Cinque storiche e bellissime copertine del New Yorker

La copertina del New Yorker di fine 2001 in cui si ribattezzano i vari quartieri della città

Ho sempre avuto una certa passione per le edicole. Fin da ragazzino, le frequentavo in cerca di fumetti e riviste, imparando a riconoscere le testate, a identificare le case editrici, a seguire i percorsi delle varie firme che passavano dall’una all’altra. Mi piaceva rovistare, capire la logica – che non sempre c’era – con cui gli edicolanti affastellavano certe testate da una parte e certe altre da un’altra, perché alcune erano in bella vista ed altre parevano il punto d’arrivo di una tortuosa caccia al tesoro.

Le riviste che resistono grazie al loro prestigio

Oggi tutto questo un po’ s’è perso. Le tirature non sono più quelle di una volta, e neppure la varietà delle testate è comparabile. La TV, internet, i tablet hanno creato o rafforzato forme di circolazione degli articoli diverse, con aggiornamenti quotidiani e più facilmente accessibili, senza bisogno neppure di scendere in strada.

Eppure ci sono riviste talmente prestigiose che non muoiono né sentono un particolare bisogno di rinnovarsi, grazie alla stima che hanno acquisito negli anni. Sono quelle riviste che, seppure disponibili in digitale, cerco sempre di accaparrarmi quando vado all’estero, quasi un souvenir del paese visitato molto più importante del soprammobile o della cartolina.

Una di queste riviste di culto è – per me ma non solo per me – il New Yorker, il celebre settimanale newyorkese fondato nel 1925 da Harold Ross e Jane Grant.

Una rivista poco accattivante, piena di testo in un’epoca in cui si privilegia sempre di più l’immagine, snob in una fase in cui trionfa il pop, intellettuale e riflessiva in un momento in cui trionfa la trovata istantanea e la battuta di spirito. Una rivista che però, nonostante – o forse grazie a – tutto questo, è conosciuta e stimata quasi ad ogni latitudine.


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E tra tanti elementi degni di nota, in particolare, non si possono non citare le celebri copertine del settimanale edito da Condé Nast. Si tratta di pagine da sempre affidate ai più grandi illustratori del pianeta, sagaci e pungenti, a volte vere e proprie opere d’arte.

Non è un caso che sia fiorente pure il mercato delle ristampe delle sole copertine da appendere in salotto. Ripercorriamo, dunque, la storia di cinque importanti e bellissime copertine del New Yorker dagli anni ’60 ad oggi.

 

1. San Valentino al computer

Copertina del New Yorker dell’11/2/1961 di Charles Addams

Tutti conoscete bene la Famiglia Addams, la strampalata congrega di personaggi dark resa nota da varie serie TV e pellicole cinematografiche. Pochi sanno però che tali personaggi furono creati negli anni ’30 proprio sulle pagine del New Yorker ad opera di uno dei suoi cartoonist più bravi, Charles “Chas” Addams.

Nato nel New Jersey nel 1912, Addams esordì poco più che ventenne come “ritoccatore” di immagini di cadaveri per riviste scandalistiche (in pratica, cancellava il sangue, ritenuto troppo macabro). Divenne un collaboratore fisso del New Yorker a partire dal 1938, e subito cominciò a pubblicare le strisce – caratterizzate da un forte humour nero – dei suoi personaggi.

Copertina per San Valentino del New Yorker firmata da Charles Addams

Ma il senso del macabro lo accompagnò per tutta la vita. Le cronache ci raccontano che Morticia Addams fosse modellata sulla sua prima moglie, Barbara Jean Day.

Dalla seconda moglie, Barbara Barb, divorziò dopo appena due anni, insospettito dal fatto che gli volesse far stipulare una esagerata assicurazione sulla vita secondo un meccanismo che ricordava a lui e al suo avvocato troppo da vicino la trama de La fiamma del peccato. Le nozze con l’ultima moglie, Marilyn Matthews Miller, furono addirittura celebrate in un cimitero di animali.

In anticipo sui tempi

Alla rivista contribuì con le sue vignette ma anche con storiche e dissacranti copertine. Come quella che abbiamo scelto per aprire la nostra cinquina e che vedete qui di fianco, uscita l’11 febbraio 1961. Si tratta di una cover a tema sulla festa di San Valentino, secondo un’usanza che la rivista cerca di seguire ogni anno. Un’usanza che nel tempo ha visto cimentarsi anche altri grandi cartoonist del magazine come Helen E. Hokinson e Art Spiegelman.

