Cinque tra le più belle canzoni grunge

La lista delle migliori canzoni grunge

Smells Like Teen Spirit dei Nirvana è una di quelle canzoni che riescono ad entrare direttamente nella storia del rock, a trascendere i generi; e non è un caso che quando si parla di grunge – ovvero di quella musica che visse un periodo di grande splendore (anche commerciale) all’inizio degli anni Novanta – la mente vada subito al pezzo di Cobain e soci, ormai diventato simbolo non solo di quel movimento ma anche di un’era di capelli lunghi e camicie di flanella.

Ma i Nirvana non sono stati gli unici interpreti di un genere che – per citare una celebre canzone di Neil Young – ha bruciato molto intensamente, ma non a lungo: accanto a loro, infatti, in quegli anni scalpitavano vari gruppi della scena di Seattle e non solo; alcuni di loro non sono sopravvissuti al cambio generazionale, altri si sono sciolti e sono rinati in forme diverse, altri ancora sono riusciti a sopravvivere, mutando in parte il loro repertorio ed inglobando le istanze dell’alternative, del nu metal o della musica indie degli anni Duemila.

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Il grunge, d’altra parte, era un genere che proprio dalla contaminazione aveva avuto origine e che non poteva certo smettere di mescolarsi e di evolvere nel tempo. I critici ne datano la nascita attorno alla metà degli anni ’80 proprio nell’area di Seattle, dove gravitavano molti gruppi che avrebbero fatto strada; alla base del movimento c’era il tentativo di mescolare l’heavy metal, che in quegli anni viveva il suo momento più florido, col punk e, a seconda dei casi specifici, con una miriade di altri sottogeneri. Ma quali sono, a distanza di venti o trent’anni, le più belle canzoni grunge, quali quelle più rappresentative? Ecco la nostra risposta.

 

Alice in Chains – Man in the Box

da Facelift (1990)

Le radici musicali di cui abbiamo appena parlato nel presentare il genere grunge non sono da intendere in maniera prescrittiva e statica, ma piuttosto come linee di tendenza. Ad esempio gli Alice in Chains, il primo gruppo da cui partiamo (seguendo un ordine puramente cronologico), avevano poco a che spartire col punk, visto che molto più preponderante nella loro musica era l’influenza del metal; ciononostante l’origine geografica e i testi particolarmente intimisti li portano a pieno titolo all’interno del genere di cui furono anzi tra i fondatori. Il gruppo si era formato nel 1987 a Seattle e già nel 1989, complice il “boom” del grunge, era stato messo sotto contratto dalla Columbia.

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Dopo un EP dal buon successo, nel 1990 uscì il loro primo album, Facelift, che fu trascinato alla radio e su MTV da Man in the Box, il primo singolo estratto. Una canzone sui mass media che, forte anche di un buon video diretto da Paul Rachman, riuscì ad ottenere buona visibilità e fu enormemente apprezzata dalla critica, anche per il fatto di aver aiutato la band a trovare un proprio stile, chiaro e deciso. Dopo questa prima importante affermazione, gli Alice in Chains si ripeterono nel 1992 con Dirt e col singolo Would?, ma ben presto i problemi di droga del leader Layne Staley cominciarono a farsi sentire; dopo la pubblicazione di Alice in Chains nel 1995, il gruppo smise di apparire in pubblico, mentre il cantante morì di overdose nel 2002. Dal 2006 però la band è ritornata sulle scene con un nuovo frontman, William DuVall.

 

Pearl Jam – Alive

da Ten (1991)

Come dicevamo, non tutti i gruppi hanno fatto la fine dei Nirvana o degli Alice in Chains, bruciati almeno in parte dal successo; i Pearl Jam di Eddie Vedder si sono formati nel 1990, dopo tra l’altro varie vicissitudini vissute dai componenti, ma da allora il nucleo centrale – formato dallo stesso Vedder, dai chitarristi Stone Gossard e Mike McCready e dal bassista Jeff Ament – non è più mutato, se non per una serie di avvicendamenti alla batteria. Pochi mesi dopo la nascita del gruppo, i ragazzi erano così già pronti per registrare l’album d’esordio, Ten, che ottenne un successo inaspettato, piazzandosi al secondo posto della classifica di Billboard e ottenendo un disco d’oro; un successo che si deve sicuramente al talento dei ragazzi di Seattle e alla moda del momento, ma anche al fatto che il grunge reinterpretato da Vedder era ben diverso da quello degli altri gruppi in questa lista, maggiormente legato alla tradizione rock degli anni ’60 e ’70.

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All’interno di quel disco, il primo signolo fu Alive, un brano che permise al gruppo di farsi conoscere e che ben rappresenta anche il tipo di testi che Vedder aveva approntato per quell’album, pieno di liriche su depressione, angoscia e tristezza. La canzone era nata, tra l’altro, in modo molto originale: i componenti della band, infatti, erano all’inizio in cerca di un cantante, e avevano quindi registrato un nastro che avevano mandato in giro per la costa ovest degli Stati Uniti, sperando che qualcuno se ne innamorasse e provasse a cantarci sopra; così avvenne per Vedder, che all’epoca faceva il benzinaio a San Diego, che scrisse di getto il testo della canzone – forse basandosi anche su fatti personali – e reincise su nastro la parte cantata, spedendo il tutto a Seattle. Nel giro di pochi giorni il cantante fu inglobato nel gruppo e la carriera dei Pearl Jam ebbe inizio.

