
L’Illuminismo è stato, senza ombra di dubbio, uno dei periodi storici più alti per la filosofia. In quell’epoca sembrava davvero che i filosofi potessero cambiare il mondo, influenzare le scelte della politica, modificare la mentalità della società. D’altronde, i filosofi di questa corrente furono i primi “intellettuali impegnati” della storia: abbandonata la torre d’avorio e usciti dalle corti e dai palazzi, gli illuministi si rivolgevano direttamente alla borghesia per plasmarla e istruirla.
Il ruolo dell’Enciclopedia
Emblematica, da questo punto di vista, è l’avventura dell’Enciclopedia. Il corposissimo testo-simbolo di quest’epoca, diretto da Diderot e d’Alembert, vide all’opera i più grandi pensatori del tempo, impegnati nel tentativo di far circolare lo scibile umano. Nonostante alcuni inevitabili eccessi, fu insomma un’epoca di progresso intellettuale spaventoso, che ha disegnato l’Occidente come lo conosciamo oggi. E non si può non dare alla cultura francese gran parte del merito per questi progressi.
Se è vero, infatti che l’Illuminismo si diffuse in tutta Europa e che trovò esponenti importanti in Germania, in Italia e in Scozia, è anche vero che la Francia fu davvero la patria del movimento. Non a caso, gli altri filosofi del continente guardavano proprio a Parigi per apprendere, confrontarsi, conoscere. E allora, scopriamo – o riscopriamo – insieme i cinque principali filosofi illuministi francesi.
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Indice
1. Montesquieu
Dalle Lettere persiane a Lo spirito delle leggi
Cominciamo da Charles-Louis de Secondat, meglio noto come il barone di Montesquieu. Cominciamo da lui perché, nato nel 1689, fu probabilmente il primo vero pensatore illuminista, o almeno il primo ad avere un grande successo in patria e all’estero. Esponente di una agiata famiglia della nobiltà togata di Bordeaux, studiò legge e fin da giovane poté dedicarsi a varie ricerche. Si interessò di politica, di diritto, ma anche di fisica, anatomia e botanica.
La sua prima grande opera di successo furono le Lettere persiane, pubblicate nel 1721. In quest’opera immaginava il viaggio in Europa di due dignitari persiani, descrivendo con ironia e sagacia anche filosofica gli usi e costumi del vecchio continente, che sembravano a volte bislacchi ai due stranieri.
Le forme di governo e la divisione dei poteri
ll vero capolavoro di Montesquieu, però, è Lo spirito delle leggi, poderoso saggio pubblicato nel 1748, dopo anni di studi e di viaggi. In questo libro il pensatore francese presenta le varie forme di governo, non nascondendo una certa ammirazione per il modello inglese, che aveva conosciuto a fondo durante un lungo viaggio oltremanica. Inoltre, quasi volesse fare una summa del pensiero politico settecentesco, analizza la storia delle leggi in relazione ai vari popoli.
Il concetto che però ha avuto più successo e ha influenzato l’Europa moderna è quello della divisione dei poteri. Montesquieu, infatti, analizza come il potere di uno Stato sia triplice: vi è il potere legislativo, che consiste nel fare le leggi; quello esecutivo, che consiste nel metterle in pratica; quello giudiziario, che consiste nel processare chi le trasgredisce. Per il bene dello Stato, della libertà e della vita dei cittadini è utile, secondo Montesquieu, che questi tre poteri siano separati. Come è poi avvenuto in tutti gli stati liberali, che in un certo senso sono figli di quell’opera.
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2. Voltaire
Il pensatore eclettico
Se Montesquieu fu un grande filosofo della politica e un fine analista dei costumi europei, Voltaire fu tutto questo e molto di più. François-Marie Arouet – questo il suo vero nome – fu infatti il massimo rappresentante dell’enciclopedismo, inteso non tanto come l’opera a cui abbiamo già accennato, quanto di quella volontà tipicamente illuminista di interessarsi di ogni campo dello scibile. Voltaire, infatti, ci ha lasciato trattati di filosofia, drammi, saggi storici, romanzi, poesie, articoli dell’Enciclopedia sugli argomenti più disparati, fiabe e aforismi. Un corpus, insomma, amplissimo, che dimostra una grande quantità di idee ma anche un’ottima facilità di scrittura.
