Cogito ergo sum: il significato della frase di Cartesio in cinque punti

Un celebre ritratto di Cartesio, autore di una delle più importanti frasi dei filosofi

L’avrete sentita citare mille volte: cogito ergo sum. E forse qualcuno ve l’ha pure tradotta in “penso dunque sono” o “penso quindi esisto”. Ma questo non vi è servito a molto, perché filosofia non l’avete mai studiata. Oppure, finito il liceo, l’avete rapidamente rimossa dalla vostra mente.

Ebbene, la frase in questione è del filosofo francese Cartesio, al secolo René Descartes, vissuto tra il 1596 e il 1650. E rappresenta forse non solo la vetta più alta del suo pensiero, ma di tutta la filosofia moderna, almeno fino a Kant. La si cita spesso, insomma, perché è molto importante e ha un significato più profondo di quello che può sembrare.

Qui di seguito troverete una semplice – ma completa – spiegazione di cosa intendesse Cartesio con quelle parole. Parole che, tra l’altro, non vengono mai riportate in maniera esatta. Descartes infatti non scrisse “cogito ergo sum”, ma “Ego cogito, ergo sum, sive existo“. Che, tradotto dal latino, suona come: “Io penso, dunque sono, ovvero esisto”.

Già così, con qualche parola in più, il significato è un po’ più chiaro. Ma vedremo di entrare nel dettaglio, tirando in ballo il dubbio metodico e il dubbio iperbolico che tanto peso hanno nel pensiero del filosofo. E magari facendo anche qualche esempio molto concreto, un po’ tratto dagli scritti del pensatore, un po’ da film recenti (come ad esempio Matrix). Procediamo.

 

1. Perché Cartesio arriva a dire “cogito ergo sum”

Prima di spiegare il significato di quella fantomatica frase dobbiamo evidentemente fare una premessa. Perché il “cogito ergo sum” di Cartesio giunge a conclusione di un lungo ragionamento intrapreso nel Discorso sul metodo, breve saggio che l’autore pubblicò nel 1637, all’età di 41 anni.

Il Discorso sul metodo di CartesioQuel libretto ebbe una genesi molto particolare. Cartesio, prima che un filosofo, era infatti uno scienziato e un matematico. Appassionato delle scoperte che in quegli anni stavano rivoluzionando le conoscenze astronomiche, si mise ad indagare il cosmo. E preparò alcuni scritti con cui – nelle intenzioni – avrebbe dato il suo contributo alla rivoluzione scientifica.

Nel 1633, però, Galileo Galilei, il fisico italiano, fu sottoposto a un celebre processo, che ebbe grande risonanza in Europa. Le accuse vertevano sulle dottrine esposte nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Cartesio non ci mise molto a capire che anche i suoi studi avrebbero potuto creargli problemi, e decise di desistere.

Non gettò però via del tutto il frutto dei suoi sforzi e scelse di pubblicare alcune parti del programmato volume. Proprio nel 1637 diede alle stampe quindi i tre saggi La diottrica, La geometria e Le meteore. E a questi decise di aggiungere un’introduzione generale. Introduzione che era appunto il Discorso sul metodo.

Il Discorso sul metodo, fondamentale opera di Cartesio

Di quei tre saggi, il più importante era La geometria, in cui il pensatore francese esponeva il suo metodo per unire aritmetica e appunto geometria (in pratica, introduceva il piano cartesiano, gli assi e così via). Ma dal punto di vista filosofico il Discorso era sicuramente il contributo più interessante.

Lì Cartesio si proponeva infatti il compito di trovare una verità fondamentale e solida. La scienza, il sapere umano avevano bisogno di fondamenta in grado di reggere a qualsiasi urto. Come una casa, la conoscenza doveva essere in grado di resistere ai colpi avversi.

Nel caso del ragionamento, i colpi avversi erano quelli portati dal dubbio. Per questo motivo Cartesio si propose un unico scopo: provare a mettere in dubbio tutto. Se una qualche verità avesse davvero resistito ai colpi del dubbio, allora sarebbe stata abbastanza solida da costruirci sopra una scienza. Se invece avesse ceduto, sarebbe stata da scartare.

