
Non so se ci avete fatto mai caso, ma una delle esperienze più stranianti nel rapporto contemporaneo che si può avere con l’arte è quello di trovarsi davanti, dal vivo, un’opera dopo averla vista riprodotta per anni sui libri, sui manifesti, ovunque.
L’opera d’arte, come aveva intuito Walter Benjamin ottant’anni fa, non solo ha perso la sua sacralità venendo riprodotta infinite volte, ma ha anche perso la sua stessa fisionomia. Il nostro occhio si abitua alle dimensioni che vede raffigurate sui libri, e così pensa che più o meno tutti i quadri siano grandi uguali. Salvo poi accorgersi, quando entra nei musei, che alcuni sono giganteschi ed altri minuscoli. Personalmente, ad esempio, quando ho visitato il MoMA a New York mi sono trovato davanti prima Les demoiselles d’Avignon di Picasso e poi La notte stella di Van Gogh, trovando il primo molto più grande di quanto mi aspettassi e il secondo molto più piccolo.
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Capite anche voi che la dimensione di un quadro è un’informazione non da poco. Un conto è dipingere un cielo stellato in una tela di due metri e un conto è farlo in 70 centimetri. Per questo negli ultimi tempi ho iniziato, quando vedo un quadro riprodotto in stampa, a cercarne le misure e a figurarmelo a grandi linee davanti agli occhi nelle dimensioni effettive, per capirne meglio la portata. Perché diverso è l’effetto che una stessa tela può fare in grande o in piccolo, diversa è la distanza a cui la si può guardare e il livello di dettaglio che si può notare, diverso è il modo in cui colpisce l’occhio.
E questi discorsi sono tanto più veri soprattutto con l’impressionismo, una corrente pittorica che quasi tutte le sue carte se le è giocate proprio nell’impressione che i colori e la luce potevano imprimere sull’occhio dello spettatore. Non a caso, nonostante un buon numero di quadri di dimensioni medie, l’impressionismo è caratterizzato anche da un discreto quantitativo di quadri molti piccoli. Segno che gli artisti hanno amato sperimentare soluzioni nuove e diverse, adattando però di volta in volta la loro tecnica alla tela che si trovavano davanti. Da qui l’idea: perché non dedicare un approfondimento ai quadri impressionisti piccoli per dimensioni ma memorabili per la loro qualità? Ed ecco, quindi, le nostre cinque scelte.
Indice
Impressione. Levar del sole
Il quadro di Monet che ha dato il nome al movimento
E se di impressionismo e quadri piccoli vogliamo parlare, non possiamo non partire da Impressione. Levar del sole, la tela di Claude Monet che è considerata la madre – almeno nel nome – dell’intera corrente artistica. Nel 1874, quando realizzò questo quadro, Monet aveva infatti 34 anni, era passato già attraverso un tentativo di suicidio e aveva compiuto numerosi studi sulla luce, senza riuscire però a cogliere compiutamente l’impressione che voleva lasciare sulla tela. Si era anche sposato e aveva avuto un figlio, e con la famiglia si era stabilito in campagna, ad Argenteuil, in una casa col giardino che si affacciava sulla Senna. Proprio qui sembrò negli anni successivi al 1870 riuscire a trovare gli effetti che tanto cercava.
Il piccolo quadro in questione, 48×63 centimetri, fu dipinto al porto di Le Havre, città dell’infanzia di Monet. Fu inoltre esposto nella prima celebre mostra di pittori impressionisti che fu ospitata nell’atelier del fotografo Nadar a Parigi, dopo che i saloni tradizionali avevano rifiutato di concedere i loro spazi per questo genere di pittura.
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Assieme a quelli di Monet, erano esposti anche quadri di Cézanne, Degas, Morisot, Pissarro, Sisley. Fu però proprio questa piccola tela a catturare l’attenzione del critico Louis Leroy, che scrisse un articolo chiamandoli tutti, con tono spregiativo, impressionisti.
