Cinque storici aneddoti sul calcio

Alla scoperta dei più interessanti aneddoti sul calcio tratti dalla storia di questo sport

Ecco i cinque aneddoti sul calcio secondo noi più significativi: vota il tuo preferito e poi leggi l'articolo per scoprirne le storie.

 
Lo sport non è fatto solo di partite, azioni, vittorie e sconfitte. È fatto anche dei racconti che tramandano quelle gesta, di aneddoti, di ricordi. È questo che in un certo senso lo rende magico e lo lega incredibilmente alle nostre vite, che ce lo rende un’attività familiare. Perché attraverso le vite dei nostri campioni preferiti, attraverso le loro storie nascoste impariamo a dare maggior densità alle loro imprese e a farle nostre.

Così è anche per il calcio, lo sport che qui in Italia smuove in un senso o nell’altro gli animi e le menti. Uno sport che ha una storia ormai lunghissima, che tocca momenti molti diversi della nostra epoca recente e della nostra geografia. Abbiamo pertanto scelto cinque storie particolarmente significative, cinque aneddoti che hanno fatto la storia del calcio. Ve li raccontiamo con lo scopo di rinfrescarvi la memoria o quantomeno di tramandare ai più giovani i ricordi che un tempo erano dei nostri nonni.

 

Il torneo olimpico peggio organizzato della storia

L’abbandono della Cecoslovacchia nella finale del 1920

Partiamo da lontano, dal 1920. L’Europa era appena uscita dalla Prima guerra mondiale, che si era conclusa nel 1918. Il fantasma di quel conflitto, però, non era ancora stato lasciato alle spalle. I trattati di pace erano stati lunghi e laboriosi e avevano suscitato vivaci proteste. In Italia, ad esempio, ci si lamentava della “vittoria mutilata”, cioè del fatto che al nostro Stato non fossero stati assegnati tutti i territori che ci erano stati promessi col Patto di Londra. Ma anche in altre nazioni il malcontento era alle stelle.

Uno dei temi caldi era quello della punizione da infliggere agli imperi centrali. Gran Bretagna e soprattutto Francia, infatti, volevano che Germania e Austria pagassero duramente la scelta di dare il via alla guerra. Nonostante la contrarietà degli Stati Uniti, i trattati finirono infatti per essere particolarmente punitivi nei confronti di queste due potenze. L’Austria perse l’impero e si vide frammentata in una serie di stati in parte nazionali e in parte un po’ posticci. La Germania fu umiliata in un modo tale che non sarebbe divenuto difficile per i nazisti cavalcare lo spirito di rivalsa.

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Tutto questo avvenne a livello politico, ma quell’onda toccò anche il calcio. Nel 1920, infatti, si svolse la settima edizione delle Olimpiadi. Paese ospitante era quel Belgio che durante la Grande guerra era stato martoriato dal conflitto, oltre che attaccato ingiustamente, vista la sua neutralità. E proprio nell’ottica di una Olimpiade che chiudeva la guerra, furono escluse dalla manifestazione le potenze sconfitte. Non poterono così partecipare ai giochi Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia.

Le nazioni responsabili della guerra

Il problema era che l’Impero Austro-Ungarico non era formato solo da Austria e Ungheria. Prima del 1918 vi facevano parte anche territori boemi, slovacchi, croati, sloveni, perfino italiani. La domanda quindi era: nazioni neonate come la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, formatesi in parte o in toto sulle ceneri di quell’Impero, dovevano prendere parte alle Olimpiadi? Alla fine si decise di sì, ma non senza polemiche. Anche perché la Cecoslovacchia – una delle nazionali in questione – riuscì ad arrivare fino alla finale del torneo di calcio.

La gara per l’oro fu a suo modo epica, anche se in senso negativo. Purtroppo è difficile darne una versione storicamente affidabile, perché le cronache del tempo sono spesso contraddistinte da una certa faziosità. Ad ogni modo, nella gara si confrontarono il Belgio padrone di casa e, appunto, la Cecoslovacchia, nazionale neonata ma già molto agguerrita. Ad arbitrare c’era un anziano signore inglese, tale John Lewis, che ovviamente arbitrava nel modo in cui era abituato in patria. Cioè lasciando parecchio correre sui contrasti.


