Cinque opere dadaiste memorabili

Alla scoperta delle più importanti opere dadaiste

Tra le avanguardie di inizio ‘900, il dadaismo è forse quella più (ingiustamente) trascurata. I nostri libri di testo tendono, a volte, a vederla come un’anticipazione di altre correnti che sarebbero venute dopo, in primis il surrealismo. E a sminuirne quindi l’importanza e la portata. Eppure, scorrendo l’elenco delle principali opere dadaiste, non si può non rimanere colpiti da quanto abbiano influito sull’arte del secolo scorso e sulla cultura in generale.

Il movimento nacque in Svizzera, a Zurigo, durante la Prima Guerra Mondiale. Ebbe, forse anche per questo, vita piuttosto breve. Nato nel 1916 – con l’inaugurazione del Cabaret Voltaire di Hugo Ball –, già nel 1920 aveva sostanzialmente esaurito la sua carica, praticamente in parallelo alla Grande Guerra.

D’altronde, proprio il conflitto – con la sua disumana assurdità – aveva dato slancio alla corrente, e la sua fine l’aveva in qualche modo uccisa.

Con la pace, gli artisti che si erano radunati nella neutrale Svizzera tornarono a casa. E portarono con loro l’estetica dadaista, pronti a mescolarla con altre correnti artistiche.

A Berlino arrivarono artisti come Grosz, Hausmann e Höch, che avrebbero avuto un’influenza fondamentale sui giovani Bertolt Brecht e Fritz Lang. A Colonia si stabilirono Hans Arp e Max Ernst. Parigi divenne invece la casa di Tristan Tzara, di Man Ray e di due nativi francesi come Marcel Duchamp e Francis Picabia, che poi sarebbero passati a New York.

Insomma, quella dadaista fu una stagione breve ma molto intensa. Sia nella produzione che negli esiti, che finirono per trasformare il modo di intendere l’arte. Oggi vogliamo ripercorrere brevemente quella stagione tramite cinque opere dadaiste memorabili e fondamentali. Eccole, con anche qualche nota biografica sui loro autori.

 

1. Marcel Duchamp – Fontana (1917)

Se si parla di opere dadaiste, non si può che cominciare da Marcel Duchamp. L’artista francese è stato infatti il più importante esponente della corrente, e quello che più di tutti l’ha anticipata.

La foto originale della Fontana di Duchamp fatta da Alfred Stieglitz

L’opera che vedete qui di fianco è la celebre Fontana, realizzata nel 1917, quando l’avanguardia stava ancora definendo la sua identità. Un’opera che nel 2004, a quasi novant’anni dalla sua presentazione, fu giudicata da un gruppo di critici la più influente opera d’arte di tutto il XX secolo.

 
Affermazione a suo modo paradossale, quest’ultima, per almeno tre motivi. Il primo: quest’opera di fatto non esiste. La foto che vedete qui di fianco fu scattata, infatti, da Alfred Stieglitz non appena venne presentata. L’orinatoio venne però quasi subito perduto, forse perché qualche collaboratore di Duchamp lo buttò letteralmente via.

Oggi nel mondo ne esistono alcune riproduzioni autorizzate dallo stesso Duchamp, ma non l’originale. Ad ogni modo, queste riproduzioni valgono molto, se si pensa che un esemplare è stato venduto a 1,7 milioni di dollari.

Il ready-made provocatorio

Il secondo motivo è quello più evidente: questa è un’opera che non fu realizzata per finire in un museo. Non solo sembra un orinatoio: è letteralmente un orinatoio. Duchamp non fece altro che approvi la firma (“R. Mutt”) e ruotarlo di 90°.

E questo ci porta direttamente al terzo paradosso: Duchamp non ne è l’autore materiale, visto che Fontana fu realizzata da altri, cioè da una fabbrica. Ma forse non ne è neppure l’autore “ideale”. A quanto pare, Duchamp ricevette l’orinatoio da un’amica, che glielo aveva inviato usando proprio lo pseudonimo “Richard Mutt”.

I paradossi delle opere dadaiste

Insomma, l’opera più influente del ‘900 è un’opera che non esiste, che non fu creata dal suo autore e che non fu realizzata con intento artistico. Ma in fondo proprio questi paradossi erano alla base dell’esperienza dada.

Di una forma artistica, cioè, che voleva dissacrare l’arte, mostrarne il lato comico e a suo modo fasullo. Fontana presentò tutto questo in maniera scandalosa, e non a caso Duchamp non riuscì ad esporla.


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Nel 1917 la rivista The Blind Man però difese l’opera di Duchamp in un celebre articolo.

Lì si scriveva: «Se Mr. Mutt abbia fatto o no la fontana con le sue mani non ha importanza. Egli l’ha SCELTA. Ha preso un comune oggetto di vita, l’ha collocato in modo tale che un significato pratico scomparisse sotto il nuovo titolo e punto di vista; egli ha creato una nuova idea per l’oggetto».