Il dubbio metodico

Questa parte del ragionamento di Cartesio è generalmente indicata come quella del dubbio metodico. Il filosofo francese infatti usò il dubbio come suo principale metodo d’indagine. Lo utilizzò proprio come test, come una sorta di “esame d’idoneità”.

E lo applicò in primo luogo alle conoscenze di cui più ci fidiamo, ovvero quelle che derivano dai sensi. Quello che vediamo, che sentiamo, che tastiamo è affidabile? Esiste realmente?

Usare il cellulareQui arriviamo al primo scoglio del pensiero di Cartesio. Perché il filosofo francese era convinto del fatto che noi non abbiamo certezza dell’esistenza del mondo così come ci appare.

Ad esempio, ora state leggendo queste parole sullo schermo di un computer o di un cellulare. Ma queste parole esistono? Il dispositivo che avete in mano o sul tavolo esiste? Le vostre stesse mani esistono? La risposta è meno banale di quello che potrebbe sembrare.

È un sogno o la realtà?

«Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero?» è una delle frasi più celebri di Matrix, il film con Keanu Reeves [1]. E sembra presa pari pari da uno scritto di Cartesio.

Nelle Meditazioni metafisiche, infatti, il filosofo francese scriveva queste parole [2]:

Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati.
 
Ma, benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro son pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.
 
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che, per conseguenza, ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora, che quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta, che questa testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di deliberato proposito io stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto come tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da esser quasi capace di persuadermi che io dormo.

E la matematica?

Dunque tutto ciò che vediamo attorno a noi, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere un sogno [3]. E quindi non possiamo essere certi di quello che ci dicono i sensi.

Le due pillole in Matrix, simbolo dei dualismi tutti filosofici tra realtà e illusioneDopo aver raggiunto questa conclusione – che comunque già di per sé è carica di conseguenze – Cartesio però nota che all’apparenza c’è una scappatoia. Anche ammettendo che i sensi possano ingannarmi, ci sono verità che esulano da essi che paiono più solide.

Ad esempio, la frase “2+2 = 4” è vera indipendentemente dai sensi. Vale per un sordo e per chi ci sente, per un daltonico e per chi non ha problemi visivi, per chi è sveglio e per chi dorme. 2+2 fa sempre 4. O almeno così sembra. Perché a ben guardare anche in questo caso le cose sono piuttosto complicate.

Ma Dio può ingannarmi?

Vediamo cosa scrive Cartesio, sempre nelle Meditazioni metafisiche, e poi commentiamo le sue parole:

Perché, sia che io vegli o che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, ed il quadrato non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così manifeste possano essere sospettate di falsità o d’incertezza.
 
Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niuna figura, niuna grandezza, niun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io giudico qualche volta che gli altri s’ingannino anche nelle cose che credono di sapere con la maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile, se può immaginarsi cosa più facile di questa.

In pratica Cartesio dice questo: 2+2 mi sembra scontato che faccia 4, ma in realtà potrebbe essere un inganno. Ammettiamo, per ipotesi, che Dio esista e sia malvagio. Un dio di tal genere godrebbe nell’ingannarmi. E ad esempio potrebbe farmi sembrare – forte dei suoi mezzi – che 2+2 faccia 4 quando magari in realtà dà un altro numero come risultato.

È possibile, questa ipotesi? In linea di principio sì. Non abbiamo mezzi o certezze che al momento ci possano portare ad escludere del tutto questa eventualità. Il dubbio, insomma, ha colpito ancora, e ha colpito anche le certezze più solide che avevamo: quelle matematiche. Siamo arrivati a quello che viene chiamato il dubbio iperbolico.

Devo davvero dubitare di tutto?

Siamo, finalmente, giunti al momento chiave. Cartesio ha appena dimostrato che le certezze sensibili non sono così certe come ci piace pensare, e che anche quelle matematiche possono crollare davanti al dubbio. Cosa ci rimane? All’apparenza nulla. Ma in realtà una cosa, qualcosa di indubitabile, c’è.