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Al 6′ minuto del primo tempo si verificò subito il primo fattaccio. Nel clima infuocato di uno stadio decisamente casalingo, il portiere cecoslovacco che aveva già catturato il pallone con le mani subì una carica da parte di un avversario. Cadendo, perse il pallone. Un suo difensore, convinto che l’arbitro avrebbe fischiato il fallo, prese il pallone con le mani. Lewis in effetti fischiò, ma non la carica sul portiere: visto l’uso delle mani, assegnò invece un calcio di rigore al Belgio, che si portò in vantaggio.

Attorno al 39′, dopo che il Belgio aveva nel frattempo anche raddoppiato (probabilmente in fuorigioco), si verificò un altro fallo. Steiner, difensore cecoslovacco, fermò in maniera brusca un attaccante avversario lanciato verso la rete. Questa volta Lewis sembrò non applicare il suo solito metodo permissivo e fischiò il fallo, espellendo il terzino ospite. Tutta la squadra cecoslovacca, che si sentiva ingiustamente perseguitata dall’arbitro e dal pubblico, subissò il direttore di gara di proteste, proteste che sfociarono in un momentaneo abbandono del campo.

L’invasione di campo dei tifosi belgi

Non ci fu il tempo per placare gli animi e convincere i cecoslovacchi a terminare l’incontro. Appena la squadra fece cenno di uscire assieme all’espulso Steiner, il pubblico belga, che già stipava lo stadio, invase il campo per sollevare in trionfo i propri beniamini. Non solo il Belgio fu proclamato vincitore per abbandono dell’avversario, ma alla Cecoslovacchia non venne neppure data la medaglia d’argento. Anzi, si organizzò un altro minitorneo tra le sconfitte delle semifinali e dei quarti per assegnare le altre due medaglie.

Di stranezze, in quelle Olimpiadi, ce ne furono però parecchie. Ad esempio durante una interminabile partita di tennis (tra l’americano Lowe e il greco Zerlentis) i raccattapalle si ammutinarono, visto che avevano troppa fame. Oppure va ricordata la nostra squadra di pallanuoto, che non completò la partita d’esordio perché riteneva l’acqua della piscina troppo fredda.

L’elemento più bello e memorabile delle Olimpiadi di Anversa, però, fu il momento in cui il nostro marciatore Ugo Frigerio, vincitore nei 3 e nei 10 chilometri, ricevette l’oro al cospetto di re Alberto del Belgio. La banda che doveva intonare l’inno – che all’epoca era ancora la Marcia Reale – aveva infatti perso lo spartito. Allora il direttore decise di far suonare l’unica canzone italiana che tutti i musicisti conoscevano a memoria. Fu così che Ugo Frigerio fu premiato sulle note di ‘O sole mio, peraltro intonato pure dal pubblico.

 

La nascita della Zona Cesarini

Il giocatore argentino che è riuscito a dare il nome al finale di partita

Un’altra delle storie più belle degli albori del calcio è quella che riguarda Renato Cesarini. Nato probabilmente a Senigallia ed emigrato con la famiglia in Argentina quando aveva ancora pochi mesi, Cesarini divenne noto al pubblico italiano nel 1930, quando la Juventus lo fece esordire in Serie A dopo averlo acquistato dal Chacarita Juniors. Era un centrocampista avanzato dalla buona tecnica, ma di cui si ricordano anche lo stile di vita sfarzoso e le bravate.

Le leggende su di lui sono molte, e probabilmente vere. Si dice che si cambiasse la camicia tre volte al giorno in un’epoca in cui la camicia era un lusso. Si dice che arrivasse agli allenamenti in taxi, in ritardo, e scendesse dalla vettura con indosso lo smoking. Si dice anche che avesse imparato l’italiano dalle prostitute. Quello che è sicuro, però, è che in campo ci scendeva e che spesso segnava. Dal 1930, la sua Juventus infatti mise le mani sul campionato e per cinque stagioni consecutive conquistò lo scudetto.

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Nel gennaio 1931 Renato Cesarini esordì anche in Nazionale, chiamato da Vittorio Pozzo. Segnò subito un gol nella prima partita, ma poi nelle successive non brillò. L’allenatore che avrebbe portato gli Azzurri a vincere due volte il Mondiale infatti non sopportava la sua indisciplina, anche se Cesarini era di sicuro un giocatore di grande talento. Il 13 dicembre 1931 indossò ancora l’azzurro, all’interno di uno dei più prestigiosi tornei dell’epoca, la Coppa Internazionale.