Nato nel 1694 a Parigi, Arouet proveniva da una ricca famiglia borghese. Educato dai gesuiti, tradì le speranze del padre, che lo voleva avvocato o notaio, e iniziò invece fin da subito a dilettarsi nella scrittura di versi satirici verso il potere costituito. Iniziò così una lunga serie di esili – a volte imposti e a volte volontari – che lo tennero di tanto in tanto lontano da Parigi. Importante fu in questo senso per lui il tempo trascorso in Gran Bretagna, dove si avvicinò alle opere di Shakespeare, alla fisica di Newton e alla filosofia di Locke.
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I soggiorni a Londra e in Prussia
Dopo il soggiorno londinese le sue opere iniziano ad avere grande diffusione. Mentre divulgava le nuove teorie newtoniane negli Elementi della filosofia di Newton, pubblicava anche le Lettere inglesi, il suo primo libro di successo. Nel frattempo anche le sue poesie e i suoi drammi teatrali si guadagnarono una certa fama, procurandogli però qualche noia con la censura. Il saggio storico Il secolo di Luigi XIV, come varie opere dello stesso tenore, venne bloccato, ma ebbe comunque diffusione all’estero. Federico II di Prussia, con cui già si sentiva per lettera, lo invitò a Berlino e Potsdam, dove si stabilì a lungo in più occasioni.
Si iniziò ad occupare anche del fanatismo religioso, prima con Maometto ossia il fanatismo, poi con Zadig e infine, soprattutto, con il Trattato sulla tolleranza. Ma la sua produzione è molto ampia: tra i suoi capolavori ci sono anche, tra gli altri, Micromega, Candido e il Dizionario filosofico.
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3. Jean-Jacques Rousseau
Il più originale tra gli illuministi
Se Montesquieu e Voltaire (come anche Diderot e d’Alembert, che vedremo poi) possono essere senza dubbio definiti padri dell’Illuminismo, lo stesso non si può dire con la medesima sicurezza di Jean-Jacques Rousseau. Anzi, forse sarebbe più corretto chiamarlo “patrigno”. I motivi sono vari. Da un lato, Rousseau manifestò in tutta la sua vita idee che erano molto originali all’interno dell’ambiente illuminista, a volte addirittura antitetiche a quelle dei suoi colleghi. Dall’altro, per via del suo carattere non certo accomodante e forse di qualche problema psicologico finì per rompere i rapporti con tutti gli altri filosofi, tanto che Voltaire lo definì il “Giuda” della confraternita.
Nato a Ginevra nel 1712 da una famiglia di condizioni piuttosto modeste, rimase subito orfano di madre. Educato dal padre – un orologiaio calvinista – per i primi dieci anni della sua vita, fu poi affidato alle cure degli zii. Fino ai trent’anni lavorò come segretario di una ricca e nobile signora di cui fu anche l’amante, Madame de Warens. Solo nel 1742 si trasferì a Parigi, lavorando perlopiù come precettore e insegnante di musica, disciplina che aveva studiato con particolare impegno.
Il Discorso sulle scienze e le arti
Proprio come esperto di musica fu avvicinato da Diderot, che gli affidò l’incarico di scrivere alcune voci per l’Enciclopedia. La svolta filosofica arrivò nel 1749. In quell’anno, infatti, Diderot era stato incarcerato per uno dei suoi libelli e mentre Rousseau si recava a fargli visita in prigione, scorse il bando di un concorso indetto dall’Accademia di Digione. Subito gli venne la voglia di partecipare: scrisse il Discorso sulle scienze e le arti che gli fece vincere il primo premio e gli diede grande notorietà. Un testo in cui sosteneva che il progresso era in realtà una forma di regresso.
