La filosofia di Kant: cinque cose da sapere

Alla scoperta de la filosofia di Kant

Le possibilità sono due: o la filosofia di Kant l’avete studiata al liceo, oppure ne avete sempre sentito parlare, ma non avendo fatto questo tipo di scuola non avete mai potuto approfondire. Ebbene, che apparteniate all’una o all’altra categoria, qui troverete un riassunto il più possibile chiaro dei punti-cardine del pensiero del filosofo tedesco.

Abbiamo deciso di scrivere questo articolo, infatti, perché Immanuel Kant non è certo un filosofo facile da affrontare al di fuori della scuola, o da richiamare alla mente dopo tanto tempo. I suoi discorsi sono particolarmente complessi, eppure anticipatori e pregni di conseguenze, e la sua prosa è piuttosto ostica.

Ci rendiamo insomma conto del fatto che a volte serve un veloce riassunto, semplice ma allo stesso tempo preciso. Abbiamo cercato di realizzarlo qui di seguito, strutturandolo, come al nostro solito, per punti. Parleremo delle tre critiche – la Critica della Ragion Pura, la Critica della Ragion Pratica e la Critica del Giudizio – e di molto altro.

 

1. Cosa sono i giudizi sintetici a priori

Partiamo, com’è giusto che sia, dagli inizi. E quindi dalla Critica della Ragion Pura e da uno dei suoi punti-cardine: i giudizi sintetici a priori. Una cosa che al liceo si studia e su cui si insiste parecchio, ma che non sempre risulta comprensibile agli studenti. Cerchiamo di chiarirla noi, per quanto possibile.

Kant comincia il suo ragionamento analizzando i vari tipi di giudizi che la storia della filosofia ha individuato. I giudizi sono sostanzialmente delle frasi in cui si unisce un predicato ad un soggetto. Si tratta insomma di ogni possibile frase gnoseologicamente dotata di senso.

Per fare degli esempi, sono giudizi le frasi “Questa rosa è rossa”, “Gli uomini sono mortali” o “Marco pesa 70 chili”. Però esistono vari tipi di giudizi, che già diversi pensatori avevano classificato.

Kant, rifacendosi in parte a David Hume, ne individua inizialmente di due tipi, quelli per così dire “tradizionali”. I primi vengono da lui chiamati “giudizi analitici a priori” e i secondi “giudizi sintetici a posteriori”. Analizziamoli nel dettaglio.

I giudizi analitici a propri e quelli sintetici a posteriori

Il nome di questi giudizi è già di per sé esplicativo. Il primo termine, “analitici“, nel linguaggio kantiano significa che questi giudizi non aggiungono nuove informazioni sul soggetto. Sono, secondo Kant, “infecondi”. “A priori”, invece, significa che tali affermazioni vengono fatte prima dell’esperienza sensibile, e cioè basandosi esclusivamente sulla ragione.

Facciamo però un esempio per vederci più chiaro. Quello classico kantiano è “I corpi sono estesi”. Questo è un giudizio analitico, in quanto il fatto di essere estesi non dà nuove informazioni: i corpi, già per definizione, sono estesi. Inoltre è un giudizio che formuliamo indipendentemente dall’esperienza: è dalla definizione di “corpo” che traiamo la sua estensione.

I giudizi sintetici e analitici secondo Kant

I giudizi sintetici a posteriori, al contrario, sono frasi che aggiungono informazioni sul soggetto e quindi sono fecondi (“sintetici”), e lo sono basandosi sull’esperienza (“a posteriori”). Lasciamo perdere gli esempi di Kant, che forse non sono i più chiari, e diciamone uno nostro: “Marco pesa 70 chili”.

Il peso di Marco non era sottinteso nel soggetto: è un’informazione in più che diamo. Un’informazione che non può essere derivata solo dalla ragione. Per dire che Marco pesa 70 chili abbiamo dovuto quantomeno vederlo, o meglio ancora vederlo sopra a una bilancia, e quindi usare i nostri sensi.

