
Una delle dipartite importanti degli ultimi anni è senza dubbio quella di Gabriel García Márquez, il premio Nobel colombiano che nel corso della sua carriera ci ha fatto conoscere la letteratura e soprattutto la mentalità magica e spirituale del Sud America.
A lui abbiamo dedicato un articolo immediatamente dopo la sua morte, ricordando e spiegando alcuni passi fondamentali del suo capolavoro, Cent’anni di solitudine.
Le sue grandi storie, però, non si limitano solo a quel seppure importantissimo libro, visto che nella sua bibliografia si trovano altri volumi fondamentali del Novecento come Nessuno scrive al colonnello, Cronaca di una morte annunciata o L’amore ai tempi del colera.
E proprio di quest’ultimo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1985 (il primo dopo l’assegnazione del Nobel), vogliamo parlarvi oggi, ricapitolandone, tramite alcune frasi particolarmente significative, la trama e il significato.
Indice
1. I sintomi dell’amore sono gli stessi del colera
L’amore ai tempi del colera è ovviamente una storia d’amore; ma non di un amore tradizionale, bensì di una di quelle passioni che ti consuma, ti brucia, ti ammala.
Non è casuale, infatti, l’accostamento che lo stesso Márquez fa, nel titolo, tra l’innamoramento e l’altra grande malattia che attanaglia l’epoca in cui vivono i protagonisti del romanzo, cioè il colera. Un accostamento che risulta fondamentale anche man mano che ci si addentra nella lettura del romanzo.
Gli bastò un interrogatorio insidioso, prima a lui e poi alla madre, per comprovare una volta di più che i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera.
Al centro della vicenda c’è infatti Florentino Ariza, un uomo tutto sommato buono che, durante la sua lunga vita, compie una sorta di scalata sociale – lui, orfano di padre – per arrivare a conquistare l’amore della bella Fermina Daza, ragazza di cui è perdutamente innamorato.
L’attesa della risposta alla lettera consegnata a Fermina Daza
I suoi tentativi giovanili di approccio e di avvicinamento sono tanti, e tipici dell’epoca; ad un certo punto, quando si è ancora all’inizio del romanzo, riesce a parlarle, solo per un breve momento mentre la ragazza è lasciata sola a ricamare.
In quel momento le chiede di poterle consegnare una lettera, visto che a casa ha già scritto una settantina di fogli per lei, riletti talmente tante volte da averli imparati a memoria.

Lei è fredda, quasi algida, ma gli concede di farsi consegnare una lettera in uno dei giorni seguenti, nascostamente dai genitori (che non a caso non accetteranno le attenzioni di Florentino, destinando la bella figlia a un matrimonio di maggior rango).
Lui ritorna, attende il momento buono e alla fine consegna la missiva, qualcosa di più spiccio e sintetico di quel romanzo che aveva preparato. Poi attende la risposta della ragazza, ma è un’attesa lancinante, che gli sconvolge il fisico e la psiche: vomita, è preda di diarree, sviene.
La madre si preoccupa, convinta che abbia preso il colera, e convoca il suo padrino, l’omeopata Transito Ariza, anch’egli in un primo momento convinto che si tratti di quella terribile malattia; ma non c’è febbre, non ci sono dolori, e un interrogatorio più approfondito gli consente di svelare l’arcano: l’amore e il colera hanno gli stessi sintomi.
2. Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce
Passa del tempo e purtroppo le speranze di Florentino Ariza vanno deluse: Fermina sposa non lui ma il medico Juvenal Urbino, uomo di buona famiglia che ha studiato addirittura a Parigi ed è benvoluto dal di lei padre.
Quest’ultimo, invece, è stato talmente contrariato dall’interessamento di Ariza da cacciare di casa Escolástica, l’amata zia di Fermina, che aveva l’unica colpa di aver appoggiato la possibile relazione.
Si lasciò portare dalla sua convinzione che gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce ma che la vita li obbliga ancora molte altre volte a partorirsi da loro stessi.