Il gol contro l’Ungheria

A Torino la Nazionale infatti ospitava i forti ungheresi. La gara si dimostrò equilibrata e si avviava verso il 2-2 finale. Almeno fino a quando, al 90′, Cesarini non riuscì a infilare il gol del 3-2 finale. Visto che un’impresa del genere gli era già riuscita un paio di altre volte in campionato, i giornalisti cominciarono a parlare di “Zona Cesarini”. Un’espressione che si usa anche oggi, pure al di fuori dell’ambito calcistico, quando una situazione difficile trova una soluzione in extremis.

Tra l’altro bisogna tener presente che all’epoca segnare al 90′ era molto meno facile di oggi. Fino alla metà degli anni ’60, infatti, non erano ammesse sostituzioni sul campo di gioco. Gli 11 che cominciavano la partita erano anche gli 11 che la finivano. Se qualcuno si infortunava, si finiva la gara in inferiorità numerica. Questo di sicuro favoriva il gioco duro (se “ammaccavi” un avversario senza farti espellere, potevi giocare con l’uomo in più) ma rendeva anche più difficile segnare nei finali di partita, quando la stanchezza si accumulava. Ma per Cesarini questo non era un problema.

Renato Cesarini negli anni '30

 

«Clamoroso al Cibali!»

L’origine di una delle espressioni più usate dai telecronisti

Rimaniamo nell’ambito delle espressioni amate dai cronisti e che spesso sono entrate nel nostro linguaggio comune. Oltre a “Zona Cesarini”, un’altra frase che ha avuto una grande fortuna in Italia è stato il «Clamoroso al Cibali!» pronunciato da Sandro Ciotti il 4 giugno 1961. Ricostruiamone la storia.

Il Cibali, come saprete, è lo stadio di Catania che in realtà oggi è intitolato ad Angelo Massimino, ma che continua spesso ad essere chiamato col suo vecchio nome. Nel 1961 la squadra siciliana militava in Serie A e stava disputando un ottimo campionato. Chiuse infatti all’ottavo posto, ma nel girone d’andata era stata anche nelle parti alte della classifica.

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Proprio il girone d’andata s’era chiuso con gli etnei che avevano fatto visita all’Inter a Milano. I nerazzurri avevano grandi ambizioni, anche perché sulla panchina era appena arrivato Helenio Herrera, che bene aveva fatto in Spagna. Infatti, in quella gara di fine gennaio i nerazzurri strapazzarono i catanesi, vincendo 5-0 con ben 4 autoreti degli ospiti. Herrera, che già manifestava un carattere schietto, dichiarò che la sua squadra aveva giocato contro un team “di postelegrafiisti”. Un’espressione un po’ datata, che oggi sostituiremmo con “postini” o al limite “dopolavoristi”.

I catanesi non la presero bene. E quando, all’ultima giornata di campionato, l’Inter restituì la visita, fecero di tutto per farla pagare all’allenatore argentino e alla sua squadra. Anche perché quella partita era importantissima pure per le sorti del campionato. Inter e Juve si trovavano, ai primi di giugno, in testa a pari punti, anche se c’era ancora una questione aperta. Nello scontro diretto giocato a Torino nell’aprile precedente, infatti, la gara era stata sospesa per invasione di campo e la vittoria era stata data a tavolino all’Inter. Ma la Juve aspettava l’esito del ricorso.

Il giudizio della Commissione d’Appello

Il giudizio della Commissione d’Appello Federale venne emesso il 3 giugno, pochi giorni prima dell’ultima di campionato. E ordinò la ripetizione dell’incontro di Torino, di fatto mettendo l’Inter a -2 dalla Juventus. Fioccarono le polemiche, perché l’allora presidente bianconero Umberto Agnelli era anche capo della FIGC e quindi c’era un certo conflitto d’interessi. Niente, comunque, era ancora perduto. Nell’ultima di campionato, infatti, la Juventus pareggiò in casa col Bari e all’Inter sarebbe bastata una vittoria per riportarsi a -1 prima dello scontro diretto.