Un soggetto da ingannare

Finora abbiamo infatti parlato di sensi che ci ingannano o di dei che ci ingannano. Ma perché l’inganno avvenga, deve per forza esistere un soggetto da ingannare. Perché io venga ingannato, io devo esistere. È questo che Cartesio vuol dire con la sua frase “Cogito ergo sum”. Significa “Penso dunque sono”, e cioè “Dubito, mi inganno, quindi esisto”.

Il solo fatto di dubitare, la sola ipotesi che io possa essere ingannato implica necessariamente che io esista. C’è una sola cosa di cui essere davvero certi, inevitabilmente: che il nostro io esiste.

Attenzione, però: quando parliamo di “io” non intendiamo l’io che conosciamo. Noi sappiamo di esistere, ma non sappiamo come esistiamo. Non sappiamo se abbiamo davvero due braccia, due gambe, una testa e dei capelli. Quello potrebbe essere un inganno. Come in Matrix, potremmo essere delle larve attaccate a delle macchine.
 
Però, anche se fossimo delle larve, noi esisteremmo. Di questo siamo certi. Ed è questa la verità indubitabile, il fondamento di cui Cartesio aveva tanto bisogno.

      

 

2. Dove porta il suo ragionamento

Ovviamente il discorso di Cartesio però non si ferma al solo “Cogito ergo sum”. Perché quella frase è in un certo senso il trionfo dello scetticismo, e Cartesio era tutt’altro che scettico. Ma spieghiamo un attimo cosa significano questi termini e dove il filosofo francese ci vuole condurre.

Lo scetticismo fu un’importante corrente filosofica greca, che ha avuto però estimatori anche in epoca moderna e contemporanea. Sosteneva, in pratica, che la verità fosse irraggiungibile per l’uomo. Che, per la limitatezza dei nostri mezzi, non saremmo mai potuti giungere ad alcunché di certo.

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Quando Cartesio metteva in dubbio tutto, non faceva altro che applicare una precisa tecnica scettica. Solo che per lui quel ragionamento non era il punto d’arrivo, ma quello di partenza. Il filosofo francese, infatti, non aveva pensato neppure per un momento di accontentarsi del semplice “Cogito ergo sum”.

No, lui voleva andare oltre. La mia esistenza era solo un tassello di un puzzle. Il tassello fondamentale, a ben vedere, perché era l’unico irrinunciabile. Il tassello da cui dipendevano tutti gli altri. Ma un tassello di un disegno più grande.

Dio

Giunto a quel punto, infatti, Cartesio non si ferma, ma prosegue. Sappiamo di esistere, certo, ma cosa siamo? Come abbiamo scritto prima, non siamo affatto certi di essere come ci vediamo allo specchio. Niente ci assicura che abbiamo un corpo, un naso, degli occhi. Però siamo certi del fatto di pensare.

E cosa significa “pensare“? Significa dubitare, certo, ma significa anche avere delle idee. Bene, quindi siamo sicuri di avere delle idee (che potrebbero ovviamente essere anche false, però intanto ci sono). E tra queste idee ce n’è certamente una particolare che è l’idea di Dio. Anche chi non crede in Dio, d’altronde, ha un’idea, un concetto di Dio.

Una famosa scena de Il settimo sigillo di Ingmar BergmanDio però potrebbe essere, come abbiamo ipotizzato, maligno; o potrebbe anche non esistere nella realtà. Però intanto l’idea di Dio, nella nostra mente, c’è. Ora bisogna capire come ha fatto ad entrarci.

Infatti l’idea di Dio, come tutte le idee, potrebbe avere varie origini. Potremmo essercela inventata, dice Cartesio. In fondo, creiamo le idee di tanti animali fantastici; e potremmo anche esserci creati quella di Dio. Oppure potrebbe derivare dall’esterno. Oppure ancora potrebbe essere stata dentro di noi fin dalla nascita [4].

Le prove dell’esistenza di Dio

Ora, l’idea di Dio è quella di un essere perfetto e infinito, mentre noi, per definizione, siamo finiti e imperfetti. Il finito può creare qualcosa di infinito? Ovviamente no, risponde Cartesio. Nessuna cosa può creare qualcosa che sia più perfetta di sé. Quindi l’idea di Dio non può essere frutto dell’uomo [5].