 

Nirvana – Smells Like Teen Spirit

da Nevermind (1991)

Finora abbiamo seguito, come detto, la cronologia delle uscite, ma se avessimo dovuto mettere in ordine le canzoni una ad una non c’è dubbio che la vetta assoluta sarebbe stata riservata a Smells Like Teen Spirit, pubblicata dai Nirvana all’interno del loro album più celebre, Nevermind, nel 1991. Il gruppo, formato da Kurt Cobain, Krist Novoselic e, dal 1990 in poi, Dave Grohl, aveva cominciato a farsi conoscere già sul finire del decennio precedente, pubblicando con l’indipendente Sub Pop l’album d’esordio Bleach e, prima ancora, l’EP Love Buzz; così, complice anche il successo che stavano ottenendo – ormai su scala internazionale – i Sonic Youth, gli Alice in Chains e i Pearl Jam, il trio originario di Aberdeen si mise alla ricerca di una major che potesse promuovere adeguatamente il loro lavoro successivo, Nevermind.


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La major arrivò (era la DGC Records), così come arrivarono la promozione e soprattutto il successo: l’album vendette oltre ogni più rosea aspettativa, raggiungendo nel gennaio 1992 la vetta della classifica americana, rubata ad un mostro sacro come Michael Jackson (con Dangerous). Gran parte del merito di quel successo, almeno in proporzioni così ampie, si deve a Smells Like Teen Spirit, primo singolo estratto e sicuramente il brano più celebre e bello di quell’anno, se non forse addirittura del decennio; una canzone che si avvaleva anche di uno straordinario video che fu diretto da Samuel Bayer, un regista allora alle prime armi ma che da lì in poi ha fatto carriera, vedendo alcuni suoi lavori esposti in musei d’avanguardia e, dal punto di vista hollywoodiano, esordendo anche tra i lungometraggi con il remake di Nightmare.

 

Stone Temple Pilots – Plush

da Core (1992)

Finora abbiamo sempre parlato della scena di Seattle, nel nord-ovest degli Stati Uniti, città da cui effettivamente provenivano tutti i primi gruppi che avevano portato avanti le istanze del grunge e che, di conseguenza, avevano ottenuto un successo inaspettato, generando una sorta di “ondata”. Il grunge, però, non restò confinato solo allo stato di Washington, e anzi si diffuse rapidamente in tutta la west coast, trovando terreno fertile soprattutto in California, dove le giovani band si dimostrano sempre particolarmente recettive nei confronti delle nuove tendenze musicali. E infatti da San Diego provenivano originariamente i Stone Temple Pilots, gruppo che, dopo qualche anno di gavetta, fece la sua comparsa sulla scena nel 1992, trovando subito un grosso successo con l’album d’esordio Core e col secondo singolo da esso estratto, Plush, un brano che dai Pearl Jam riprendeva l’amore per i classici del rock, ma che, come altri pezzi dell’album, aveva anche una profonda identità hard rock.

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Ancora meglio, commercialmente parlando, andò il secondo lavoro della band, Purple, uscito nel 1994 e contenente il singolo Interstate Love Song, anche se quello può forse essere considerato il canto del cigno degli Stone Temple Pilots: il leader Scott Weiland finì vittima della spirale dell’eroina, entrando ed uscendo continuamente da centri di disintossicazione. Questo danneggiò gli album successivi, che non riuscirono ad ottenere il successo sperato, e portò anche allo scioglimento del gruppo nel 2003; dopo una reunion nel 2008 che lasciava ben sperare per un ritorno della formazione originaria sulle scene, e l’uscita di un nuovo disco nel 2010, nel 2013 i componenti Dean DeLeo, Robert DeLeo e Eric Kretz hanno di fatto licenziato Weiland, sostituendolo con Chester Bennington, frontman anche dei Linkin Park.

 

Soundgarden – Black Hole Sun

da Superunknown (1994)

Concludiamo con una band che si trova all’ultimo posto della nostra cinquina semplicemente perché il suo più grande successo lo ottenne nel 1994, quando il grunge si apprestava a tramontare, o almeno a lasciare la vetta delle classifiche mondiali; ma i Soundgarden di Chris Cornell erano anzi stati tra i primissimi portavoce del genere e in assoluto i primi a firmare per una major, la A&M, nel 1989. Formatisi – manco a dirlo – a Seattle, i quattro provenivano in realtà da diverse zone degli Stati Uniti e si erano trovati nella “città di smeraldo” per ragioni universitarie; qui si erano avvicinati a quel calderone di esperienze e sperimentazioni che era la scena musicale della città attorno alla metà degli anni ’80, e avevano dato vita a una band che in principio interpretava il grunge in chiave molto forte, vicina più all’heavy metal che al rock classico.

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Il gruppo pubblicò così alcuni album di buon successo e apprezzati dalla critica, come Ultramega OK, Louder Than Love e soprattutto Badmotorfinger, che purtroppo fu in parte oscurato dal successo di Nirvana. Dopo aver aiutato i Pearl Jam a formarsi (passando attraverso il supergruppo dei Temple of the Dog), Cornell e soci trovarono la grande visibilità internazionale soprattutto col disco del 1994, Superunknown, che, mitigando in parte i suoni, riuscì a vendere tre milioni di copie e ad aggiudicarsi vari Grammy. La canzone più rappresentativa di quel disco era probabilmente Black Hole Sun, un pezzo cupo ma anche in qualche modo colmo di speranza (e lo stesso Cornell non si è mai riuscito a spiegare perché una canzone così triste potesse essere accolta in questo modo dal suo pubblico). Quel successo però portò rapidamente allo scioglimento, anche se dopo vari lavori in altri gruppi – tra cui gli Audioslave –, la band si è riformata nel 2010.

 

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