Il titolo fu spiegato tempo dopo dallo stesso Monet: «Il paesaggio non è altro che un’impressione, ed istantanea, e per questo ci si diede quell’etichetta a causa mia. Avevo mandato una mia cosa fatta a Le Havre, dalla mia finestra, col sole in mezzo alla nebbia e qualche albero di nave che si innalzava sullo sfondo… Mi avevano chiesto un titolo per il catalogo e non poteva certo essere preso per una veduta di Le Havre, quindi ho detto: “Metti Impressione“». Il quadro, rubato nel 1985 e recuperato nel 1990, è oggi conservato al Musée Marmottan Monet di Parigi.
La culla
Il tocco femminile di Berthe Morisot
Una delle cose che ci si dimentica più facilmente dell’impressionismo è che fu un movimento artistico in cui ebbero un ruolo molto importante anche le donne. E non tanto – o, meglio, non solo – le donne intese come modelle, ma le pittrici, che fin dall’inizio contribuirono attivamente a delineare i contorni della nuova arte con un tocco decisamente personale. Due donne, in particolare, si distinsero all’interno del movimento, anche per la scelta di temi familiari e borghesi nelle loro tele: da un lato la francese Berthe Morisot e dall’altro l’americana Mary Cassatt, amica di Edgar Degas.
Ma rimaniamo sulla Morisot. Stabilitasi con la famiglia a Parigi ad 11 anni, cominciò a studiare pittura privatamente perché l’accesso alla Scuola di Belle Arti era riservato solo agli uomini. Conobbe così Manet, che la ritrasse in vari quadri, e del quale sposò nel 1874 il fratello Eugène, che sarebbe però morto diciotto anni dopo. Partecipò alla primissima esposizione dell’atelier di Nadar e proprio lì espose il quadro che vedete qui di fianco, La culla, 56 centimetri d’altezza per 46 di larghezza.
[wpzon keywords=”Berthe Morisot” sindex=”Books” sort=”relevancerank” listing=”2″ country=”it” descr=”0″ col=”2″]Dipinto con rapide pennellate alla maniera che aveva appreso da Manet, mostra la sorella della pittrice, Edna Portillon, che veglia il sonno della figlia Blanche. Per quest’opera, che denota anche l’interesse della pittrice per la moda e per l’oggettistica borghese, l’artista ricevette elogi ma anche forti critiche. In quei primi anni gli esperti non ci andavano certo leggeri con gli impressionisti.
Il quadro, il cui prezzo era fissato a 800 franchi, rimase invenduto e fu donato alla piccola Blanche, fino a che non fu acquistato dal Louvre nel 1930. Oggi è esposto al Musée d’Orsay.
Il ponte a Villeneuve-la-Garenne
Il paesaggio secondo Alfred Sisley
Come abbiamo appena visto con la Morisot, l’impressionismo non fu solo una questione di tre o quattro pittori (Manet, Monet, Renoir e Degas). Ci furono moltissimi autori, spesso di buono o ottimo talento, che per molti anni produssero lavori paragonabili a quelli dei quattro grandi ma che già da vivi venivano sovente dimenticati dalla critica. Camille Pissarro, che fu uno di questi, in una lettera della vecchiaia non a caso scriveva: «Io resto, al pari di Sisley, come una sorta di coda, di appendice all’impressionismo».
E proprio di Alfred Sisley è il quadro che presentiamo qui di fianco, Il ponte a Villeneuve-la-Garenne, dipinto anch’esso nel 1872 nei dintorni di Parigi e di misure molto piccole (49,5 centimetri d’altezza per 65,4 di larghezza). Sisley, un inglese nato a Parigi e che si considerò per tutta la vita più un francese che un britannico, aveva cominciato a dipingere giovanissimo. A convincerlo era stato un viaggio a Londra per studiare i principi del mondo degli affari, durante il quale iniziò a frequentare i musei della capitale.
[wpzon keywords=”alfred sisley” sindex=”Books” sort=”relevancerank” listing=”2″ country=”it” descr=”0″ col=”2″]Tornato in Francia, si unì al gruppo di giovani artisti formato da Monet, Renoir e Bazille, iniziando con loro ad interessarsi al paesaggio e ai giochi della luce. Questa rappresentazione di un ponte, un soggetto abbastanza comune nella pittura paesaggistica impressionista, fu effettuata su uno dei due ponti sospesi sulla Senna che allora univano Villeneuve-la-Garenne e Saint-Denis, alla periferia di Parigi. Ponti che dovevano costituire una sorta di raccordo anulare attorno alla città.