Quella vittoria però non arrivò. A Catania i nerazzurri vennero letteralmente demoliti dalla squadra dei “postelegrafisti”, che infilarono due volte la porta di Mario Da Pozzo. La Juve scappò così a +3, diventando irraggiungibile. Nella ripetizione dello scontro diretto, per protesta, il presidente Angelo Moratti fece così scendere in campo la Primavera, che venne sconfitta 9-1. Ma l’espressione con cui – alla seguitissima trasmissione radiofonica Tutto il calcio minuto per minuto – Sandro Ciotti annunciava il crollo dell’Inter entrò nell’immaginario collettivo.

 

La punizione al contrario dello Zaire

Il gesto più famoso dei Mondiali 1974

Dopo due storie italiane e nostrane, ritorniamo su una dimensione più internazionale. E cominciamo ad avvicinarci anche ai giorni nostri, ai momenti in cui è più facile trovare reperti video delle imprese che hanno dato origine agli aneddoti di cui parliamo. In particolare, abbiamo scelto di raccontarvi quello che – durante il Mondiale 1974 – ebbe per protagonisti i giocatori dello Zaire.

Se non sapete dove si trovi questo paese, non dovete disperare. Per una volta, non sono le vostre conoscenze ad essere difettose. Quello fu infatti un nome piuttosto effimero, che fu dato alla Repubblica Democratica del Congo dal 1971 al 1997. Nei Mondiali del 1974, disputati in Germania Ovest, infatti lo Zaire si presentò per la prima e unica volta.

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La squadra era ignota ai giornalisti e agli osservatori europei, ma aveva raccolto ottimi risultati nel proprio continente. Non a caso, in quell’estate del 1974 era anche campionessa africana in carica, bissando un successo già ottenuto nel 1968. Quei buoni risultati erano anche il frutto degli investimenti che il dittatore al governo del paese, Mobutu Sese Soko, aveva fatto in ambito sportivo. Investimenti che nei mesi successivi avrebbero portato a Kinshasa anche Muhammad Ali e George Foreman per uno dei più famosi incontri della storia del pugilato.

La tremenda sconfitta contro la Jugoslavia

La squadra congolese, però, non era all’altezza di quelle europee e sudamericane. Inserita in un girone di ferro, perse all’esordio per 2-0 contro la Scozia ma soprattutto venne umiliata nella seconda gara, prendendo 9 gol dalla Jugoslavia. Il terzo e ultimo match del loro mondiale gli zairesi lo disputarono col Brasile, in un’atmosfera non certo piacevole. Il presidente Soko, infatti, aveva fatto sapere ai giocatori che in caso di sconfitta troppo pesante li avrebbe messi in prigione.

Fu forse anche per questo che durante la gara alcuni giocatori africani manifestarono un inatteso nervosismo. Uno, in particolare, entrò nella storia. Ad un certo punto, infatti, l’arbitro Rainea assegnò un calcio di punizione al Brasile. Del tiro si incaricò l’asso verdeoro Rivelino, già campione del mondo quattro anni prima. Il brasiliano era dotato di un tiro particolarmente potente, che già in Messico gli era valso il soprannome di “patada atomica”. Ovvio, quindi, che nella barriera dello Zaire ci fosse una certa preoccupazione.


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L’arbitro rumeno fischiò, ma Rivelino aspettò qualche decimo di secondo prima di far partire la sua rincorsa. Gli fu in un certo senso fatale. Dalla barriera infatti si staccò d’improvviso un difensore zairese, Ilunga Mwepu, che corse verso il pallone e gli diede un poderoso calcio, spedendolo nella metà campo avversaria. Tra il pubblico e anche tra i giocatori si diffuse immediatamente un misto di incredulità e risate. Ma davvero gli zairesi non conoscevano le regole del calcio di punizione?

Forse, come detto, la tensione per le minacce subite giocò un brutto scherzo a Mwepu e ai suoi compagni. Ma il suo gesto è rimasto epico e ha aiutato a consegnare alla memoria una Nazionale che altrimenti, con 14 gol subiti in tre partite, sarebbe stata presto dimenticata.