Ma allora, cosa sono i giudizi sintetici a priori?

Fin qui, in fondo, nulla di nuovo: Kant non faceva altro che rielaborare alcune tipologie di giudizi già ben presenti alla tradizione filosofica. La novità arriva ora. Il filosofo di Königsberg è infatti convinto che esista anche un terzo tipo di giudizi: i giudizi sintetici a priori.

La Critica della Ragion Pura di KantQuesti giudizi unirebbero, di fatto, i pregi dei due giudizi precedenti senza subirne i difetti. Gli analitici a priori, infatti, sono giudizi molto solidi, perché si basano sulla ragione, ma hanno il limite di essere infecondi. I sintetici a posteriori, al contrario, sono fecondi, ma si basano su un’esperienza che non può mai essere completamente affidabile.

I sintetici a priori riuscirebbero, invece, ad essere contemporaneamente fecondi ed affidabili. Kant dice che esistono da sempre, ma non ce ne siamo mai resi conto. L’esempio più semplice è di tipo matematico: 5 + 7 = 12. Questo è un giudizio perché ad un soggetto (“5 + 7”) si fa seguire un predicato (“è uguale a 12”).

Analizziamolo per bene. Intanto è a priori: per risolvere l’operazione non dobbiamo usare i sensi, basta la ragione. Per fare le operazioni matematiche non dobbiamo contare gli alberi: facciamo i conti con la mente (o al limite col supporto della lavagna).

Inoltre è sintetico, perché ci dà delle informazioni che non erano già contenute nel soggetto. Il “12” non è sottinteso in “5 + 7”. E se vi pare che in realtà il risultato di quell’operazione sia un po’ scontato, provate a fare qualcosa tipo 12.572 x 4.850. Il risultato all’inizio non lo sapete, ma lo potete ricavare per via razionale.

L’importanza dei giudizi sintetici a priori

Sia chiaro, l’esempio matematico non è l’unico che si possa fare. Kant ne cita anche altri, come “Tutti i fenomeni stanno tra loro in rapporti di tempo“. Vediamo però perché questi giudizi sono così importanti.

Kant li ritiene infatti le basi della scienza. Se ci pensate, la matematica è in un certo senso il linguaggio delle varie discipline scientifiche, così come il concetto di tempo (a cui abbiamo accennato col secondo esempio) è una delle basi della fisica.

Leggi anche: Cinque significative frasi sul tempo

Pertanto, la scienza ha delle fondamenta che altro non sono che questi giudizi sintetici a priori. Poi, una volta stabiliti questi, la ricerca scientifica si basa ovviamente anche sull’esperienza sensibile, e quindi sui giudizi sintetici a posteriori. Che però poggiano sempre sulla matematica, sul tempo, sullo spazio.

Insomma, lo ribadiamo: questi giudizi sono le basi della scienza. E quindi della conoscenza. Tenetelo bene a mente, e tenete bene a mente anche la matematica, il tempo e lo spazio a cui abbiamo fatto riferimento: li troveremo ancora.

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2. La distinzione tra fenomeno e noumeno

Rimaniamo sulla Critica della Ragion Pura e introduciamo la distinzione fondamentale del pensiero kantiano: quella tra fenomeno e noumeno. L’avrete probabilmente sentita nominare mille volte, ma forse non l’avete mai veramente capita. Chiariamoci le idee.

Immanuel KantPer non complicarci troppo la vita, possiamo dirla così: per Kant esistono due diverse realtà. Da una parte c’è la realtà così com’è davvero, e dall’altra c’è la realtà così come noi la percepiamo. E le due realtà non necessariamente coincidono.

Provate a guardare la stanza in cui siete in questo momento. Cosa vedete? Dei mobili, vari oggetti, forse delle persone. Tutte queste cose vi appaiono disposte in uno spazio tridimensionale, in cui scorgete la lunghezza, la larghezza e la profondità.

