Cinque poesie sull’assenza famose e fatali

Le migliori poesie sull'assenza

L’assenza, ovvero la percezione di qualcosa che non c’è. La percezione di una mancanza. Segna un destino che accomuna noi esseri umani, che desideriamo e amiamo. Lo scrisse già Platone nel Simposio: si può amare soltanto ciò di cui siamo mancanti. L’assenza è dunque il vuoto che addolora ma spalanca al travaglio e alla frenesia di quella confusa pulsione che è il desiderio.

Mancanza, assenza e desiderio e le loro reciproche danze non si possono che considerare temi cari alla poesia, alla letteratura e all’arte intera. L’arte stessa, forse, nasce dall’assenza.

Si pensi ad uno dei miti che racconta Plinio il Vecchio. L’arte di modellare nacque perché la figlia di un vasaio, innamorata di un giovane, tratteggiò con una linea l’ombra del suo volto proiettata sul muro, così da poter sempre ricordarsi di lui. Il padre su quelle linee impresse l’argilla e ne fece il ritratto.

L’arte nasce, secondo questa versione che volentieri accogliamo, dal tentativo di risolvere il problema dell’assenza, di velare la sofferenza che porta.

 

1. Cristina Campo – La Tigre Assenza

Il problema dell’assenza, della sua aggressività, delle ferite che procura, l’ha dipinto con un’immagine di lucidità essenziale una poetessa: Cristina Campo ne La Tigre Assenza.

Vittoria Maria Angelica Marcella Cristina Guerrini, che adottò lo pseudonimo appunto di Cristina Campo, fu poetessa, scrittrice, traduttrice. Di lei stessa disse: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto ancor meno».

Sono poche, effettivamente, le sue poesie. In una manciata di versi, di immagini vivide e silenziose, ha però dipanato la complessità di ciò che sentiva.

Ahi che la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera…

L’assenza come una tigre

Poche parole cadenzate. Assenza, Tigre, Preghiera. L’assenza come una tigre che si apposta e sbrana, azzanna e divora. Una mancanza può diventare quel dolore lancinante che sfigura il volto. Quello che non c’è rivendica la presenza spaventante di una belva.

In questa immagine cruda di volti divorati, la poetessa introduce una possibilità, una speranza: si può sopravvivere alla tigre. Rimane infatti la bocca, pura, che chiede, prega. Ma ciò che la bocca chiede è di poter continuare a chiedere, così che mai l’assenza sia definitiva, che mai l’ultima parola sia il morso della Tigre, ma la richiesta che non muore.

La poetessa Cristina Campo

Che la tigre divori pure il volto, purché io possa continuare a chiedere. Se resta la bocca resta l’interrogativo, sopravvive la possibilità del ricongiungimento, nonostante la coscienza dolorosa che ciò che manca possa non essere mai riconsegnato, mai ritrovato.

Si potrebbe pensare che questa preghiera sia la poesia stessa, che dunque prega di potersi perpetrare, di non essere divorata da un’assenza che ammutolisce, in un andamento ciclico di ritorni e ripetizioni che è nella tessitura stessa di questi versi che ripetono e chiedono.

 

2. Amelia Rosselli – Quanti campi che come spugna vorrebbero…

Un’altra poetessa ha dispiegato l’assenza sulla superficie del mondo. Si sta parlando di Amelia Rosselli, poetessa italiana dello scorso secolo, figlia dell’esule antifascista Carlo Rosselli.

Madre inglese, studi compiuti in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Una poesia che si nutre di ritmo e libertà di uso di quella materia che sa malleabile e che è la parola.

Quanti campi che come spugna vorrebbero
arricchire il tuo passato, anche il
tuo presente soffocato.
 
Quante viuzze del tutto pittoresche
che tu vorresti tramutare in significato
 
dell’essenza di questa tua sofferenza.
 
Ma geme nell’essenza della tua sofferenza
un desiderio di sonno e di carne. Oh
 
come i merli tacciono! Hanno confuso
la tua idea della pace con il tramonto
 
che offrì ai tuoi occhi penduli solo
un sofisticato sequestro della tua brama
d’essere solo, e te stesso.

Un desiderio di presenza

Lo spazio vuoto dell’assenza non può essere riempito da paesaggi, bellezza. Questi non fanno che scavare nella mancanza e rendere nuda e visibile la radice prima del soffrire, quel desiderio di una presenza che Rosselli chiama di sonno e di carne.