Negli anni successivi arrivarono i suoi capolavori ma anche la rottura con tutto l’ambiente intellettuale parigino. Rifiutò, forse per via di problemi fisici, anche gli onori che il re voleva tributargli, e finì per vivere in esilio, isolato. Non si possono comunque non citare il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza del 1755, La nuova Eloisa del 1761, Il contratto sociale del 1762 e l’Emilio, dello stesso anno.
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4. Denis Diderot
Il curatore dell’Enciclopedia
Concludiamo con i due curatori della già ampiamente citata Enciclopedia: Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert. Fu soprattutto il primo, anzi, il più importante responsabile di quella poderosa opera, a cui si dedicò per vent’anni e di cui curò anche il maggior numero di lemmi. D’altronde, quell’opera può essere vista anche come il suo manifesto filosofico. Di spirito indomito simile a Voltaire, a differenza dell’amico Diderot era però ancora più anti-religioso – tanto da essere vicino all’ateismo – e maggiormente interessato a tutto lo scibile umano, dalla medicina alla filosofia.
Proprio traducendo dall’inglese una serie di dizionari medici venne a Diderot – e ai suoi finanziatori – l’idea di tradurre anche un’analoga enciclopedia che era stata realizzata in Gran Bretagna. Il progetto, però, si espanse molto rapidamente. Non si doveva trattare più di una semplice traduzione, ma di un poderoso ampliamento, supportato in questo anche dalla preventiva approvazione della corona (che però poi avrebbe presto ritirato il suo placet).
L’attività letteraria
Parallelamente a quest’attività, Diderot condusse un’attività letteraria molto intensa. Scrisse pamphlet, commedie, satire, romanzi, lettere, saggi. Una produzione sterminata, attraverso cui toccò generi diversi ma sempre caratterizzata da un gusto ironico e dalla critica contro la religione e la superstizione. Proprio per una di queste opere, la Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono, finì anche per qualche mese in prigione.
Negli ultimi anni della sua vita fu più guardingo, esponendo le sue idee in testi anonimi o in maniera più mascherata. Scambiava intanto idee coi grandi intellettuali di Francia e d’Europa ed ebbe una notevole influenza sulla zarina Caterina II, che lo invitò a San Pietroburgo. Lì preparò varie riforme, che però la regnante non rese mai operative. Morì, sfiduciato nei confronti dei despoti, nel 1784.
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5. Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert
Il matematico prestato alla filosofia
D’Alembert è solitamente ricordato come “l’altro curatore”, di fianco a un Diderot che fece forse il grosso del lavoro (e ne pagò in parte anche le conseguenze con la giustizia). D’altronde, d’Alembert non era un filosofo, almeno non a tempo pieno. I grandi successi li aveva ottenuti, e avrebbe continuato ad ottenerli, come matematico, disciplina che gli aveva permesso l’accesso ai più importanti salotti parigini.
Nato nel 1717 da una relazione illegittima tra la marchesa Claudine Guérin de Tencin e il cavaliere Louis-Camus Destouches, fu abbandonato dalla madre subito dopo la nascita presso la cappella di Saint-Jean-le-Rond a Notre-Dame, da cui prese il nome. Il padre naturale, che non lo riconobbe mai, pagò però per la sua istruzione. Anche se i giansenisti da cui andò a scuola lo spingevano per la teologia, si laureò in legge e studiò la matematica e la fisica.
I successi e gli interessi
Già prima dei trent’anni ottenne importanti risultati sul calcolo integrale e sulla meccanica dei fluidi. Questo gli permise di conoscere Diderot, che subito cercò di coinvolgerlo nel progetto dell’Enciclopedia. D’Alembert scrisse molte voci, anche di carattere spiccatamente filosofico e storico, e diresse le sezioni di matematica e delle scienze. Scrisse inoltre, nel 1751, il celebre Discorso preliminare, una summa dell’empirismo degli illuministi.
Si occupò anche di poesia e musica e tradusse, mirabilmente, alcune opere dal latino. È oggi ricordato in ambito scientifico per il Teorema d’Alembert sui polinomi, per lo studio degli equinozi e per il Principio di d’Alembert, sulla quantità di movimento.
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