
Non è mai facile affrontare la morte di una persona cara, amico o parente che sia. Anche quando la conoscenza è solo superficiale, o il legame affievolito dal passare degli anni, il peso della malinconia – e a volte della disperazione – si attanaglia facilmente su noi che rimaniamo. In casi come questi, canzoni e poesie sulla morte possono avere un grande effetto taumaturgico.
Una poesia per darci speranza
Magari anche solo per un breve istante, questi testi e queste sonorità possono riuscire infatti a risollevarci, a infonderci speranza o anche solo a farci guardare con uno sguardo più distaccato e disincantato la realtà.
Le più grandi canzoni sulla morte ve le abbiamo già presentate qualche tempo fa. Oggi passiamo alle poesie.
Ne abbiamo infatti selezionate dieci, che provengono dai quattro angoli d’Europa e anche dal di fuori di essa. C’è una poesia portoghese e ce n’è una turca. Ci sono poesie italiane ma anche sudamericane. Insomma, il panorama è ampio. E i poeti che abbiamo scelto sono famosissimi e molto bravi. Eccoli.
Indice
1. Pablo Neruda – Amore mio, se muoio e tu non muori
«Non c’è immensità che valga quanto abbiamo vissuto»
Pablo Neruda – al secolo Ricardo Reyes – è stato il più grande poeta cileno di tutti i tempi. E uno dei più importanti, in assoluto, del ‘900. Ha scritto poesie di grande impegno civile, che manifestavano la sua vicinanza alla gente e agli ideali comunisti, ma anche di passione e d’amore.
Fu impegnato politicamente, e per questo dovette passare alcuni anni della sua vita in esilio. Fu impegnato, però, potremmo dire più in generale dal punto di vista umano. La sua adesione a un ideale politico non fu infatti mai ideologicamente fine a se stessa. Aveva sempre al centro l’uomo, con le sue passioni, le sue speranze e i suoi dolori.
Qui lo spazio è tiranno, ma se volete scoprirlo e conoscerlo meglio vi consigliamo di visitare la pagina che abbiamo dedicato alle sue poesie più belle.
In questa pagina vi basti sapere che fu un poeta capace di unire l’alto e il basso, di parlare agli intellettuali e al popolo, sia per temi che per stile. Il suo verso libero e privo di rime si sposava infatti con un linguaggio ricercato ma allo stesso tempo penetrante. Come si può vedere anche da questa lirica.
Amore mio, se muoio e tu non muori
Amore mio, se muoio e tu non muori,
amore mio, se muori e io non muoio,
non concediamo ulteriore spazio al dolore:
non c’è immensità che valga quanto abbiamo vissuto.
Polvere nel frumento, sabbia tra le sabbie,
il tempo, l’acqua errante, il vento vago,
ci ha trasportato come grano navigante.
Avremmo potuto non incontrarci nel tempo.
Questa prateria in cui ci siamo trovati,
oh piccolo infinito! la rendiamo.
Ma questo amore, amore, non è finito,
e così come non ebbe nascita,
non ha morte, è come un lungo fiume,
cambia solo di terra e labbra.
2. Alda Merini – Elogio alla morte
La poetessa dei diversi
Milanese, classe 1931, Alda Merini è certamente una poetessa che dalla vita non ha ottenuto grandi soddisfazioni. Al suo talento artistico e alla sua vena poetica si affiancarono per tutta la sua esistenza, infatti, frequenti ricoveri in clinica psichiatrica.

Anche per questo motivo le sue raccolte poetiche – pur apprezzate da importanti colleghi e pubblicate da editori di rilievo – passarono a lungo quasi inosservate presso il grande pubblico. Cosa che la costrinse ad una vita in un certo senso in sordina, lontana dagli allori e dai riconoscimenti.
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È forse anche per tutti questi motivi che il suo Elogio alla morte ha toni così cupi. D’altronde, la follia e la morte sono sempre state parte della sua ispirazione poetica, quasi compagne di vita e di viaggio. Talvolta abbracciate e descritte con amore, talvolta tenute alla lontana con disgusto.
Alda Merini ricevette, ancora giovane, apprezzamenti di poeti del calibro di Salvatore Quasimodo e Pier Paolo Pasolini. Poi però il ricovero in clinica la tenne a lungo lontana dal mondo letterario1. Vi tornò negli anni ’80 e ’90, raccontando anche la propria storia. Negli ultimi mesi della sua vita fu anche candidata al Premio Nobel per la letteratura.
Elogio alla morte
Se la morte fosse un vivere quieto,
un bel lasciarsi andare,
un’acqua purissima e delicata
o deliberazione di un ventre,
io mi sarei già uccisa.
Ma poiché la morte è muraglia,
dolore, ostinazione violenta,
io magicamente resisto.
