
Vicino alla filosofia dell’esistenza di Sartre, Albert Camus attraversa due diversi periodi, che si riflettono sulla sua scrittura producendo due diversi cicli: il ciclo dell’assurdo e il ciclo della rivolta. La peste esce nel 1947 e fa parte del secondo ciclo, in cui l’uomo reagisce all’assurdità dell’esistenza opponendo la sua volontà e la sua morale. In una lettera del 1955 a Roland Barthes scrive: «Se c’è un’evoluzione da Lo straniero a La peste, essa si costituisce nel senso della solidarietà».
L’uomo, in questo romanzo, riesce a vincere la solitudine grazie all’azione, alla fratellanza e alla lotta collettiva. Camus scrive questo libro mentre è in corso la seconda guerra mondiale: l’epidemia di peste e l’isolamento a cui sono costretti i cittadini di Orano, infatti, non sono altro che metafore per descrivere la situazione di una Francia divisa in due durante il regime di Vichy.
Indice
1. Il bene e il male
La radice sta, socraticamente, nell’ignoranza
La teoria espressa in queste righe parte da una discussione sulle buone azioni. Esse vengono spesso enormemente messe in evidenza, con la conseguenza che il male assume una dimensione di importanza spropositata.
Se le buone azioni, e gli uomini che ne sono responsabili, appartenessero piuttosto alla categoria della quotidianità, se la bontà non fosse una cosa di cui stupirsi, se un gesto gentile o generoso non fosse proclamato come incredibile, anche il concetto del male si sgonfierebbe.
Il male che è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può fare guai quanto la malvagità, se non è illuminata. Gli uomini sono buoni piuttosto che malvagi, e davvero non si tratta di questo; ma essi più o meno ignorano, ed è quello che si chiama virtù o vizio, il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede di sapere tutto e che allora si autorizza a uccidere. L’anima dell’assassino è cieca, e non esiste vera bontà né perfetto amore senza tutta la chiaroveggenza possibile.
Ciò che si afferma qui è che il male è ignoranza: stupisce, come succede ogni volta che si prende in mano un classico, l’attualità di quest’idea. Un uomo che crede e afferma di sapere tutto è un ignorante. Un uomo che crede e afferma di sapere tutto si sente autorizzato a danneggiare le altre persone, a fare loro del male. Il male è un vizio difficile da togliersi e rende ciechi.
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Meglio morire per un’idea o per amore?
Contro l’eroismo
Il dibattito sull’eroismo è uno dei temi più importanti de La peste. In tutto il romanzo non è mai presente un personaggio grandioso, di quelli che si è abituati a chiamare eroi. Non manca lo spirito di sacrificio, la generosità, la volontà di fare del bene, ma manca la volontà da parte dell’autore di assegnare un ruolo privilegiato agli uomini che lo fanno. Rambert, il giornalista rimasto intrappolato a Orano lontano dalla sua fidanzata, afferma di non credere nell’eroismo e negli uomini che muoiono per un’idea. Preferisce credere che gli uomini possano e debbano sia vivere che morire per amore.
Ecco: lei è capace di morire per un’idea, è visibile a occhio nudo. Ebbene, io ne ho abbastanza delle persone che muoiono per un’idea. Non credo all’eroismo, so che è facile e ho imparato ch’era omicida. Quello che m’interessa è che si viva e che si muoia di quello che si ama.
La sua è una visione del mondo e dell’uomo che sceglie di privilegiare le piccole cose e le emozioni a scapito di ideologie e azioni memorabili.
È uno dei punti di vista più interessanti se si considera che la peste a Orano è la metafora della Seconda guerra mondiale: in un conflitto, bisogna anche considerare che sono gli uomini a morire, non le idee, e ciò che poi manca quando la guerra è finita sono fratelli, amici, parenti e amanti.
3. Dimenticare il futuro
La mancanza di prospettiva
La semplice efficacia della scrittura di Albert Camus si rivela con evidenza in queste poche frasi. La situazione in cui si vengono a trovare i cittadini di Orano li priva di qualsiasi possibilità di immaginarsi un futuro. Tutte le speranze sono azzerate, tutti i sogni non sono che ricordi.
Le giornate si susseguono una dietro l’altra, tutte uguali nell’assurdità della tragedia, in un collage scomposto ma monotono di attimi interminabili, angoscianti, disperati. Un tale ritmo di vita porta gli uomini che sono costretti a viverci dentro a privarsi delle emozioni umane più elementari: la paura, il sospetto e la noia vanno a sostituirsi all’amore e all’amicizia.
In verità, tutto per loro diventava presente; bisogna dirlo, la peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi.
Questi uomini e donne colpiti dalla peste sono isolati non solo dall’esterno, dal mondo sano, ma anche tra di loro. Il non riuscire a pensare al domani, il non essere capaci neanche più di immaginare la fine di queste sofferenza, ha completamente annichilito i sentimenti umani, che giacciono inerti in ricordi confusi.
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4. Dalla parte delle vittime
L’importanza della scelta
Proponendo una visione della vita bipartita, che mette da una parte chi fa del male e dall’altra chi lo subisce, Camus mostra al lettore un’idea molto semplice (per ammissione dello stesso personaggio che pronuncia queste parole, Tarrou), ma proprio per questo così d’effetto.
Dico soltanto che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello.
Ciò che più si deve sottolineare riguardo a questa citazione è il fatto che lo stare dalla parte del flagello piuttosto che da quella della vittima è una scelta personale e consapevole di ogni uomo. Per non essere un flagello, per non essere colui che provoca il male, bisogna esplicitamente rifiutarsi di esserlo.
Il male e il bene sono due alternative di scelta, sono due caratteristiche prettamente umane che divengono, nell’ottica proposta da Camus, i due percorsi in opposizione tra loro che ogni individuo sceglie di percorrere nell’arco della propria vita.
5. Un romanzo sulla guerra
Negare quello che era successo
Questo passo è vicino alla conclusione del romanzo e posteriore alla liberazione di Orano dalla peste.
È forse uno dei momenti in cui ci si dimentica più facilmente che il narratore sta parlando di un’epidemia, perché il pensiero va subito a ciò che l’autore desiderava davvero raccontarci, ossia gli orrori della guerra.
In questa citazione si vede la volontà da parte di chi ha vissuto la guerra di dimenticare il prima possibile, negando di essere stato testimone di atrocità e disgrazie.
Negavano tranquillamente, contro ogni evidenza, che noi avessimo mai conosciuto un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana al pari di quella delle mosche, negavano quella barbarie ben definita, quel calcolato delirio, quell’imprigionamento che portava con sé una terribile libertà nei riguardi di tutto quanto non fosse il presente, quell’odore di morte che instupidiva tutti quelli che non uccideva, negavano insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una parte, stipata nella bocca d’un forno, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo turno.
Quando Camus parla di una “barbarie ben definita” o di un “calcolato delirio” è difficile non pensare ai piani di sterminio messi in moto dai tedeschi, così come è immediato il collegamento tra i forni citati nel romanzo, che servivano a bruciare le vittime della peste, con i forni presenti nei campi di concentramento.
Se in altre parti de La peste i riferimenti alla guerra erano più sottili, se pur sempre chiari, qui le intenzioni dell’autore, i suoi sentimenti, sono alla fine messi a nudo.
E voi, quale citazione da La peste preferite?