Se però aveste un solo occhio, non percepireste la stessa realtà. Vedreste tutto piatto, a due dimensioni. Avreste quindi una visione parziale di quella che ritenete essere la vera realtà. Se questo è vero, perché allora avere due occhi vi dovrebbe bastare? Chi ci dice che con 3 o 4 occhi non coglieremmo qualcos’altro?

In altri termini: chi ci assicura che il mondo vero non abbia magari 5 dimensioni, di cui noi ne percepiamo solo 3?

Il fenomeno: la cosa per me

E il discorso sulle dimensioni spaziali si può ampliare a molte altre questioni. Parliamo dei colori, ad esempio. Come sapete, noi percepiamo la luce solo entro certe lunghezze d’onda. Oltre a quelle frequenze ci sono raggi che non percepiamo, come gli ultravioletti da una parte e gli infrarossi dall’altra.

Nel caso della luce, la scienza già ci dice che le nostre capacità percettive sono limitate, e che esistono una serie di cose di cui non ci accorgiamo. A questo punto, questo meccanismo potrebbe valere però anche per tutta la realtà. Potrebbe essere benissimo che noi percepiamo solo una parte di quello che ci circonda.

La distinzione tra fenomeno e noumeno in Kant

Questo è quindi quello che Kant chiama “fenomeno”, cioè la realtà per me, il mondo come io lo vedo, la “cosa per me”. Attenzione, però: la conoscenza del fenomeno non è qualcosa di soggettivo. Kant è convinto, infatti, che la percezione che noi abbiamo del mondo derivi da certe strutture mentali comuni a tutti.

Se percepiamo il mondo tridimensionalmente, insomma, non è perché alcuni di noi ci vedono poco, ma perché la nostra mente interpreta i dati della vista in quella maniera, tridimensionalmente. E se percepiamo solo certi tipi di luce è perché siamo tutti strutturalmente fatti così.

Il noumeno: la cosa in sé

Al di là di quello che noi riusciamo a percepire, però, c’è la realtà per come è davvero. Questa realtà in sé viene chiamata da Kant “noumeno”. Nomi non scelti a caso: derivano infatti entrambi dal greco. “Fenomeno” è, letteralmente, ciò che appare, mentre “Noumeno” è ciò che è intelligibile, cioè raggiungibile con la ragione e non con i sensi.

Ora, abbiamo capito che per Kant fenomeno e noumeno non coincidono, e che noi percepiamo il primo ma non il secondo. La domanda che sorge spontanea è: come possiamo dunque abbandonare il fenomeno, che è apparenza, e giungere alla vera realtà delle cose?

La risposta di Kant, purtroppo, non appaga le nostre speranze. Per il filosofo tedesco è infatti impossibile andare oltre il fenomeno. Il noumeno, la vera realtà delle cose, è per noi inconoscibile. Non potremo mai, per lui, arrivare a possedere quel tipo di conoscenza.

E allora? Che cosa dobbiamo farcene, dunque, di questo noumeno? Non potremmo semplicemente occuparci del fenomeno e dimenticare il resto? Kant risponde di no. Il noumeno è infatti un “promemoria critico“. Cioè qualcosa che sta lì a ricordarci di non essere troppo orgogliosi, perché la nostra conoscenza è (e sarà sempre) parziale.

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3. Cosa sono le forme a priori

Bisogna però ancora capire esattamente come si genera questo fenomeno. Secondo Kant, la percezione si compone in realtà di due momenti, uno passivo e uno attivo. Quello passivo consiste nel ricevere le impressioni dall’esterno; quello attivo nel riorganizzare i dati sensibili.

Immanuel Kant in un ritratto giovanileFacciamo un esempio concreto. Quando entriamo nella nostra solita stanza, gettiamo uno sguardo e subito ci accorgiamo dei mobili che ci sono all’interno. Ma più nel dettaglio, cosa accade?