Il Proslogion, libro in cui Anselmo d'Aosta espose la sua prova a priori per dimostrare l'esistenza di DioE allora, da dove arriva? Semplice, l’unica possibilità è che l’idea di Dio sia dentro di noi da quando siamo nati. E come mai sta lì? Anche in questo caso l’unica spiegazione possibile è che ce l’abbia messa dentro Dio stesso, quasi come se fosse un “marchio di fabbrica“.

Ora, questo implica necessariamente che l’idea di Dio che noi abbiamo – quella di un essere onnipotente e buono – corrisponda a verità. E quindi finalmente, dopo tanto ragionare, possiamo scartare l’ipotesi che Dio ci inganni. Dio non ci può ingannare, perché è buono. La stessa idea che abbiamo di Dio – che ci è stata messa dentro da lui stesso – ce lo dimostra.

Da qui, a cascata, discendono una serie di conseguenze. Ad esempio, se Dio è buono allora non prova nessun gusto nell’ingannarci. E quindi quello che a noi pare vero, quello che sembra evidente ai nostri sensi, non può essere falso.

Il garante della verità

Ritorniamo all’esempio iniziale: abbiamo davvero davanti un computer o un cellulare, come ci pare di avere? Abbiamo davvero due mani, come ci pare di avere? La risposta che dà Cartesio, ora, è: sicuramente sì. Prima non ne era così sicuro, ma ora, dopo averci ragionato, ne è certo.

Cos’è cambiato? Come siamo arrivati a questa certezza? Provando a mettere in discussione tutto. Abbiamo elevato il dubbio all’ennesima potenza, l’abbiamo fatto cadere su ogni cosa, ma non siamo riusciti a farlo cadere sulla nostra stessa esistenza.

E quando siamo stati sicuri di esistere, siamo stati sicuri, con qualche ragionamento, che anche Dio esiste ed è buono. E se è buono non può averci creati con degli occhi che ci ingannano. Se ci ha dato gli occhi, è perché gli occhi ci consentono di vedere la realtà. E se gli occhi ci dicono che qui c’è un computer, allora qui c’è davvero un computer [6].

Quindi no, Cartesio non è affatto uno scettico. Tutt’altro. Ha sfruttato lo scetticismo solo per dare un maggior fondamento al suo realismo.

      

 

3. A cosa doveva servire il Discorso sul metodo

Abbiamo già scritto quale fu la genesi dell’opera di cui stiamo parlando dall’inizio del nostro articolo. Non abbiamo però spiegato qual era l’intento più profondo di Cartesio. Il pensatore francese, infatti, non voleva solo scrivere un’introduzione unificante ai suoi saggi, ma in un certo senso presentare quello che era il suo sogno più radicato.

La geometria, importante trattato di Cartesio

Come raccontò lui stesso, la sua formazione era stata intensa ma vuota. Al termine della scuola, Cartesio infatti sapeva molte cose, ma nessuna gli pareva in grado di dargli una direzione. Conosceva gli antichi e la matematica, ma non gli pareva di essere in grado di decidere granché nella vita.

A questa situazione di incertezza si aggiunsero però alcuni risultati raggiunti negli studi matematici. Il pensatore francese, infatti, si accorse che tra matematica e geometria – due discipline che fino a quel tempo erano rimaste in un certo senso separate – esisteva un legame.

In breve si convinse che quel legame non fosse limitato a quelle due scienze, ma unificasse tutto lo scibile umano. La scuola non gli aveva dato un metodo sicuro per comprende il mondo, ma forse poteva darglielo la matematica.

Detta in altri termini, Cartesio si convinse che ci fosse il modo di unificare tutte le discipline. Morale, geometria, politica, matematica, fisica, arte: per lui questi erano solo rami diversi di un unico sapere. E forse esisteva uno stesso metodo, uno stesso insieme di regole, per indagare ciascuno di questi ambiti.