Nasceva così il ready-made, che Duchamp già sperimentava da qualche anno (con ruote di biciclette, imbuti e altro) ma che qui otteneva il primo riconoscimento ufficiale.

 

2. Marcel Duchamp – L.H.O.O.Q. (1919)

Disegnare baffi e pizzetto sulla Gioconda

L.H.O.O.Q., ovvero la Gioconda coi baffi di Duchamp

In quegli anni ’10 Duchamp produsse svariate opere di grande importanza. Tra tutte, però, spicca indubbiamente L.H.O.O.Q., un ready-made rettificato (cioè modificato dall’artista) de la Gioconda di Leonardo da Vinci.

Realizzato nel 1919, questo lavoro non è altro che una riproduzione fotografica del capolavoro del Rinascimento. A cui però sono stati aggiunti dei baffi ed un pizzetto, come farebbe uno scolaro sul suo libro di storia dell’arte.

 
E proprio l’intento iconoclastico è il primo ad emergere quando si analizza l’opera. Il suo stesso titolo sembra andare in quella direzione. L.H.O.O.Q., letto in francese, suona infatti come Elle a chaud au cul. Ovvero: “lei ha caldo al culo”, un’espressione che significa “lei è eccitata”.

Scandalizzare i boghesi

Una delle parole d’ordine del dadaismo, d’altra parte, era épater le bourgeois, cioè scandalizzare la borghesia. E quale modo migliore del prendere di mira l’opera che era considerata, da ogni buon borghese francese, il capolavoro inarrivabile di tutta l’intera storia dell’arte?

Duchamp riprese più volte quest’immagine, anche modificandola nel corso degli anni. Quasi cinquant’anni dopo, ad esempio, realizzò la L.H.O.O.Q. Shaved. Ovvero la stessa immagine con però la Monna Lisa “rasata”, senza baffi.

Inoltre, il tema della confusione sessuale, con donne mascoline o maschi effemminati, sarebbe ritornato altre volte nel corso della sua carriera. Lo stesso Duchamp, d’altro canto, assunse presto lo pseudonimo di Rrose Sélavy. Quello di una donna il cui nome, in francese, suona proprio come Eros, c’est la vie.

 

3. Hannah Höch – Tagliato col coltello da cucina Dada attraverso l’ultima epoca weimariana della cultura della pancia da birra in Germania (1919)

Il fotomontaggio come strumento di polemica politica

Abbandoniamo ora Duchamp e lanciamoci in una panoramica sugli altri grandi autori di memorabili opere dadaiste. Cominciando con Hannah Höch, artista tedesca protagonista del circolo berlinese. Nata nel 1889, si avvicinò alla corrente grazie a Raoul Hausmann, fotografo e artista di cui parleremo a breve e di cui divenne l’amante.

Tagliato col coltello da cucina Dada di Hannah Höch

Il rapporto tra i due durò 7 anni e finì male, con lei a rimpiangere il tempo perso a curare lui più che l’arte. Ma in questo periodo la Höch produsse comunque i suoi lavori più interessanti, utilizzando perlopiù il fotomontaggio.

Fu proprio il dadaismo berlinese il primo a lavorare su questa particolare tecnica, utilizzata sia per la novità che rappresentava, sia per le possibilità espressive che metteva in mano al fotografo.

 
La potenza del nuovo mezzo è ben evidente nell’opera che vedete qui di fianco, Tagliato col coltello da cucina Dada attraverso l’ultima epoca weimariana della cultura della pancia da birra in Germania, datata 1919.

La Höch la realizzò con un chiaro intento politico. Vi mescolò infatti immagini di leader politici della Repubblica di Weimar, foto di sportivi in voga all’epoca, ritratti di artisti dadaisti e immagini della città.

Un pugno in un occhio

Ne nacque un’opera che all’epoca colpiva come un pugno in un occhio, ed ebbe una grande risonanza. La polemica politica contro la neonata Repubblica di Weimar era molto chiara. D’altronde, il gruppo dei dadaisti si era schierato con gli spartachisti che erano appena stati sconfitti (e fucilati).


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E la nuova forma di stato, voluta dalla SPD, pareva un compromesso al ribasso. Nel corso degli anni, poi, la Höch avrebbe approfondito questi temi, legandoli anche ad una forte impronta femminista e, a tratti, anche omoerotica.

 

4. Raoul Hausmann – Testa meccanica (Lo spirito del nostro tempo) (1920)

Come cambia la mente dell’uomo

Dopo averlo citato parlando di Hannah Höch, passiamo ora a Raoul Hausmann. Perché in quegli anni anche lui era una delle voci più importanti non solo del gruppo berlinese, ma di tutto il dadaismo europeo. Nato a Vienna nel 1886, si trasferì nella capitale tedesca con la famiglia durante l’adolescenza.