Il nostro occhio viene di fatto colpito dalla luce, riceve un’impressione. E però quell’impulso non si ferma nell’occhio, ma arriva alla mente, dove viene convertito in una sorta di immagine. Per Kant questa “conversione” genera il fenomeno.

Il fenomeno, la realtà per me, è insomma la realtà filtrata attraverso i miei sensi e una parte della mia mente deputata a interpretare i dati. Ma di quale parte si tratta?

Spazio e tempo

Kant, ovviamente, non aveva conoscenze neurologiche, ma avanza un’ipotesi suggestiva e anche molto moderna. Secondo lui nella percezione intervengono due “forme a priori”, spazio e tempo. Con questa espressione, Kant vuole intendere che sono due modalità di organizzazione dei dati che sono presenti dentro di noi fin da quando siamo nati.

Come abbiamo visto parlando dei giudizi, infatti, “a priori” significa “indipendenti dall’esperienza”. Secondo lui i concetti di spazio e di tempo non ce li siamo formati vivendo nel mondo e conoscendo la realtà, ma sono tipici della mente umana e perciò innati1.

Inoltre, a essere precisi, si tratta di “forme” più che di concetti. Noi non abbiamo dentro di noi da sempre l’idea dello spazio. Noi abbiamo la capacità di collocare le impressioni in uno spazio. Le forme sono cioè dei contenitori vuoti, che vengono via via riempiti dai dati che riceviamo dall’esterno.

Come abbiamo detto, queste forme a priori della sensibilità sono due: spazio e tempo. Secondo Kant infatti la percezione che le cose si trovano disposte in uno spazio e disposte in un tempo non è qualcosa che deriva dall’esterno di noi, ma dall’interno.

Le altre forme a priori della mente

È la nostra mente, quindi, che organizza le percezioni. D’altra parte, come abbiamo detto all’inizio, lo spazio per quanto ne sappiamo potrebbe non avere tre dimensioni, e il tempo potrebbe essere ben diverso da come lo conosciamo.

Attenzione, però: spazio e tempo non sono le uniche forme a priori presenti dentro di noi. Quelle che abbiamo presentato finora sono infatti quelle della sensibilità, quelle cioè che intervengono quando guardiamo, ascoltiamo, tocchiamo.

Le forme a priori di Immanuel Kant

Ce ne sono però altre che intervengono anche quando pensiamo, quando cioè riflettiamo su quello che abbiamo percepito e cerchiamo di ragionarci sopra.

Noi infatti non ci accontentiamo solo di vedere le cose. Le confrontiamo anche tra loro, le mettiamo in relazione, cerchiamo di individuare dei rapporti. Per esempio, davanti a un fenomeno fisico ci chiediamo cosa l’abbia prodotto, quale sia la causa di quell’effetto.

Le categorie

Quando ragioniamo in questo modo, per Kant utilizziamo delle altre forme a priori che lui chiama categorie.

Le categorie sono 12 e sarebbe probabilmente troppo lungo analizzarle una ad una. Ragioniamo quindi su solo una di esse, quella più significativa: la categoria di causalità e dipendenza. Questa categoria è quella che interviene quando, come nell’esempio già fatto, noi cerchiamo di applicare il principio di causa-effetto.

Secondo Kant, in pratica, le cose che accadono non sono tra loro in un rapporto di causa-effetto. È, piuttosto, la nostra mente che individua questa relazione. È la nostra mente che, quando vede un fenomeno, va subito a ricercarne la causa.

Il mondo segue davvero il principio di causa-effetto, dunque, o questa è solo una creazione della nostra mente? Nessuno può dirlo, secondo Kant. Il rapporto di causa-effetto, come tutti i rapporti tra fenomeni, è di fatto, però, un nostro modo di interpretare la realtà.