Tutto tace in confronto al desiderio che freme, investe di sé ogni cosa, vorrebbe colmare il mondo del suo significato e farlo vibrare con lui.

Amelia Rosselli

E mentre tutto tace ed il sole cala, affiora, negli ultimi versi della poesia che sembrano quei pensieri un po’ deliranti degli istanti prima di cadere nel sonno, affiora quietamente la stanchezza di essere se stessi, mancanti.

Colpisce quella parola, “brama”, così dirompente, a stridere con il decadere calmo della poesia nella sua fine: un accento acuto turba il sospiro conclusivo dei versi. Quasi a ricordarci che in tutto questo silenzio di campi e viuzze ancora c’è quel desiderio che non si placa.

 

3. Mario Luzi – Anno

Anche nella poesia di Luzi, Anno, si respira assenza. Mario Luzi è stato un poeta italiano, importante esponente dell’ermetismo fiorentino, che nella raccolta Primizie del deserto, del 1952, arrivò al culmine di quel dialogo incessante con figure immaginifiche e paesaggi che è la sua poesia.

Il cielo è opaco, il grido di gelo. L’altro si configura come qualcosa che ci è recluso. C’è un senso di costrizione e impossibilità di accesso, e perdita, di ciò che pure non si è mai posseduto.

Mario Luzi

Il poeta resta, solo, davanti a questa chiusura, davanti al proprio passato e al proprio futuro, ugualmente estranei, a mutare costantemente pur non potendo essere altri che sé.

Luzi ha la capacità di dire cose terribili ma lasciarti sempre, negli ultimi versi, con un’apertura commossa a qualcosa che non si conosce ma che potrebbe salvare. L’assenza può diventare una soglia presso cui attendere, non si sa bene cosa o chi. Nella luce vuota si può trovare riposo.

Provvidi ora, ma quieti si espongono graticci e vasi,
si appende l’uva. L’altro è ignoto, l’altro
era ed è chiuso in questo cielo opaco
dove un lume vinato si rapprende
e il grido del fringuello è già di gelo.
 
È qui, è in queste opere miti
e chiare che trascorre e brucia
quel che non ho e che pure dovrò perdere.
Tempo passato e prossimo si libra…
Io, come sia, son qui venuto, avanzo
Da tempi inconoscibili, ardo, attendo;
senza fine divengo quel che sono,
trovo riposo in questa luce vuota.

 

4. Edgar Lee Masters – Mabel Osborne

C’è quindi un “altro” che desideriamo ma non possiamo raggiungere. C’è l’importanza della parola, a velare l’assenza, a non farla ineluttabile. Ma quando la parola non viene detta può accadere di appassire, e l’altro può essere chiuso e opaco per distrazione.

Si tratta di parola concreta e concreto appassimento, nella condanna di Mabel Osborne all’indifferenza dei suoi concittadini. Passiamo infatti ad un autore statunitense del secolo scorso, che incontrò grandissima fama grazie alla pubblicazione di una raccolta poetica in cui si immagina di dare voce a chi non l’ha più.

A chi, nel caso di Mabel, non l’ha usata nemmeno quando poteva. Nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, arrivata in Italia grazie alle traduzioni di Fernanda Pivano, si ricostruisce una città tramite gli epitaffi dei suoi morti.

In ciò che lascia scritto Mabel Osborne, gli assenti sono gli abitanti. Erano desiderati, ma non c’erano. E al loro non esserci Mabel si è piegata, senza possibilità di chiedere, come il geranio.

Ci si immagina questa presenza muta desiderante ma pudica, e un paese intero che sa, ma non si è mai curato di sapere fino in fondo, di avvertire il peso reale di quella solitudine che spezza anche la voce.

Edgar Lee Masters

Ora Mabel non c’è più, la pianta rimane assetata, e non si sa se leggere questo componimento come un’accusa, o come un ammonimento, un augurio a non lasciarci morire di sete come lei, senza ribellarci.

Anche se questa seconda opzione ci sembra poco probabile, considerando l’accento che è posto sul “tutti sanno”. Tutti sapevano ed è sua convinzione, di Mabel, che se certo lei non poteva parlare, non ne aveva in realtà bisogno: tutti sapevano. Non c’è rimpianto ma accusa.