Che tu mi copra di insulti,
di pedate, di baci, di abbandoni,
che tu mi lasci e poi ritorni senza un perché
o senza variare di senso
nel largo delle mie ginocchia,
a me non importa perché tu mi fai vivere,
perché mi ripari da quel gorgo
di inaudita dolcezza,
da quel miele tumefatto e impreciso
che è la morte di ogni poeta.
3. Cesare Pavese – Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Prima del suicidio
Certamente una delle poesie italiane più note sulla morte è la lirica di Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Fu composta dallo scrittore piemontese nell’aprile del 1950 e pubblicata, assieme alle altre della raccolta omonima, da Giulio Einaudi l’anno successivo.
Al momento dell’uscita, il poeta era però già morto, visto che si era suicidato nell’agosto ’50 a Torino. Quelle bustine di sonnifero che ingurgitò in una camera d’albergo arrivavano appena quattro mesi dopo la stesura di quella lirica, che in questo modo risuona macabramente profetica.
La poesia, dedicata all’amata Constance Dowling, costituisce quindi una sorta di oscuro presagio di quello che stava per avvenire2. D’altro canto, Pavese era depresso da tempo, e le delusioni amorose erano solo uno dei problemi che lo affliggevano.
Problemi che però non riguardavano affatto il lavoro. In quegli anni dell’immediato dopoguerra, anzi, Pavese aveva cominciato a raccogliere importanti riconoscimenti. Nel giugno proprio di quel 1950, ad esempio, aveva conquistato l’ambito Premio Strega per il suo romanzo La bella estate. Ma tutto questo non bastò.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
4. Nazim Hikmet – Della morte
La visita degli spiriti
Un altro poeta che ha avuto una vita difficile è stato sicuramente Nazim Hikmet. L’intellettuale turco passò infatti più di dieci anni in carcere ed altrettanti in esilio per via delle sue idee comuniste e per le sue critiche al nazionalismo del suo paese.
Il suo destino, quindi, fu in un certo senso simile a quello di Pablo Neruda, con cui abbiamo aperto la nostra lista. Simile ma non uguale, visto che Neruda era un personaggio di primo piano della scena letteraria, famoso in tutto il mondo, mentre Hikmet è stato riscoperto, almeno in Italia, relativamente tardi.
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Il poeta turco venne tra l’altro scarcerato dalle prigioni del suo paese solo grazie alle pressioni internazionali esercitate da un gruppo di intellettuali tra i quali figurava proprio Neruda. Che in qualche modo vedeva nel collega turco un compagno d’armi e di sventure.

Negli anni ’50, finalmente libero, Hikmet visse quindi tra la Polonia e l’Unione Sovietica, viaggiando però molto anche all’estero. Morì nel 1963, a causa dei problemi cardiaci che a lungo l’avevano afflitto. Della morte, così come la celebre Alla vita, fu composta durante gli anni del carcere, dove Hikmet ebbe il primo grave infarto.
Della morte
Entrate, amici miei, accomodatevi
siate i benvenuti
mi date molta gioia.
Lo so, siete entrati per la finestra della mia cella
mentre dormivo.
Non avete rovesciato la brocca
né la scatola rossa delle medicine.
I visi nella luce delle stelle
state mano in mano al mio capezzale.
Com’è strano
vi credevo morti
e siccome non credo né in Dio né all’aldilà
mi rammaricavo di non aver potuto
offrirvi ancora un pizzico di tabacco.
Com’è strano
vi credevo morti
e voi siete venuti per la finestra della mia cella
entrate, amici miei, sedetevi
siate i benvenuti
mi date molta gioia.
Hascìm, figlio di Osmàn,
perché mi guardi a quel modo?
Hascìm figlio di Osmàn
è strano
non eri morto, fratello,
a Istanbul, nel porto
caricando il carbone su una nave straniera?
Eri caduto col secchio in fondo alla stiva
la gru ti ha tirato su
e prima di andare a riposare
definitivamente
il tuo sangue rosso aveva lavato
la tua testa nera.
Chi sa quanto avevi sofferto.
Non restate in piedi, sedetevi.
Vi credevo morti.
Siete entrati per la finestra della mia cella
i visi nella luce delle stelle
siate i benvenuti
mi date molta gioia.
Yakùp, del villaggio di Kayalar
salve, caro compagno,
non eri morto anche tu?
Non eri andato nel cimitero senz’alberi
lasciando ai tuoi bambini la malaria e la fame?
Faceva terribilmente caldo, quel giorno
e allora, non eri morto?
E tu, Ahmet Gemìl, lo scrittore?
Ho visto coi miei occhi
la tua bara scendere nella fossa.
Credo anche di ricordarmi
che la tua bara fosse un po’ corta per la tua statura.
Lascia stare, Gemìl
vedo che ce l’hai sempre, la vecchia abitudine
ma è una bottiglia di medicina, non di rakì.