Per tutta la carriera Sisley predilesse paesaggi con acqua su cui si rifletteva il cielo, per poter rendere al meglio gli effetti della luce, studiandola anche a ore diverse. Non a caso, anche di questo stesso scorcio effettuò una seconda veduta. Il primo quadro è ora al Metropolitan di New York; l’altro invece è conservato a Cambridge, in Massachusetts.
I papaveri
Una delle passeggiate della moglie e del figlio di Claude Monet
Come abbiamo già detto, poco prima della nascita del movimento Monet decise di abbandonare Parigi e di trasferirsi ad Argenteuil, in cerca da un lato di pace, dall’altro di paesaggi da poter ritrarre en plein air. I papaveri, tela realizzata nel 1873 durante una passeggiata assieme alla moglie e al figlio, appartiene ad una serie di quadri che Monet realizzò in occasioni molto simili. Quadri attraverso cui voleva esprimere il senso del riposo e dello svago che aveva trovato lontano dalla metropoli.
La particolarità, qui, è che la moglie Camille Doncieux e il figlio Jean sono rappresentati due volte, in primo piano in basso ma anche in alto a sinistra, più indietro sulla strada. L’espediente permise a Monet di dividere il quadro tramite una diagonale che tra l’altro separava i papaveri, col loro caratteristico colore rosso, dal resto del paesaggio.
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Anche qui i contorni delle figure e degli stessi fiori non sono ben delineati ma solo accennati. Il colore è sparso a piccole macchie, tanto è vero che, secondo i dettami dell’impressionismo, è il nostro occhio ad interpretare i segni rossi sul campo come papaveri mossi dal vento, segni che in realtà sono solo semplici macchie non definite.
Inoltre, di particolare rilievo sono i vestiti dei due soggetti umani. Mentre in alto Camille ha dei vestiti che vengono quasi assorbiti dallo sfondo degli alberi e Jean, invece, risalta, in primo piano avviene il contrario, col giacchetto di Jean che si fonde con l’erba e il vestito di Camille, pure più chiaro di prima, che “stacca” rispetto al resto. Il quadro misura 50×65 centimetri ed è conservato al Musée d’Orsay di Parigi.
Balletto – La stella
La passione di Edgar Degas per le ballerine
Concludiamo con un’opera che, a rigore, non avrebbe diritto di stare in questa lista perché non si tratta realmente di un quadro. Balletto – La stella di Edgar Degas è infatti un pastello su carta della misura di 58×42 centimetri che venne realizzato nel 1878. La passione di Degas per l’ambiente delle ballerine che si esibivano nei teatri parigini è nota, vista la grande quantità di quadri che dedicò al tema.
Meno noto è che tra tutte le ballerine il suo soggetto preferito era Rosita Mauri. Una danzatrice spagnola che, dopo essersi esibita con successo alla Scala di Milano, dal 1877 fu scritturata dall’Opéra di Parigi. Lì avrebbe incantato con le sue movenze poeti come Mallarmé, artisti come Manet e lo stesso Degas, ma anche il fotografo Nadar e molti altri. Lei era indubbiamente la “stella” della Parigi dell’epoca, città dove rimase anche dopo il ritiro dalle scene, passando ad insegnare fino alla morte (avvenuta nel 1923) alle ballerine che ne volevano raccogliere l’eredità.
[wpzon keywords=”edgar degas” sindex=”Kitchen” sort=”relevancerank” listing=”6″ country=”it” descr=”0″ col=”3″]Con rapidi segni di pastello e con una composizione sapiente dei soggetti nello spazio, Degas – che a differenza dei colleghi non ebbe mai amore per gli spazi aperti e per la natura – riuscì a focalizzare l’attenzione sul soggetto principale. Un soggetto illuminato tra l’altro dal basso, ad esaltarne il corpo e la leggerezza più che il viso. Anche le altre ballerine e l’impresario, che si intravedono sullo sfondo nascosti dalla scenografia, sono solo accenni di colore, messi in ombra dalla “stella”. Il disegno è oggi conservato al Musée d’Orsay.