I tuoi rossi fiori tra le foglie verdi
van cadendo, o geranio!
Ma tu non chiedi acqua.
Tu non puoi parlare! Non hai bisogno di parlare –
Tutti sanno che tu stai morendo di sete,
eppure non ti danno dell’acqua!
passan oltre, dicendo:
“il geranio ha bisogno d’acqua.”
E io, che avevo felicità da condividere
E volevo condividere la tua:
io che ti amavo, Spoon River,
e anelavo al tuo amore,
ti appassii sotto gli occhi, Spoon River-
assetata, assetata,
resa muta dal pudore dell’anima nel chiedere amore
a te, che sapevi e mi vedevi morire a te innanzi,
come questo geranio che qualcuno piantò su di me,
e lo lascia morire

 

5. T.S. Eliot – La terra desolata

Come assetato è il geranio che non può bere, lo sono anche i protagonisti di uno dei più grandi poemi del Novecento: La terra desolata di Thomas Stearns Eliot (qui nella traduzione di Roberto Sanesi).

Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
Se vi fosse acqua
E niente roccia
Se vi fosse roccia
E anche acqua
E acqua
Una sorgente
Una pozza tra la roccia
Se soltanto vi fosse suono d’acqua
Non la cicala
E l’erba secca che canta
Ma suono d’acqua sopra una roccia
Dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini
Drip drop drip drop drop drop drop
Ma non c’è acqua

Il poema del deserto

Concludiamo con un poema che apre ad assenze vertiginose ed innominabili. Manca la capacità di comunicare, manca una rinascita che dia senso al devasto e al deserto.

Non inoltrandoci all’interno della fitta trama di interpretazioni e significati che si sono tentati di estrarre dal susseguirsi delle immagini di Eliot, ci limitiamo a far notare la natura ossessiva, ridondante di una sezione dell’ultima parte: Ciò che disse il tuono.

I rimandi sono, nei versi poco precedenti, alla Crocifissione. Poi l’immagine di un luogo essiccato.

Thomas Stearns Eliot

Rintocchi stanchi e ripetitivi che ricordano il canto di Cristina Campo. Era infatti, Eliot, un autore a lei carissimo. Qui però non c’è respiro, i versi si fanno sempre più allucinati, non c’è possibilità di richiesta di acqua, dunque di ascolto, solo lamento. La sete soffoca e impedisce il pensiero.

Non si può stare in piedi né seduti, lo stato è intollerabile e i monti estranei, ghignanti. Nell’aridità i protagonisti camminano tra una natura ostile e marcia, e l’acqua, nella sua assenza che inonda la mente, è la rigenerazione che manca, un nuovo accordo con la natura che rifiuta l’umano, una qualsiasi fede.

La mancanza di acqua fiacca l’espressione, parla tramite le onomatopee in cui confluiscono, esausti, i versi, come in un tentativo di soddisfacimento immaginifico. Ci si accontenterebbe anche solo del suono a placare illusoriamente la sete.

 

E voi, quale poesia sull’assenza preferite?

Ecco cinque poesie sull'assenza: vota la tua preferita.

 

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1 COMMENTO

  1. Riporto una bellissima poesia di Guido Gozzano.
    L’ASSENZA

    Un bacio. Ed è lungi. Dispare
    giù in fondo, là dove si perde
    la strada boschiva che pare
    un gran corridoio nel verde.
    Risalgo qui dove dianzi
    vestiva il bell’abito grigio:
    rivedo l’uncino, i romanzi
    ed ogni sottile vestigio….
    Mi piego al balcone. Abbandono
    la gota sopra la ringhiera.
    E non sono triste. Non sono
    più triste. Ritorna stasera.
    E intorno declina l’estate.
    E sopra un geranio vermiglio,
    fremendo le ali caudate
    si libra un enorme Papilio….
    L’azzurro infinito del giorno
    è come una seta ben tesa;
    ma sulla serena distesa
    la luna già pensa al ritorno.
    Lo stagno risplende. Si tace
    la rana. Ma guizza un bagliore
    d’acceso smeraldo, di brace
    azzurra: il martin pescatore….
    E non sono triste. Ma sono
    stupito se guardo il giardino….
    stupito di che? non mi sono
    sentito mai tanto bambino….
    Stupito di che? Delle cose.
    I fiori mi paiono strani;
    ci sono pur sempre le rose,
    ci sono pur sempre i gerani….
    (Da “I colloqui”, 1911)

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