Le regole del metodo

Il Discorso sul metodo si proponeva, quindi, come il primo passo verso il raggiungimento di questo scopo: unificare davvero le scienze. Certo, bisognava trovare un metodo che fosse valido e fecondo, cioè che si dimostrasse in grado di fornire risultati validi.

L’esempio della matematica

La matematica, un metodo del genere, già l’aveva. Da Euclide in poi era riuscita infatti a convincere tutti gli studiosi e le sue verità sembravano inattaccabili. Quanto sarebbe stato bello, pensava Descartes, se si fosse riusciti ad arrivare a certezze simili ad esempio nel campo della morale!

Quindi, il metodo generale doveva in qualche modo ispirarsi al metodo matematico. E Cartesio scrisse le quattro regole – poche, ma secondo lui bastavano – proprio in quest’ottica. Vengono ricordate così: regola dell’evidenza, regola dell’analisi, regola della sintesi e regola dell’enumerazione e revisione.

Ma vediamole nelle parole dello stesso Cartesio:

Regola dell’evidenza
Il primo era di non prendere mai niente per vero, se non ciò che io avessi chiaramente riconosciuto come tale; ovvero, evitare accuratamente la fretta e il pregiudizio, e di non comprendere nel mio giudizio niente di più di quello che fosse presentato alla mia mente così chiaramente e distintamente da escludere ogni possibilità di dubbio.

Regola dell’analisi
Il secondo, di dividere ognuna delle difficoltà sotto esame nel maggior numero di parti possibile, e per quanto fosse necessario per un’adeguata soluzione.

Regola della sintesi
Il terzo, di condurre i miei pensieri in un ordine tale che, cominciando con oggetti semplici e facili da conoscere, potessi salire poco alla volta, e come per gradini, alla conoscenza di oggetti più complessi; assegnando nel pensiero un certo ordine anche a quegli oggetti che nella loro natura non stanno in una relazione di antecedenza e conseguenza.

Regola dell’enumerazione e revisione
E per ultimo, di fare in ogni caso delle enumerazioni così complete, e delle sintesi così generali, da poter essere sicuro di non aver tralasciato nulla.

Uno scopo raggiunto?

Alla fin fine, Cartesio raggiunse il suo scopo? Lui, come ogni buon pensatore, era convinto di sì. Oggi possiamo però dire di no. Il suo metodo, per quanto affascinante e per quanto storicamente importante, non ha avuto seguito.

In quegli stessi anni, d’altra parte, molti pensatori stavano elaborando in maniera più o meno esplicita vari metodi di indagine. Bacone, Galileo, Spinoza ne utilizzarono di celeberrimi, spesso anche più complessi di quello di Cartesio.

Il principale difetto, però, delle quattro regole del filosofo francese è indipendente dal lavoro dei suoi colleghi. Non serve confrontarlo con altri metodi, infatti, per scoprirne la falla. Basta studiare la fisica cartesiana, che sull’applicazione di questo metodo fu fondata.

Dimenticarsi dell’esperimento

Il difetto, in definitiva, è che in tutte quelle regole manca un momento sperimentale. Forte della fiducia che riponeva nell’evidenza garantita da Dio, Cartesio non si preoccupò mai di avvalorare il risultato dei suoi ragionamenti.

Galileo pretendeva che ogni scoperta teorica fosse, nei limiti del possibile, sottoposta al vaglio dell’esperimento. Cartesio no. Se una cosa appariva vera con evidenza, non serviva affatto verificarla con gli esperimenti: per lui era già vera. E lo era per colpa (o merito) di Dio.

Le più importanti scoperte di Galileo GalileiQuesto ovviamente indebolì – e di molto – il metodo cartesiano. La fiducia che lui ripone nella ragione era francamente esagerata, e lo dimostrarono i suoi stessi studi. Cartesio elaborò infatti un sistema fisico completamente errato, senza neppure rendersene conto.

Ma d’altronde molte altre volte – al di là di Descartes – la ragione, chiusa in se stessa, ha consegnato l’uomo all’errore. E che non ci si possa fidare solo della ragione sarà una delle principali conquiste dell’empirismo.