D’altro canto, Juvenal è innamoratissimo di Fermina e lei – a parte il dolore per la scomparsa della zia – non sembra risentirne più di tanto: certo, il matrimonio all’inizio è difficile, soprattutto perché da parte della ragazza manca il sentimento dell’amore, ma col tempo, nonostante le liti e i tradimenti, la coppia si plasma e riesce a trovare una certa stabilità.
Florentino Ariza, intanto, guarda tutto da fuori: la prima volta che la vede nella cattedrale, dopo il primo viaggio compiuto dalla nuova coppia a Parigi e in Europa, scopre che è incinta di sei mesi e si fa prendere dalla decisione “feroce” di farsi un nome per poterla meritare, convinto che prima o poi il marito sarebbe pur dovuto morire, ci fosse stato da aspettare cent’anni.
La decisione di Florentino Ariza di farsi una posizione e l’arguzia di suo zio Léon Dodicesimo
Per questo si presenta dallo zio Léon Dodicesimo, che è presidente della Giunta Direttiva e Direttore Generale della Compagnia Fluviale del Caribe, per affidarsi a lui e chiedergli di essere messo all’opera per poter fare carriera all’interno della società.
Léon è un tipo strano: affarista come pochi, ha una grande passione per il canto, tanto è vero che ama esibirsi ai funerali e sogna di emulare la potenza di Enrico Caruso, che si dice riesca a rompere un vaso da fiori col solo potere della voce.

Ha anche un notevole fiuto e conosce le persone: quando il nipote gli si presenta, sulle prime è ancora arrabbiato che questi abbia buttato al vento il buon impiego da telegrafista che aveva, ma poi capisce che gli uomini, nella loro vita, rinascono tante volte e possono quindi cambiare.
Lo appoggia perciò nella decisione e, più avanti, lo lascerà erede dei suoi averi, non avendo figli maschi rimasti in vita.
3. Sono un povero con soldi
Restiamo per un attimo su Léon Dodicesimo e sullo strano rapporto con suo nipote. Léon viene descritto da Márquez come una sorta di piccolo Nerone, per l’alterigia del suo modo di fare e anche per il potere che aveva accumulato coi suoi traffici.
Ma nonostante tanto potere e tanto denaro, lo zio del nostro protagonista viveva in una casa piccola e stretta, e pure la casa al mare che si era concesso aveva, come unico mobilio, sei sgabelli ed un’amaca in cui si coricava la domenica pomeriggio.
«Ricco no» disse, «sono un povero con soldi, che non è la stessa cosa».
Inevitabile quindi che la gente del posto lo tacciasse di avarizia, anche se vera avarizia non era, ma semplicemente l’essere cresciuto dal nulla ed essere rimasto affezionato a quel nulla. La definizione migliore di sé la diede infatti lui stesso, con quel «Ricco no, sono un povero con i soldi» che abbiamo scelto.
Per questo, quando il nipote gli si presentò per fare carriera, lo zio lo mise a dura prova, lo torchiò fino in fondo, assegnandogli subito il compito di scrivano della Direzione Generale, mettendolo al lavoro su quella scrittura che lui sembrava apprezzare tanto.
L’avarizia di Léon Dodicesimo e il suo duellare col nipote, poeta innamorato
Il nipote, però, non era uno scrivano commerciale come lo zio si aspettava, bensì uno che voleva sempre e in ogni caso parlare d’amore («L’unica cosa che mi interessa è l’amore», gli disse infatti davanti ai rimproveri; «La cosa brutta è che senza navigazione fluviale non c’è amore», gli rispose Léon).
Così i verbali delle riunioni e le lettere commerciali uscivano piene di pathos, a volte addirittura in rima, e lo zio non si sentiva di apporre la firma su cose del genere.