 

Il cucchiaio di Panenka

L’origine del calcio di rigore “alla Totti”

Ritorniamo a parlare della Cecoslovacchia. Dopo la finale olimpica del 1920, persa in quel modo, la Nazionale del paese mitteleuropeo ebbe altre occasioni per trionfare, ma le fallì tutte. Nel 1934 perse infatti la finale della Coppa del Mondo con la nostra Italia, mentre nel 1962 in Cile fu sconfitta sempre in finale dal Brasile. Aveva vinto una Coppa Internazionale nel 1960, ma mancava quindi un successo nei tornei più prestigiosi.

Tale successo arrivò, a sorpresa, nel 1976. In quell’anno si disputò in Jugoslavia la fase finale degli Europei, che a quel tempo si limitavano alle semifinali e alla finale. Le quattro squadre ammesse si qualificavano tramite gironi eliminatori e una gara – i quarti di finale – giocati in due turni di andata e ritorno.

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A Zagabria e Belgrado si presentarono quindi quattro rappresentative, pronte a giocarsi il titolo. C’erano i padroni di casa jugoslavi, piuttosto agguerriti. C’era la Germania Ovest campione del mondo in carica, con giocatori come Berti Vogts, Franz Beckenbauer e Uli Hoeness. C’era l’Olanda vicecampione del mondo, la Nazionale del calcio totale, con Ruud Krol, Johan Neeskens, Johnny Rep, Rob Rensenbrink e soprattutto Johan Cruijff. E poi, a completare il quartetto, c’era la Cecoslovacchia, quella che tutti davano per spacciata.

La semifinale contro l’Olanda di Cruijff

Nella semifinale con l’Olanda, però, proprio i boemi fecero registrare la prima sorpresa. Il capitano Anton Ondruš firmò il vantaggio cecoslovacco nel primo tempo, ma nel secondo, complice l’espulsione di Jaroslav Pollák, lo stesso Ondruš si macchiò di un autogol che riportò in parità la gara. Complici due espulsioni olandesi, però, i cecoslovacchi riuscirono a vincere l’incontro nei tempi supplementari per 3-1.

In finale trovarono la Germania Ovest, con il nostro arbitro Gonella a dirigere l’incontro. La Cecoslovacchia riuscì a portarsi addirittura sul 2-0, ma a 10 minuti dal termine fu raggiunta sul 2-2. I supplementari si conclusero con un nulla di fatto e si arrivò così ai rigori. I cecoslovacchi misero a segno i primi quattro tiri, mentre la Germania realizzò i primi tre. Il quarto fu invece sbagliato da Hoeness. Questo dava al quinto rigorista cecoslovacco il match point: se avesse segnato avrebbe dato il primo titolo internazionale alla sua rappresentativa.


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Sul dischetto si presentò Antonín Panenka, centrocampista del Bohemians Praga, la quarta squadra per importanza della capitale. Panenka in patria non aveva vinto alcun titolo, perché lo scudetto era appannaggio di altri team più importanti, ma era un calciatore di razza. E, soprattutto, molto freddo. Per questo era stato scelto per tirare il rigore eventualmente decisivo.

Di fronte aveva Sepp Maier, portiere del Bayern Monaco che nel suo palmares invece vantava una lunga lista di titoli. Campione d’Europa e del Mondo in carica con la Nazionale, aveva anche conquistato 4 scudetti, 1 Coppa delle Coppe e 3 Coppe dei Campioni con la sua squadra di club. L’ultima delle quali arrivata appena un mese prima della sfida con la Cecoslovacchia.

Sepp Maier beffato

Panenka non si fece però intimorire dalla caratura dell’avversario. E decise di giocare d’astuzia. Invece di angolare il tiro, scelse di effettuarlo “a cucchiaio”, confidando nel fatto che Maier si sarebbe comunque tuffato. Così in effetti avvenne e la Cecoslovacchia poté conquistare il suo primo titolo, divenendo campione d’Europa.

Non è un caso che il rigore che noi in Italia chiamiamo “a cucchiaio”, nel resto del mondo sia noto come rigore “alla Panenka”. Tutti i grandi campioni che nel corso degli anni l’hanno eseguito – da Totti (agli Europei del 2000) a Pirlo, da Zidane a Neymar – non sono riusciti infatti a togliere al giocatore ceco l’onore di dargli il suo nome.

 

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