A noi è piaciuta, oltre che per la comicità della scena, anche perché ci permette di ricordare cos’erano i computer cinquant’anni fa. Inoltre, richiama involontariamente una pellicola cinematografica che ha fatto molto parlare di sé in queste ultime settimane, ossia Lei di Spike Jonze.

 

2. View of the World from 9th Avenue

Copertina del New Yorker del 29/3/1976 di Saul Steinberg

Per quanto sia una rivista di informazione, critica letteraria e stile, il New Yorker è sempre stato contraddistinto da uno sguardo divertito sul mondo. Al suo interno gli articoli anche più seriosi sono intervallati da vignette sagaci, a volte di satira politica, altre volte di costume.

Anche le copertine – come abbiamo già avuto modo di intuire – non lesinano provocazioni e ironie. La più celebre e citata in assoluto è, infatti, quella che vi proponiamo qui di fianco, uscita il 29 marzo 1976 e disegnata da Saul Steinberg, seguendo un’idea allora inedita ma che oggi – ahimè – vediamo rielaborata praticamente ogni giorno sui social network.

Il Mondo visto dalla nona strada, famosa copertina del New Yorker firmata da Saul Steinberg

La copertina, infatti, mostra il mondo visto da un newyorkese. Si vedono, rappresentate nel dettaglio, la nona e la decima strada, e poi il fiume Hudson, oltre il quale comincia un mondo indefinito.

Ecco quindi il Jersey, il resto degli Stati Uniti (un deserto con qualche roccia, con sopra il Canada e sotto il Messico). E poi un Oceano Pacifico poco più largo dell’Hudson. E infine Giappone, Cina e Russia, mentre dell’Europa non vi è neppure l’ombra.

Il Manhattan-centrismo

Da un lato, insomma, si ironizzava sulla proverbiale ignoranza della geografia da parte degli americani, dall’altro su quello che potremmo definire il Manhattan-centrismo, cioè sull’idea che New York fosse l’unico vero centro del mondo e tutto il resto periferia. La copertina ebbe un enorme successo, tanto che è stata giudicata anche la quarta cover più bella della storia dell’editoria seriale americana dall’Associazione Americana degli Editori di Riviste.

Saul Steinberg, l’autore, era nato nel 1914 in Romania, paese dal quale era fuggito nel 1933. Dopo sette anni passati a Milano – dove si laureò in architettura e pubblicò vignette pure sul Bertoldo – dovette rifugiarsi, ebreo, in America a causa delle leggi razziali varate da Mussolini.

Iniziò subito a collaborare col New Yorker, producendo soprattutto vignette mute (a fine carriera se ne conteranno più di seicento) e copertine. Dopo la guerra ritornò spesso in Italia e vi visse anche per alcuni anni. È scomparso a New York nel 1999.

 

3. Black on Black

Copertina del New Yorker del 24/9/2001 di Art Spiegelman e Françoise Mouly

Quello di Art Spiegelman è probabilmente il nome in Italia più noto tra quelli dei collaboratori del New Yorker.

Classe 1948, nato a Stoccolma da sopravvissuti dei campi di sterminio ma presto trasferitosi negli Stati Uniti, è stato per anni il principale illustratore della celebre rivista. Ma è noto anche come l’autore di Maus, un resoconto dell’esperienza dei suoi genitori ad Auschwitz che è stato premiato anche col Pulitzer.

La copertina post-11 settembre firmata da Art Spiegelman e Françoise Mouly

Lui e la moglie Françoise Mouly sono stati prima alla guida della rivista Raw per undici anni. Poi sono divenuti due colonne portanti del New Yorker, lei come art director (e responsabile proprio delle copertine), lui come illustratore.

Come nacque la cover

Tra le tante cover realizzate, la più significativa è forse quella post-11 settembre, così descritta dalla Mouly nel 2011: «Dieci anni fa, mio marito, il cartoonist Art Spiegelman, nostra figlia ed io eravamo a quattro isolati della seconda torre, e l’abbiamo vista collassare in un’atroce scena al rallentatore.

Più tardi, tornata nel mio ufficio, ho sentito che le immagini erano improvvisamente prive della capacità di farci capire cosa era successo. L’unica soluzione appropriata [per la copertina del nuovo numero del New Yorker] sembrava fosse non pubblicare alcuna immagine di copertina; una copertina tutta nera».

«Allora Art – continuava la Mouly – ha suggerito di aggiungere il profilo delle due torri, nero su nero. Così da nessuna copertina si arrivò a un’immagine perfetta, che trasmetteva qualcosa sull’insopportabile perdita della vita, l’improvvisa assenza nel nostro skyline, la brusca lacrima nella fabbrica della realtà». La copertina fu una delle più significative di quel periodo, capace di catturare il senso di lutto e di mancanza come poche altre.