Passò quindi a minacciare di mandare il nipote a raccogliere la spazzatura sul molo se non avesse imparato a scrivere nel ben più asciutto gergo richiesto, e Florentino si mise d’impegno nel nuovo compito, copiando da altri verbali e registri come tempo prima copiava dai poeti.
Nel frattempo, andò a scatenare il suo bisogno d’amore al Portal de los Escribanos, dove aiutava gli innamorati a scrivere i loro biglietti d’amore.
4. Il cuore ha più stanze di un casino
Il libro scorre e passano gli anni della storia, facendoci approssimare alla fine del romanzo e delle vicende in esso narrate. Léon Dodicesimo, alla fine, si ritira e cede il ruolo di Direttore Generale della compagnia al nipote, che ormai ha vissuto la sua vita, ha imparato benissimo il mestiere ed è quindi un uomo maturo e ormai arrivato.
La piccola cerimonia in cui avviene il passaggio di consegne, terminata con il canto de L’addio alla vita della Tosca da parte dello zio, diventa un’occasione per Florentino per ripensare a tutte le donne che ha avuto durante gli anni, con le quali si è intrattenuto senza dimenticare l’amata Fermina Daza, donne che lo hanno consolato per quel dolore.
Aveva imparato quello che aveva già sofferto parecchie volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna. «Il cuore ha più stanze di un casino».
La prima fu Rosalba, che gli tolse la verginità e poi scomparve chissà dove; poi ci fu la vedova di Nazaret, con la quale intraprese un rapporto di “infedele lealtà” per quasi trent’anni, fino alla morte di lei, di cui lui stesso pagò le esequie.
Quindi Prudencia Pitre, la Vedova di Due perché le erano morti due mariti, la più vecchia di quelle ancora in vita; poi Angeles Alfaro, la più amata, che suonava nuda il violoncello per lui e poi se n’era andata su un transatlantico.
E ancora Andrea Varón, che amava indifferentemente sia gli uomini che le donne e che campava del proprio corpo, anche se con Florentino si era accordata sempre per la cifra simbolica di un peso; e infine Sara Noriega, finita in manicomio a dire sconcezze che quasi facevano impazzire ancora di più le altre ospiti dell’ospedale.
Tutti gli amori, estemporanei o duraturi, di Florentino Ariza
Per anni aveva disperso il suo amore in molte donne, ma non aveva mai dimenticato Fermina, e tutto quel percorso professionale l’aveva compiuto, testardo e motivato, solo per arrivare a quella carica che gli avrebbe permesso di essere degno di lei, una volta morto il marito Juvenal.
C’era una sola donna che era riuscita, oltre a lei, a conquistarlo, anche se non è del tutto esatto parlare di donna.

Era una ragazzina di appena quattordici anni, América Vicuña, una sua parente di sangue, che la famiglia aveva affidato a lui perché le facesse da tutore, ma di cui lui si era innamorato perdutamente, in un rapporto incestuoso e talmente sconveniente che nessuno poteva immaginare fosse reale.
Ma neppure lei gli fece dimenticare Fermina, perché, come aveva pensato salutando Angeles Alfaro al porto, «il cuore ha più stanze di un casino».
5. È la vita, più che la morte, a non avere limiti
Arriviamo alle ultimissime pagine del romanzo: il dottor Urbino è finalmente morto, per un banale incidente cadendo da un albero, e Florentino è libero di farsi di nuovo avanti con Fermina, ora vedova.
All’inizio lei è riluttante, ma alla fine decide di dare una seconda opportunità all’uomo che dice di averla aspettata fedelmente – almeno a modo suo – per più di cinquant’anni. Ormai sono entrambi molto vecchi: lui ha la dentiera, lei non ci vede più bene, ma sembrano ben disposti a passare assieme gli ultimi anni della loro vita.
Lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.
Forte della sua posizione, Florentino può addirittura prendere per sé e per la sua nuova compagna una nave della compagnia che, senza carico né passeggeri ma solo i membri dell’equipaggio (più la compagna del capitano, fatta salire a mo’ di compensazione), inizia a navigare via fiume issando la bandiera gialla del colera.