 

4. Ma chi è che pensa, in sostanza?

Ci rimangono da dire ancora poche cose sul “cogito ergo sum”. In primo luogo, dobbiamo definire un po’ più precisamente qual è il soggetto di quel “sum[7].

Qualche riga fa, infatti, abbiamo affermato che noi, quando pronunciamo la fatidica frase, sappiamo di esistere, ma non sappiamo ancora come esistiamo. Ebbene, quel noi, quell’io Cartesio lo descrive per bene, pur avendo ben pochi dettagli in mano da utilizzare.

Leggi anche: Cinque fondamentali dualismi della storia della filosofia

Quell’io è infatti secondo Cartesio qualcosa di immateriale [8] e libero, cioè non meccanicamente determinato. Usando sempre un’espressione latina, Descartes decise di chiamarlo res cogitans.

Di per sé, quelle due parole si possono tradurre come “cosa pensante”, che ci andrebbe anche bene. In fondo abbiamo detto che sappiamo di esistere in quanto “qualcosa che pensa”, cioè appunto una “cosa pensante”. Cartesio usa però il termine “res” nel senso di “sostanza“. Parola che in filosofia ha, da Aristotele in poi, un significato molto particolare.

La res extensa

La res cogitans è insomma una sostanza ben definita, che ha un suo proprio statuto ontologico. Il che porta inevitabilmente a un dualismo. Se da una parte c’è qualcosa che pensa, una sostanza pensante, dall’altra parte deve esserci qualcosa che non pensa. Ovvero la materia.

Infatti il sistema cartesiano si riduce in fondo ad un dualismo tra materia e pensiero, tra corpo e anima. Da una parte c’è la res cogitans – libera e immateriale – e dall’altra la res extensa, determinata dalle leggi della fisica.

Tutto il mondo è fatto di res extensa, tutto il mondo è corpo. Solo nell’uomo, oltre alla materia c’è anche la sostanza pensante. Il che implica che anche gli animali, solo per fare un esempio, sono per Cartesio delle macchine prive di res cogitans e quindi di pensiero [9].

 

5. Perché quella frase ha avuto tanta fortuna

Un parziale fraintendimento

Concludiamo con un discorso un po’ collaterale, ma comunque interessante. La frase di Cartesio, infatti, ha avuto una fortuna clamorosa. È oggi forse il detto filosofico più celebre nel mondo, ed è conosciuto anche da chi non ha mai studiato filosofia e non ha mai sentito nominare il nome di René Descartes.

Il Cogito ergo sum di Cartesio diventa tatuaggio (via Pinterest)
Il Cogito di Cartesio diventa tatuaggio (via Pinterest)

E la cosa è un po’ strana, soprattutto se si considera di quante righe abbiamo avuto bisogno per spiegarvi il vero significato di quella citazione. Di solito, frasi così complesse non attraggono così tanta attenzione.

Il motivo di tale fortuna, in realtà, si basa però su un parziale fraintendimento della frase. Per uno che non conosce Cartesio o la sua filosofia, “Cogito ergo sum” può sembrare infatti una semplice esaltazione della razionalità umana.

“Penso dunque sono”, per molti, equivale a dire “L’uomo è un animale razionale”. Cioè che la vera essenza dell’uomo è la ragione. Cartesio, come abbiamo visto, non aveva intenzione di dire questo: mirava a tutt’altro.

Ma in fondo la sua frase è, suo malgrado, divenuta emblematica di quello che è la filosofia: la ricerca della sostanza dell’uomo usando il pensiero. Ed è per questo che è ancora oggi così tanto ricordata ed amata.

Usata perfino nei tattoo

Come avete intravisto nella foto pubblicata sopra, la frase di Cartesio è abbastanza popolare anche tra gli amanti dei tatuaggi. Sia per il suo significato, che abbiamo sviscerato ampiamente, sia per il gusto esotico del latino, che dona a qualsiasi aforisma un’aura di ulteriore saggezza.

Ci sono però anche molte altre frasi importanti della storia della filosofia che potrebbero star bene in un tatuaggio. Molto velocemente vi consigliamo ad esempio di considerare anche il “Panta rei” di Eraclito, il “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me” di Kant o il “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” di Wittgenstein.