Ne bevevi tanto
per poter guadagnare cinquanta piastre al giorno
e dimenticare il mondo nella tua solitudine.
Vi credevo morti, amici miei
state al mio capezzale la mano in mano
sedete, amici miei, accomodatevi.
Benvenuti, mi date molta gioia.
La morte è giusta, dice un poeta persiano,
ha la stessa maestà colpendo il povero e lo scià.
Hascìm, perché ti stupisci?
Non hai mai sentito parlare di uno scià
morto in una stiva con un secchio di carbone?
La morte è giusta, dice un poeta persiano.
Yakùp
mi piaci quando ridi, caro compagno
non ti ho mai visto ridere così
quando eri vivo…
Ma lasciatemi finire
la morte è giusta dice un poeta persiano…
Lascia quella bottiglia, Ahmer Gemìl,
non t’arrabbiare, so quel che vuol dire
affinché la morte sia giusta
bisogna che la vita sia giusta.
Il poeta persiano …
Amici miei, perché mi lasciate solo?
Dove andate?
5. Fernando Pessoa – La morte è la curva della strada
Gli eteronimi e le svolte della vita
Passiamo ora a Fernando Pessoa, poeta portoghese vissuto nella prima metà del XX secolo. Eclettico negli interessi e nelle creazioni, è famoso anche per aver inventato diversi eteronimi3 per pubblicare le proprie raccolte.
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Era come se Pessoa attraverso questi nomi vivesse più vite, spesso affidando ai suoi alter ego l’espressione di idee poco usuali o poco popolari. D’altronde, il poeta aveva davvero più vite e più interessi: portoghese ma anche anglofono, interessato all’occultismo, intellettuale e misterioso.
Anche la sua idea della morte si accostava a tutto questo, a questa fascinazione per il mistero e l’occulto. Nella sua idea, la finzione si mescolava alla realtà, l’identità si faceva vaga e tenue, e perfino l’esistenza diventava qualcosa di estremamente aleatorio4.
Dal canto suo, Pessoa morì piuttosto giovane, nel 1935, a 47 anni d’età. La sua dipartita fu causata probabilmente da una cirrosi epatica, per via del troppo alcool ingerito per tutta la vita. Se ne andò chiedendo gli occhiali e invocando proprio i suoi eteronimi.
La morte è la curva della strada
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
Altre 5 poesie sulla morte, oltre alle 5 già segnalate
Già le cinque poesie che abbiamo presentato finora, secondo noi, danno un’immagine forte e particolare della morte. Potrebbero però non bastarvi, perché l’addio a questo mondo presenta mille sfumature diverse e confrontarsi con esso è un’esigenza purtroppo sempre attuale. Ecco altre cinque poesie al riguardo che ampliano il discorso.
Henry Scott Holland – La morte non è niente
La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.
Edgar Allan Poe – Annabel Lee
Molti e molti anni or sono,
in un regno vicino al mare,
viveva una fanciulla che potete chiamare
col nome di Annabel Lee;
aveva quella fanciulla un solo pensiero:
amare ed essere amata da me.
Io fanciullo, e lei fanciulla,
in quel regno vicino al mare:
ma ci amavamo d’amore ch’era altro che amore,
io e la mia Annabel Lee;
di tanto amore i serafini alati del cielo
invidiavano lei e me.
E proprio per questo, molto molto tempo fa,
in quel regno vicino al mare,
uscì un gran vento da una nuvola e raggelò
la mia bella Annabel Lee;
e così giunsero i nobili suoi genitori
e la portarono lontano da me,
per chiuderla dentro una tomba
in quel regno vicino al mare.
Gli angeli, molto meno felici di noi, in cielo,
invidiavano lei e me:
e fu proprio per questo (come sanno tutti
in quel regno vicino al mare),
che, di notte, un gran vento uscì dalle nubi,
raggelò e uccise la mia Annabel Lee.
Ma il nostro amore era molto, molto più saldo
dell’amore dei più vecchi di noi
(e di molti di noi assai più saggi):
né gli angeli, in cielo, lassù,
né i demoni, là sotto, in fondo al mare
mai potranno separare la mia anima
dall’anima di Annabel Lee.
Mai, infatti, la luna risplende ch’io non sogni
la bella Annabel Lee:
né mai sorgono le stelle ch’io non veda
splendere gli occhi della bella Annabel Lee,
e così, per tutta la notte, giaccio a fianco
del mio amore: il mio amore, la mia vita,
la mia sposa, nella sua tomba, là vicino al mare,
nel suo sepolcro, sulla sponda del mare.
Lord Byron – Epitaffio a un cane
In questo luogo
giacciono i resti di una creatura
che possedette la Bellezza
ma non la Vanità
la Forza ma non l’Arroganza
il Coraggio ma non la Ferocia
E tutte le Virtù dell’uomo
senza i suoi Vizi.