In questo modo simula un’epidemia che serve solo a dare alla nave il permesso di fare quello che vuole, senza dover rendere conto alle autorità né alla compagnia stessa.
La conclusione su un battello che corre all’infinito lungo il fiume
Quando la piccola crociera improvvisata sembra prossima a finire, ai due amanti – che hanno ballato, mangiato e fatto siesta per giorni – viene una sorta di magone, una terrea convinzione di essere prossimi a lasciare il loro appena raggiunto paradiso.
Vengono bloccati da una pattuglia sanitaria poco prima di avvicinarsi alla città, pattuglia che impone loro di aspettare in una palude prima di essere messi in quarantena per il colera, ma Florentino va a parlare col capitano, forte di un’idea diversa: «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, ancora verso La Dorada», gli dice.

È a questo punto che al capitano del battello, quasi ammaliato dalla convinzione di quello che è in fondo il suo datore di lavoro, viene il sospetto che sia la vita, e non la morte, a non avere limiti. Quindi chiede: «E fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?».
E Florentino Ariza, che aveva pronta la risposta «da cinquantatré anni sette mesi e undici giorni, notti comprese», rispose con la frase che chiude il libro: «Per tutta la vita».
Altre 41 belle frasi de L’amore ai tempi del colera, oltre alle 5 già segnalate
Abbiamo dato una veloce panoramica sul romanzo di Gabriel García Márquez. Le frasi significative in esso contenute sono però ben più di cinque. Qui di seguito ne abbiamo raccolte altre quarantuno che meritano di essere lette.
– Dimenticava sempre quando meno lo doveva che le donne pensano più al senso recondito delle domande che alle domande stesse.
– Che si viene al mondo con i propri orgasmi contati, e quelli che non vengono usati per qualsiasi motivo, proprio o altrui, volontario o coatto, sono persi per sempre.
– E tornò a mordersi la lingua perché non gli venisse fuori la verità attraverso le tante fessure che aveva nel cuore.
– Ma quel pomeriggio si domandò con la sua infinita capacità di illusione se un’indifferenza così accanita non fosse un sotterfugio per nascondere un tormento d’amore.
– Ma gli costava fatica capire come due adulti liberi e senza passato, ai margini dei pregiudizi di una società chiusa su se stessa, avessero scelto il rischio degli amori proibiti. Lei glielo spiegò: «Era proprio quello che gli piaceva». Inoltre, la clandestinità spartita con un uomo che non era mai stato tutto suo, e nella quale più di una volta entrambi avevano conosciuto l’esplosione istantanea della felicità, non le era sembrata una condizione indesiderabile. Al contrario: la vita le aveva dimostrato che forse era stata esemplare.
– E il cuore le si frantumò quando vide il suo uomo supino nel fango, già morto in vita, ma che resisteva ancora un ultimo minuto al colpo di coda della morte affinché lei avesse il tempo di arrivare. Riuscì a riconoscerla nel tumulto attraverso le lacrime del dolore irripetibile di morirsene senza di lei e la guardò l’ultima volta per sempre con gli occhi più luminosi, più tristi e più riconoscenti che lei gli avesse mai visto in mezzo secolo di vita in comune, e riuscì a dirle con l’ultimo respiro: «Solo Dio sa quanto ti ho amata».
– Aveva domandato a Dio di concederle almeno un istante affinché lui non se ne andasse senza sapere quanto lo avesse amato al di là dei dubbi reciproci, e aveva sentito un’urgenza irresistibile di ricominciare da capo la vita con lui per dirsi tutto quello che non si erano detti, e di rifare bene qualsiasi cosa avessero fatto male nel passato.
– Ben diversa sarebbe stata la vita per tutti e due se avessero saputo per tempo che era più facile eludere le grandi catastrofi matrimoniali che le minuscole miserie di ogni giorno. Ma se avevano imparato qualcosa insieme era che la saggezza ci arriva quando non serve più a nulla.
