essere la peggior giornalista di questo paese, figliola. È incapace di essere obiettiva, […] sospetto anche che […] quando non ha una notizia la inventi. Perché non si dedica a scrivere romanzi?». Nove anni più tardi, la Allende pubblicò La casa degli spiriti e da allora non si è più fermata. Nelle sue opere sono presenti sfumature di realismo magico, personaggi ispirati a persone realmente esistite e non manca mai il suo tocco personale. Vediamone insieme cinque tra le più memorabili.
Indice
Eva Luna
Il fascino delle storie e l’adrenalina della rivolta
Pubblicato nel 1987, Eva Luna è uno dei primissimi romanzi dell’autrice, profondamente intriso di realismo magico. In esso l’elemento fantastico si mescola tuttavia con con la realtà di un momento storico piuttosto critico, dilaniato dalle rivolte. La protagonista è colei che dà il titolo all’opera, Eva Luna. Si tratta della figlia di Consuelo, una cameriera sedotta da un forestiero di passaggio, che trascorre l’infanzia insieme alla madre, nutrendosi delle storie che essa le racconta.
La ragazzina rimane però ben presto sola poiché Consuelo muore soffocandosi con un osso di pollo e deve quindi guadagnarsi da vivere. Abituata ad arrangiarsi sin dalla nascita, Eva Luna incanta i colleghi con gli stessi racconti con cui l’ammaliava la madre, ma ha difficoltà a sottostare agli ordini dei padroni e si ribella spesso scappando all’improvviso. Durante le sue fughe conosce Huberto Narajo, un vagabondo poco più grande di lei e animato dallo stesso spirito indomabile.
La luce e l’ombra determinavano mutamenti fondamentali nella natura degli oggetti; i libri, quieti durante la giornata, si aprivano di notte e i personaggi uscivano a vagare per le stanze e a vivere le loro avventure; […] una mia parola e, zac!, la realtà si trasformava.
I due diventano amici e i loro destini finiranno per incrociarsi, come del resto accade con Rolf Carlé, un giovane di origine austriaca con cui il rapporto sarà invece più burrascoso: la guerriglia inizialmente non permetterà loro di vivere la loro storia d’amore, ma poi Eva Luna lo seguirà in esilio. Il lieto fine si apre come una boccata di ossigeno in un libro dai toni cupi e malinconici, in cui le fughe in un mondo immaginario alleviano la pesantezza di una realtà opprimente.
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La figlia della fortuna
L’intreccio di innumerevoli culture
Nata in Perù, cresciuta in Cile, trasferitasi in Venezuela e ora residente in California, Isabel Allende concepisce se stessa come il risultato di diverse culture. Anche nei suoi romanzi molteplici nazionalità finiscono per confluire in uno stesso personaggio, dandogli quei tratti di unicità che lo rendono irripetibile. Così accade ad esempio ad Eliza, la protagonista de La figlia della fortuna (1999).
La sua storia comincia proprio in Cile nel 1832, ma le sue origini non sono chiare perché Eliza è una trovatella finita nelle mani di una ricca famiglia inglese, all’interno della quale viene accolta sotto l’ala protettiva della dolce Rose, che la indirizza verso un’educazione britannica. A mitigare queste raffinatezze è però la governante della casa, una donna indigena da cui Eliza apprende tutte le tradizioni indios.
Sto scoprendo in me nuove forze, che forse ho sempre avuto, ma che non conoscevo perché fino a ora non avevo avuto bisogno di ricorrervi. Non so a quale curva della strada si sia persa la persona che ero prima.
La compostezza inglese viene però accantonata quando conosce Joaquín Andieta e se ne innamora perdutamente. Dopo vari incontri clandestini, il ragazzo, affetto dalla “febbre dell’oro”, fugge in cerca di fortuna abbandonando Eliza incinta. Noncurante del proprio stato, la protagonista, animata da una febbre ben più romantica, si mette sulle sue tracce grazie all’aiuto di Tao, un medico cinese. Di quest’ultimo finirà poi per innamorarsi, mentre il ricordo di Joaquín sfuma sempre di più fino a scomparire.
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La città delle bestie
Alla scoperta degli angoli più selvaggi dell’Amazzonia
Senza mai discostarsi completamente dal realismo magico, Isabel Allende decide nel 2002 di pubblicare La città delle bestie, romanzo che, insieme a Il regno del drago d’oro e La foresta dei pigmei, forma una trilogia scritta dall’autrice per i nipoti. Il personaggio principale è infatti Alex, un quindicenne statunitense che parte all’avventura insieme alla nonna paterna Kate, giornalista dell’International Geographic che decide di portare il nipote con sé durante un viaggio di lavoro.