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4. Cosa prevede l’imperativo categorico

Lasciamo ora da parte la Critica della Ragion Pura e passiamo al secondo capolavoro di Kant, la Critica della Ragion Pratica. In quest’opera il pensatore tedesco non si occupa più di conoscenza ma di morale. È possibile – si chiede – individuare una legge che diriga l’uomo nei suoi comportamenti?

La Critica della Ragion Pratica di Kant

Questa legge, da buon illuminista, lui la trova dentro all’uomo stesso. È finito il tempo in cui l’umanità si affidava a norme derivate dalla religione o da altre forze esterne. La morale deve farsi autonoma, cioè generarsi da dentro all’uomo.

D’altra parte, Kant è convinto che dentro all’uomo ci sia qualcosa che ci può aiutare. Non tanto un insieme di regole, quanto, ancora una volta, qualcosa di formale. Qualcosa cioè che non ci dice esattamente e prescrittivamente cosa dobbiamo fare di volta in volta, ma ci dà una struttura, un modo di porci generale davanti alle cose.

Questo qualcosa è un imperativo categorico, cioè una legge disinteressata, che non bada ai fini o agli scopi, e che però richiede obbedienza. Una legge che l’uomo dà a se stesso, che si deve autoimporre non tanto in vista di un qualche vantaggio, ma per puro senso del dovere.

La formulazione dell’imperativo categorico

Questa legge secondo Kant l’abbiamo scritta dentro di noi dalla nascita. Dobbiamo solo scoprirla. E in effetti non differisce poi molto da altre leggi individuate, nel corso dei secoli, da varie scuole di pensiero, anche religiose. Si rifà infatti alla cosiddetta regola aurea.

Kant ne dà tre diverse formulazioni, ma la più celebre è la prima. Che dice questo:

Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale.

Questo significa che, prima di fare un’azione, dobbiamo sempre chiederci: se tutti si comportassero come mi sto per comportare io, cosa accadrebbe? Se l’esito fosse catastrofico o comunque dannoso, è chiaro che quella azione sarebbe da etichettare come immorale.

Facciamo un esempio concreto. Mettiamo che io abbia molta fame ma non abbia con me del denaro. Potrei avere l’impulso di rubare una mela. Mi devo però chiedere: se tutti rubassero le mele quando ne hanno voglia, cosa accadrebbe? La risposta ovvia è: tutto il mercato delle mele fallirebbe e nessuno più le produrrebbe. E quindi rubare è immorale.

Una particolarità da notare

Prima di passare all’ultimo punto, vi vogliamo però far notare una particolarità di questa legge. L’imperativo categorico non è una norma rigida, ma flessibile. Si adatta, cioè, alle diverse situazioni.

L'imperativo categorico di KantPer capire meglio il senso di questa affermazione, rifacciamoci a un esempio di Kant. La massima “Ama la patria” è, generalmente, morale. Se tutti amassero la loro patria, in senso ovviamente buono e positivo, il mondo andrebbe probabilmente meglio di come va oggi.

Però, c’è un caso in cui amare la patria è immorale. Immaginiamo, infatti, che al potere nel nostro paese ci sia un tiranno terribile. In quel caso, amare la patria, rispettarne le istituzioni e le regole, sarebbe immorale, perché si tradurrebbe in un sostegno al tiranno.

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Dunque, l’imperativo categorico può darci regole opposte a seconda delle situazioni. Nella stragrande maggioranza dei casi ci dirà che amare la patria è giusto, ma in alcuni rari casi ci dirà anche il contrario. E questa, secondo Kant, è la sua grandezza: che ammette le eccezioni ed è fonte perenne di moralità.

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5. Il concetto di bello e di sublime

Chiudiamo con almeno un veloce riferimento alla Critica del Giudizio, la terza delle critiche kantiane. È un’opera in cui il pensatore tedesco cerca, in un certo senso, di superare il dualismo che aveva creato con i trattati precedenti.