 

4. New Yorkistan

Copertina del New Yorker del 20/12/2001 di Maira Kalman e Rick Meyerowitz

Il 2001 non fu certo un anno facile per gli Stati Uniti. L’11 settembre provocò una ferita pesante prima di tutto allo spirito, ma poi anche al senso di sicurezza e all’economia del paese. Per mesi, se non addirittura per anni, il contraccolpo fu fortissimo. E anzi tutte le scelte del governo furono per un certo periodo da lì in poi condizionate da quell’attacco terroristico.

Ovviamente, nei giorni immediatamente successivi al crollo delle torri nessuno aveva voglia di scherzare, di far battute. Dominavano il lutto, il rammarico, il rispettoso silenzio. Poi, come sempre accade nei fatti della vita, si è ricominciato a tornare alla normalità e i comici hanno ripreso a far battute.

New Yorkistan in una delle più celebri copertine del New Yorker

Uno degli elementi che più di tutti riaprirono, con sagacia e discrezione, la stagione dell’ironia fu secondo molti la copertina che il New Yorker pubblicò il 20 dicembre del 2001, firmata da Maira Kalman per l’idea e Rick Meyerowitz per la realizzazione grafica.


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Intitolata New Yorkistan, rappresentava i distretti di New York ribattezzando ogni zona con un nome tratto dall’etnia o dai costumi degli abitanti.

I nomi venivano poi adattati tramite un miscuglio di inglese, yiddish e persiano, in modo da farli sembrare mediorientali o comunque tipici delle repubbliche ex sovietiche. Abbiamo così la Botoxia, terra del botulino. Il Chadorstore, cioè Jersey City, dov’è forte la comunità islamica che porta appunto il chador.

Dal Village al Bronx

E poi ancora, il Gaymenistan e il Lesbikhs, zone del Village a maggioranza omosessuale. L’Hiphopabad, terra dell’hip hop in un quartiere a maggioranza afroamericana. Il Lowrentistan, dove gli affitti sono bassi (ed è proprio la zona del World Trade Center). Il Notsobad, la zona meno pericolosa del Bronx. Il Taxistan. E così via.

Il successo della copertina fu clamoroso e segnò, appunto, la voglia di tornare a ridere anche del multiculturalismo newyorkese. Sia la Kalman che Meyerowitz sono due illustratori di origini ebraiche che da anni collaborano col New Yorker.

 

5. Libri in metropolitana

Copertina del New Yorker dell’8/11/2004 di Adrian Tomine

La copertina con cui abbiamo scelto di concludere non è importante o significativa come le ultime che vi abbiamo elencato, né è firmata da una leggenda dell’illustrazione come Charles Addams.

Però è una copertina a nostro modo di vedere meravigliosa, che riesce a cogliere tra l’altro con semplicità ed efficacia il lato poetico che da sempre il New Yorker affianca a quello ironico di cui abbiamo già avuto ampiamente modo di parlare.

La copertina di Adrian Tomine per il New Yorker dell'8 novembre 2004

Pubblicata nel novembre del 2004 ad accompagnare un numero dedicato ai libri, è stata disegnata dal giovane (allora aveva 30 anni) illustratore californiano di lontane origini giapponesi Adrian Tomine.

Un disegnatore che è anche autore di una serie a fumetti, l’indipendente Optic Nerve, pubblicata da Drawn and Quarterly con cadenza irregolare. E che mostra un tratto che ricorda in parte quello di un altro grande copertinista del New Yorker e fumettista a sua volta, Daniel Clowes.

Un incarico arrivato un anno prima della pubblicazione

La nascita di questa illustrazione è stata raccontata dallo stesso Tomine sul blog del suo editore inglese Faber & Faber. Lì ha spiegato che quella sua prima e più celebre copertina gli fu richiesta da Françoise Mouly addirittura un anno prima che si decidesse ad accettare l’incarico.

Proprio alla Mouly Tomine ha attribuito da un lato il merito di averlo quasi costretto a mettersi al lavoro e dall’altro l’idea di far sì che i due ragazzi che incrociano gli sguardi in metropolitana stiano in realtà leggendo lo stesso libro. Tomine ha poi illustrato diverse altre copertine del New Yorker, tra l’altro recentemente raccolte pure in volume.

 

E voi, quale copertina del New Yorker preferite?

Ecco cinque memorabili copertine del New Yorker: vota la tua preferita.

 

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