– Era come se avessero saltato l’arduo calvario della vita coniugale, e fossero andati dritti all’essenza dell’amore. Passavano il tempo in silenzio come due vecchi sposi scottati dalla vita, al di là delle trappole della passione, al di là degli scherzi brutali delle illusioni e dei miraggi dei disinganni: al di là dell’amore. Perché avevano vissuto insieme quanto bastava per accorgersi che l’amore era amore in qualsiasi tempo e in qualsiasi parte, ma tanto più denso quanto più era vicino alla morte.
– Allora lui tese le dita gelide nel buio, cercò a tentoni l’altra mano, e la trovo che l’aspettava. Entrambi furono abbastanza lucidi da rendersi conto, in uno stesso istante fugace, che nessuna delle due era la mano che avevano immaginato prima di toccarsi, bensì due mani dalle ossa vecchie. Ma nell’istante successivo non lo erano più. Lei cominciò a parlare del marito morto, al tempo presente, come se fosse ancora vivo, e in quell’istante Florentino Ariza seppe che anche per lei era arrivato il momento di interrogarsi con dignità, con grandezza, con una voglia incontenibile di vivere, su cosa fare del suo amore rimasto senza padrone.
– Il suo maestro di clinica pediatrica della Saplêtrière gli aveva consigliato la pediatria come specialità più onesta, perché i bambini si ammalano solo quando sono davvero malati, e non possono comunicare col medico usando parole convenzionali ma solo sintomi concreti di malattie reali. Gli adulti, invece, a partire da una certa età, o avevano i sintomi senza le malattie o qualcosa di peggio: infermità gravi con sintomi di altre inoffensive. Lui li intratteneva con palliativi, lasciando tempo al tempo, finché non imparavano a non sentire i loro acciacchi a forza di conviverci nell’immondezzaio della vecchiaia.
– «Noi uomini siamo poveri schiavi dei pregiudizi» le aveva detto una volta. «Invece, quando una donna decide di andare a letto con un uomo, non esiste ostacolo che non superi, né fortezza che non abbatta, né considerazione morale che non sia disposta a mettere da parte: non c’è Dio che valga».
– Quando ebbe finito di sfogarsi, qualcuno aveva spento la luna.
– All’imbrunire, nell’istante opprimente del passaggio dal giorno alla notte, si levava dalle paludi una tormenta di zanzare carnivore, e una tenera zaffata di merda umana, calda e triste, rimestava nel fondo dell’anima la certezza della morte.
– Non poteva evitarlo: ogni volta che si trovava sul bordo del cataclisma, aveva bisogno della protezione di una donna. […] «Asilo per un povero orfano» disse. Fu l’unica cosa che riuscì a dire, tanto per dire qualcosa.
– Attaccò lo specchio in casa sua, non per la bellezza della cornice, ma per lo spazio interno, che era stato occupato durante due ore dall’immagine amata.
– Sara Noriega lo tranquillizzò con la semplice risposta che tutto quello che facevano nudi era amore. Disse: «Amore dell’anima dalla vita in su e amore del corpo dalla vita in giù».
– La vita mondana era solo un insieme di patti atavici, di cerimonie banali, di parole previste, con cui gli uni e gli altri si intrattenevano in società per non assassinarsi.
– Una volta lui le aveva detto una cosa che lei non riusciva a concepire: gli amputati sentono dolori, crampi, solletico, alla gamba che non hanno più. Così si sentiva lei senza di lui, sentendola là dove non c’era più.
– Sì trattavano con la confidenza di due sposi che si erano taciuti così tante cose in questa vita che non rimaneva loro quasi più nulla da dirsi.
– Era lui, così come lei lo vedeva: l’ombra di uno che non aveva mai conosciuto.
– È come se non fosse una persona, ma un’ombra.
– Sapeva, più per cautela che per esperienza, che una felicità così facile non poteva durare a lungo.