La Critica del Giudizio di Kant
Da un lato, infatti, abbiamo un uomo che vive pienamente nella dimensione fenomenica: è lo scienziato, che si accontenta dell’esperienza e delle sue forme a priori. Vive in una realtà in cui regna il rapporto di causa-effetto, e in cui quindi tutto è retto da leggi razionali.

Dall’altro, però, c’è anche la dimensione noumenica, inconoscibile ma pur sempre presente. Perché l’uomo si rende conto, in alcuni momenti, che il fenomeno non spiega tutto. Ad esempio, come abbiamo accennato, non spiega la libertà, né consente di sperare in Dio.

C’è però un altro momento in cui la dimensione noumenica emerge: nel bello. Quando noi facciamo esperienza di qualcosa di bello, come un bel paesaggio, andiamo ben oltre la scienza. Il sapere che un tramonto è frutto delle onde luminose e dell’aria non ci basta; perché ci sembra quasi che quel tramonto sia lì per provocarci piacere.

Le quattro definizioni di bello

Tramite una serie di ragionamenti anche piuttosto complessi, Kant arriva quindi a dare le sue definizioni di bellezza. Che sono addirittura quattro, anche se ovviamente legate tra loro e coerenti.

In primo luogo, il bello è l’oggetto di un piacere disinteressato e contemplativo. Davanti alla bellezza, quella vera, non vogliamo possederla, perché godiamo unicamente della sua magnificenza. Anche in questo caso, l’esempio è quello della natura: un paesaggio è bello in sé, non perché sia nostro (e difatti non lo è).

La bellezza per Kant

In secondo luogo, il bello è per Kant ciò che piace universalmente, senza bisogno di conoscenze. Ciò che è davvero bello è bello per tutti, per istruiti e ignoranti, esperti d’arte e analfabeti.

In terzo luogo, il bello, dice Kant, è ciò che ha un fine senza avere uno scopo. Sembra un gioco di parole, ma in realtà significa che il bello ci fa sentire, in un certo senso, l’esistenza di una finalità nel mondo (o ce la fa credere), ma non possiamo esprimere a parole questo scopo. Il paesaggio pare fatto per noi, ma non ha nessuna utilità reale.

Infine, il bello è oggetto di un piacere necessario, cioè provoca – necessariamente – piacere in chi ne fa esperienza.

Il sublime

È chiaro quindi che Kant ha un’idea del bello molto diversa dalla nostra. Il bello non è affatto soggettivo, né condizionato dalla cultura, dalla conoscenza, da altri fattori. Il bello è per lui indipendente da tutto questo e dà in generale un senso di armonia.

A volte, però, anche la disarmonia ci affascina, anche la disarmonia può avere un valore estetico. Kant, anticipando per certi versi il Romanticismo, dà conto di tutto questo introducendo il sublime.

Il sublime è prodotto da qualcosa di smisurato. Per essere più precisi, Kant distingue due tipi di sublime: quello matematico e quello dinamico.

Il primo lo percepiamo davanti a qualcosa di smisuratamente grande, anche se in quei casi proviamo un sentimento ambivalente. Da un lato ci dispiace di non riuscire a cogliere davvero quelle grandezze, ma dall’altro percepiamo la gioia dell’idea dell’infinito.

Il sublime dinamico, invece, nasce in presenza di potenti forze naturali, come davanti a un uragano, ammirato però lontano dal pericolo. In questo caso, prima ci sentiamo piccoli e impotenti, ma poi anche grandi, perché ci scopriamo portatori della dignità umana, di una ragione che ci rende immensi.

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Ecco cinque cose da sapere sulla filosofia di Kant: qual è la tua preferita?

Note e approfondimenti

  • 1 Tra l’altro, alcune recenti ricerche medico-scientifiche sembrano dare proprio ragione a Kant, come si può leggere ad esempio qui.

 

Segnala altre cose da sapere sulla filosofia di Kant nei commenti.

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