La parodia volgare: Coito ergo sum

Essendo così celebre, la frase di Cartesio è stata anche parodiata e volgarizzata numerose volte. La versione che di solito piace più agli studenti – perché facile e goliardica, anche se non priva di arguzia – è “Coito ergo sum”. Basta togliere una “g” e il riferimento passa subito alla natura sessuale dell’essere umano.

Una veloce ricerca tra i giornali, però, vi farà capire che le versioni alternative di questa citazione – spesso usate in vistosi titoli a sei colonne – sono migliaia. Ne esce una nuova quasi ogni giorno, a volte in latino, altre volte in uno strano miscuglio di lingua antica e moderna.

È facile individuare ad esempio “Spiro ergo sum” (respiro quindi sono), “Amo ergo sum” (ma anche il suo contrario “Odio ergo sum”), “Digito ergo sum” (attribuito alla generazione dei nativi digitali), “Corro ergo sum”, “Cammino ergo sum”, “Mangio ergo sum”, “Cucino ergo sum”, “Rogito ergo sum” e mille altre varianti più o meno originali.

         

 

Ma alla fine cosa significano “cogito” ed “ergo” in latino?

L’abbiamo forse dato per scontato, ma vale la pena, ora, per concludere, di ribadire il significato delle parole latine usate da Cartesio. Se “sum” si spiega facilmente (è il verbo essere declinato alla prima persona singolare nell’indicativo presente, ovvero il nostro “sono”), qualche parola in più meritano “cogito” ed “ergo”.

Il paradigma di cogito è “cogito, cogitas, cogitavi, cogitatum, cogitāre”. È ovviamente un verbo latino che significa “pensare, meditare, riflettere, progettare”. Si ritrova in italiano ad esempio nella parola “cogitabondo“, che significa “pensieroso”.

“Ergo”, invece, è un congiunzione con valore conclusivo: significa infatti “dunque”, “quindi”. Viene usata ancora oggi da chi voglia darsi un tono, al posto dei suoi corrispettivi italiani, alla fine di un lungo ragionamento, a volte anche con fare scherzoso.

      

 

L’infografica col riassunto finale

L'infografica sul Cogito ergo sum di Cartesio

 

E voi, quale aspetto del significato di “Cogito ergo sum” preferite?

Cinque cose da sapere sul Cogito ergo sum: vota la tua preferita.

 

Note e approfondimenti

[1] Una scena in questo senso molto significativa la potete vedere qui.
[2] Il testo è tratto dalla Prima meditazione.
[3] Qui tra l’altro trovate alcune interpretazioni moderne dei sogni di Cartesio, anche in chiave freudiana.
[4] Nel linguaggio cartesiano, queste tre tipologie di idee vengono chiamate idee fattizie, idee avventizie ed idee innate.
[5] Qui l’abbiamo un po’ semplificata, per ragioni di spazio, ma in realtà Cartesio porta tre prove dell’esistenza di Dio, una delle quali è sostanzialmente una ripresa della Prova ontologica di Sant’Anselmo.
[6] Si dirà: e allora com’è che a volte ci sbagliamo? Com’è che a volte ci pare di vedere qualcosa, e ne siamo magari anche certi, e poi ci accorgiamo di esserci sbagliati? Cartesio prova a dare una risposta a questo problema. Secondo lui, in sostanza, l’errore nasce dal fatto che a volte siamo così desiderosi di esprimerci su cose che in realtà non sono chiare da fare in un certo senso il passo più lungo della gamba. E dare un parere anche quando non abbiamo abbastanza evidenza.
[7] Che, per chi non sa il latino, è il verbo essere coniugato alla prima persona del presente indicativo, cioè “sono”.
[8] Il grande filosofo inglese Thomas Hobbes avrebbe attaccato proprio questo punto del ragionamento di Cartesio, affermando invece che nulla implica l’immaterialità dell’io.
[9] E questo avrà delle implicazioni piuttosto importanti nel modo di concepire gli animali che si imporrà nell’età moderna.

 

Segnala altre spiegazioni del significato della frase “Cogito ergo sum” nei commenti.

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