Quest’elogio, che non sarebbe che vuota lusinga
sulle ceneri di un uomo,
è un omaggio affatto doveroso alla memoria di
“Boatswain”, un cane che nacque in Terranova
nel maggio del 1803
e morì a Newstead Abbey
il 18 novembre 1808.
Quando un fiero figlio dell’uomo
al seno della terra fa ritorno,
sconosciuto alla gloria, ma sorretto
da nobili natali,
lo scultore si prodiga a mostrare
il simulacro vuoto del dolore,
e urne istoriate ci rammentano
l’uomo che giace lì sepolto;
e quando ogni cosa si è compiuta
sul sepolcro noi potremo leggere
non chi fu quell’uomo,
ma chi doveva essere.
Ma il misero cane, l’amico più caro in vita,
che per primo saluta
e che difende ultimo,
il cui bel cuore appartiene al suo padrone,
che lotta, respira,
vive e fatica per lui solo,
cade senza onori;
e solo col silenzio
è premiato il suo valore;
e l’anima che fu sua su questa terra
gli vien negata in cielo;
mentre l’uomo, insetto vano!,
spera il perdono, e per sé solo
pretende un paradiso intero.
O uomo! flebile inquilino della terra per un’ora,
abietto in servitù, corrotto dal potere,
ti fugge con disgusto chi ti conosce bene,
o vile massa di polvere animata!
L’amore in te è lussuria, l’amicizia truffa,
la parola inganno, il sorriso menzogna!
Vile per natura, nobile sol di nome,
ogni animale ti mette alla vergogna.
O tu, che per caso guardi quest’umile sepolcro,
passa e va’: non è in onore
di creatura degna del tuo pianto.
Esso fu innalzato per segnare
il luogo ove tutto quel che di un amico resta
riposa in pace;
un sol ne conobbi: e qui si giace.
Emily Dickinson – Se dovessi morire
Se io dovessi morire –
E tu dovessi vivere –
E il tempo gorgogliasse –
E il mattino brillasse –
E il mezzodì ardesse –
Com’è sempre accaduto –
Se gli Uccelli costruissero di buon’ora
E le Api si dessero altrettanto da fare –
Ci si potrebbe accomiatare a discrezione
Dalle imprese di quaggiù!
È dolce sapere che i titoli terranno
Quando noi con le Margherite giaceremo –
Che il Commercio continuerà –
E gli Affari voleranno vivaci –
Rende la partenza tranquilla
E mantiene l’anima serena –
Che gentiluomini così brillanti
Dirigano la piacevole scena!
William Butler Yeats – Un aviatore irlandese prevede la sua morte
Sento che troverò il mio fato
In un luogo tra le nuvole lassù;
Coloro ch’io combatto io non odio,
Coloro ch’io difendo io non amo;
Il mio paese è Kiltartan Cross,
Etnici compaesani i suoi pezzenti,
Non può alea nessuna menomarli
O rendere più lieti che in passato.
Non legge né dovere m’imposero la guerra,
Non uomini politici, né folle plaudenti,
Un impulso gioioso e solitario
Trasse a questo tumulto fra le nubi;
Ho soppesato tutto, valutato ogni cosa,
Gli anni avvenire parvero uno spreco di fiato,
Spreco di fiato gli anni del passato,
In bilico con questa vita, questa morte.
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E voi, quale poesia sulla morte preferite?
Note e approfondimenti
- 1 Il periodo di internamento va dai primi anni ’60 a tutti gli anni ’70, anche se per brevi periodi poté uscire e rientrare in famiglia.
- 2 La Dowling era un’attrice americana che, tra il 1947 e il 1950, visse in Italia assieme alla sorella, recitando pure in qualche pellicola. In questo video si possono vedere alcune sue foto dell’epoca. Ebbe una breve frequentazione con Pavese, anche se non è dato sapere quanto profondo (e condiviso) fosse il loro rapporto. Ritornò in fretta e furia in America nel 1950, lasciando il poeta con un palmo di naso. Ebbe poi una relazione con Elia Kazan e sposò infine un produttore di Hollywood. Non divenne però mai una star e morì, ancora giovane, nel 1969, forse suicida.
- 3 Qualcosa di ben diverso dal semplice pseudonimo, perché i nomi da lui creati corrispondevano a veri e propri personaggi, che avevano tutta una biografia – inventata – alle spalle e una loro personalità.
- 4 Un tema, questo, sfruttato anche da un grande ammiratore di Pessoa, José Saramago. Nel 1984 lo scrittore portoghese pubblicò infatti il romanzo L’anno della morte di Ricardo Reis, rendendo protagonista dello scritto proprio uno dei più noti eteronimi di Pessoa. Ed immaginando che giungesse in Portogallo, nel 1936, dopo aver saputo della morte del poeta.