La testa meccanica di Hausmann

Qui abbracciò in un primo momento l’espressionismo. La relazione (extraconiugale) con la Höch e l’avvicinamento alla psicanalisi però lo portarono presto verso i lidi dadaisti.

 
L’intuizione del fotomontaggio nacque, in Hausmann, in maniera fortuita. Nel 1918 l’artista e la Höch si recarono sul Mar Baltico per un breve periodo di vacanza. Qui affittarono una camera e notarono che sulle pareti erano appese delle generiche foto di soldati, ma sulle facce di questi erano state incollate delle copie di una foto del figlio del proprietario.

La scelta decisamente kitsch e originale del padrone di casa stimolò la coppia a creare fotomontaggi con le immagini che iniziavano in quegli anni a uscire sulla carta stampata.

Dalla fotografia agli assemblaggi

Ma Hausmann non si limitò a lavorare con la fotografia. Scrisse anche poesie, o, come le chiamava lui, “fonemi” o “poesie poster”, create giustapponendo tra loro le lettere in maniera casuale. Inventò perfino danze, come il Dada-Trot, una sorta di corrispettivo dadaista del Fox-Trot.

Nel 1920, infine, arrivò quello che sarebbe divenuto il capolavoro di Hausmann, un assemblaggio che è anche l’unico rimasto all’interno di una produzione che in quei mesi fu però molto intensa.

Questo capolavoro è Testa meccanica, realizzata utilizzando una testa porta-parrucca. Sopra di essa attaccò un righello, il meccanismo di un orologio da taschino, pezzi di macchina da scrivere e di fotocamera, un portafoglio in coccodrillo ed altre cose ancora. Il sottotitolo dell’opera chiarisce l’interpretazione: Lo spirito del nostro tempo.

Se, per i romantici, l’uomo era essenzialmente spirito, e quindi idea immateriale, le cose secondo Hausmann erano ora cambiate.

La testa dell’uomo non era più piena di pensieri, perché i pensieri uscivano. Ed erano pensieri materiali, tecnici, tangibili. Pensieri che anzi delimitavano, quasi plasmavano la mente dell’uomo. Lo spirito dei tempi era insomma decisamente cambiato.

 

5. Francis Picabia – Nature morte: ritratto di Cézanne, ritratto di Renoir, ritratto di Rembrandt (1920)

Sulla rivista Cannibale

Concludiamo lasciando la Germania e tornando in Francia. Come detto, a Parigi rientrarono molti dei fondatori del movimento dadaista che avevano passato gli anni della guerra in Svizzera. Ma qui incontrarono un ambiente più che favorevole ad accoglierli.

La creazione di Francis Picabia pubblicata a Parigi sul primo numero di Cannibale, nel 1920

Parigi era, al tempo, la capitale mondiale dell’arte. In città vivevano personaggi come Pablo Picasso, Amedeo Modigliani, Georges Braque, Henri Matisse, Jean Cocteau, James Joyce, Ezra Pound ed André Breton.

Per un giovane pittore francese quello era, insomma, un ambiente assai stimolante. E i dadaisti apparivano come l’ultimo ritrovato dell’avanguardia. Per questo il pittore Francis Picabia, che pure all’inizio aveva aderito al cubismo, rientrò presto tra i ranghi dadaisti.

 
Ad avvicinarlo alla corrente era stata l’amicizia con Marcel Duchamp, a cui si aggiunsero la frequentazione con Apollinaire, un trattamento contro la depressione a cui si era sottoposto proprio a Zurigo e l’interesse per i macchinari.

Dai meccanismi al ready-made

Per qualche tempo, infatti, Picabia realizzò disegni di casuali grovigli di parti meccaniche. Disegni in cui, tra l’altro, non era difficile scorgere allusioni sessuali. Poi, come molti dadaisti, si fece promotore di opere che offendessero la morale comune, anche tramite periodici.

Nacque così la rivista Cannibale, sul cui primo numero, nel 1920, comparve questo Nature morte. Si trattava di un ready-made rettificato, per usare i termini di Duchamp, costruito attorno a una scimmia giocattolo.

Fu però una delle ultime opere dadaiste di Picabia. Pochi mesi dopo avrebbe polemicamente abbandonato il movimento, per passare nel surrealismo. E non avrebbe mancato, tra l’altro, di attaccare un altro intellettuale francese che aveva compiuto il suo stesso passaggio, cioè André Breton.

 

E voi, quale opera dadaista preferite?

Ecco cinque memorabili opere dadaiste: vota la tua preferita.

 

Conosci altre opere dadaiste memorabili? Indicacele nei commenti.

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