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La missione di Kate riguarda questa volta l’esplorazione della foresta amazzonica al fine di svelare il mistero alla base dell’avvistamento di una bestia rarissima. I due non sono soli: ad accompagnarli ci sono altri esperti e la figlia di uno di essi, la tredicenne Nadia, la quale è in grado di parlare con gli indios e sa destreggiarsi alla perfezione in mezzo alla natura. I suoi talenti si riveleranno utili, poiché la foresta, purché pericolosa, non è disabitata: indigeni e sciamani la popolano da generazioni.
[…] il tempo in Amazzonia non era come nel resto del pianeta, non si misurava in ore, bensì in albe, maree, stagioni, piogge.
Grazie all’incontro con queste tribù, Alex e Nadia scopriranno i loro animali totemici, ossia l’aquila e il giaguaro, ed entreranno in contatto con una realtà fatta di percezioni e di istinti completamente diversa da quella odierna. Si renderanno anche conto che gli indios non sono affatto protetti: qualcuno desidera sterminarli, ma i giovani possiedono tutti gli strumenti per evitare quest’ingiustizia.
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Il mio paese inventato
Un’autobiografia dal sapore di Cile
Isabel Allende è un’ottima narratrice, in particolare è onnipresente: non esiste romanzo in cui non s’infiltri anche minimamente, con un commento o una constatazione. Appena percettibile, il suo pensiero ironico si insinua nel lettore facendolo sorridere e dandogli l’impressione di essere l’ascoltatore diretto di una storia raccontata a voce. Poi nel 2003 la scrittrice cilena esce finalmente allo scoperto, pubblicando Il mio paese inventato, in cui si rivela senza riserbo.
Si tratta della sua prima vera autobiografia, anche se già Paula (1995) può essere considerata tale. In questo romanzo però la Allende approfondisce il suo lato cileno, anche se afferma di sentirsi americana, termine che racchiude in sé sia la nazionalità d’origine che quella acquisita. Riguardo al suo paese natale scrive: «La società cilena è come un millefoglie: ogni essere umano al suo posto e nella sua classe, segnato dalla nascita».
Mi integrai a tal punto nella cultura californiana che ora faccio meditazione e sono in analisi, anche se baro sempre: durante le meditazioni invento storie per non annoiarmi e durante l’analisi ne invento altre per non annoiare lo psicologo.
Privi di ordine cronologico, i ricordi e le considerazioni sul suo passato scorrono liberi ripescando aneddoti e frammenti di storia sempre vivi nella mente di chi li ha vissuti. È il caso ad esempio del colpo di stato che l’ha costretta all’esilio a Caracas, in Venezuela. Nella sua infanzia compaiono invece personalità forti che il lettore ha già l’impressione di conoscere: questa familiarità è dovuta dal fatto che alcune di esse hanno ispirato personaggi dei romanzi.
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Il quaderno di Maya
Un percorso al contrario
Il quaderno di Maya è uno degli ultimi romanzi di Isabel Allende, pubblicato nel 2011. A narrare la propria storia in prima persona è Maya, una diciannovenne tossicodipendente e alcolista la cui vita è sempre stata ardua. L’autrice e la protagonista sembrano non avere nulla in comune, eppure la scrittrice fa percorrere al suo personaggio la strada inversa a quella da lei intrapresa: per sfuggire alla giustizia, Maya scappa in Cile alla ricerca delle proprie origini.
Il luogo di partenza è la città statunitense di Berkeley, dove la giovane è cresciuta insieme ai nonni paterni. Sin da piccola ha dovuto affrontare una realtà fuori dal comune. L’abbandono della madre l’ha infatti sempre resa diversa dai suoi coetanei, ma per Maya non è mai stato un problema. A scatenare l’inferno è stata invece la morte del Popo, cioè il nonno. Da allora la ragazza ha cominciato a frequentare brutte compagnie e a finire nell’asfissiante tunnel della droga.
Un dolore così, dolore dell’anima, non si elimina con medicine, terapie o vacanze; un dolore così lo si soffre, semplicemente, fino in fondo, senza attenuanti, come è giusto che sia.
La dipendenza da stupefacenti, l’alcool e la prostituzione s’incatenano fino a rendere la sua vita caotica come una discarica, ma solamente la morte dello spacciatore con cui vive e la conseguente persecuzione da parte degli agenti dell’FBI riescono a scrollarla dall’apatia e a darle la forza per reagire. Maya parte così alla volta del Cile, paese natale dei nonni in cui troverà la storia della sua famiglia e anche le risposte che cercava.
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