– In un istante le si rivelò nella sua completezza la portata del suo stesso inganno, e si domandò atterrita come avesse potuto incubare per tanto tempo e con tanta sevizia una simile chimera nel cuore.
– Il mondo è diviso fra quelli che cagano bene e quelli che cagano male.
– Ma improvvisamente si svegliava senza motivo, con la tremenda lucidità della solitudine nel mezzo della notte, e il ricordo dell’amore di Ausencia Santander gli si rivelava per quello che era: una trappola della felicità che lui aborriva e anelava al tempo stesso ma dalla quale gli era impossibile scappare.
– A loro bastava la felicità semplice di stare insieme.
– Un uomo sa quando comincia a invecchiare perché comincia ad assomigliare a suo padre.
– La bambina alzò gli occhi per vedere chi stava passando davanti alla finestra, e quello sguardo casuale fu l’origine di un cataclisma amoroso che mezzo secolo dopo non era ancora terminato.
– È incredibile come si possa essere tanto felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature, cazzo, senza sapere in realtà se è amore o se non lo è.
– Il problema del matrimonio è che finisce ogni notte dopo che si è fatto l’amore, e occorre ricostruirlo ogni mattina prima della colazione.
– Scrisse alla moglie e ai figli una lettera d’amore febbrile, di gratitudine perché erano esistiti, nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità avesse amato la vita. Fu un addio di venti fogli strazianti in cui si notavano i progressi della malattia nel deteriorarsi della scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li aveva scritti per sapere che la firma era stata messa con l’ultimo respiro.
– Lo constatò con la compassione dei figli che la vita ha trasformato a poco a poco in padri dei loro padri, e per la prima volta si dispiacque di non essere stato insieme al suo nella solitudine dei suoi errori.
– Gli ricordò che i deboli non sarebbero mai entrati nel regno dell’amore, che è un regno inclemente e meschino, e che le donne si concedono solo agli uomini dall’animo risoluto, perché infondono loro la sicurezza che tanto bramano per affrontare la vita.
– Fu l’anno dell’innamoramento accanito. Né lui né lei avevano vita per nulla di diverso che pensare all’altro, per sognare l’altro, per aspettare le lettere con la stessa ansia con cui rispondevano.
– Si fece un silenzio così diafano, che attraverso il disordine degli uccelli e le sillabe dell’acqua sulla pietra si coglieva il respiro desolato del mare.
– Lei aveva scoperto a poco a poco l’incertezza dei passi del marito, i turbamenti d’umore, le crepe della memoria, l’abitudine recente di singhiozzare nel sonno, ma non li aveva considerati segni inequivocabili della ruggine finale, bensì un ritorno felice all’infanzia. Per questo non lo trattava come un vecchio difficile ma come un bambino senile, e quell’inganno era stato provvidenziale per entrambi avendoli messi in salvo dalla compassione.
– Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina i cattivi ricordi ed esalta quelli buoni, e che grazie a quell’artificio riusciamo a sopportare il passato. Ma quando rivide dalla ringhiera della nave il promontorio bianco del quartiere coloniale, gli avvoltoi immobili sui tetti, la biancheria da poveri stesa ad asciugare sui balconi, solo allora capì fino a che punto era stato vittima facile delle trappole caritatevoli della nostalgia.
– Gli insegnò l’unica cosa che doveva imparare per l’amore: che la vita non te la insegna nessuno.
– Fermina Daza si riconobbe, si sentì padrona di se stessa per la prima volta, si sentì in compagnia e protetta, con i polmoni pieni di un’aria di libertà che le restituì la quiete e la voglia di vivere. Persino nei suoi ultimi anni avrebbe evocato quel viaggio, sempre più recente nella memoria, con la lucidità perversa della nostalgia.
– Sto per compiere cento anni e ho visto cambiare tutto, perfino la posizione degli astri nell’universo, ma non ho ancora visto cambiare niente in questo paese.
E voi, quale frase preferite?