
Quante volte gli uomini hanno alzato gli occhi al cielo, di notte, e si sono chiesti quale sia il loro ruolo nell’universo! È probabilmente l’attività più antica dell’umanità, capace di provocare i quesiti esistenziali più profondi: da dove veniamo? Qual è il nostro destino? Cosa ci stiamo a fare su questa Terra? Tutte domande, d’altra parte, che hanno stimolato filosofi e poeti; e non è un caso che esistano alcune straordinarie citazioni e poesie sulle stelle che “costellano” la letteratura mondiale.
Sia in Italia che all’estero, infatti, i poeti antichi e quelli moderni si sono spesso interrogati sulle stelle, sul cielo e sul nostro rapporto con tutto questo. Gli esiti di queste domande sono spesso stati due. Da un lato, c’è l’incanto per la meraviglia. Dall’altro, la malinconia che la nostra piccolezza ci provoca.
Le stelle, d’altronde, ci guardano solitarie e ci ricordano la nostra miseria, ma sono anche un segno di quanto sia grande e maestoso l’Universo. Ci esaltano e ci abbassano allo stesso tempo, ci fanno sognare pur rimanendo dei misteri, almeno in parte, anche per la scienza moderna.
Per questo gli spazi siderali hanno sempre qualcosa da dire sia ai romantici che ai malinconici. Per provarvelo, abbiamo selezionato cinque poesie molto belle, che potrete dedicare alle vostre persone care; sia a quelle che hanno voglia di sognare, sia a quelle che invece si interrogano sull’esistenza. Eccole, assieme a qualche breve nota introduttiva.
Indice
1. Giovanni Pascoli – X Agosto
Cominciamo con quella che di sicuro è una delle poesie sulle stelle più famose: X Agosto di Giovanni Pascoli. Purtroppo, però, non si tratta di una lirica sognante o romantica: quelle le vedremo più tardi, andando avanti col nostro elenco.
Come forse ricorderete, in questa poesia infatti il poeta rievoca la morte di suo padre, avvenuta il 10 agosto 1867, quando Giovanni aveva appena 11 anni. Una morte che lasciò un segno profondo nell’animo di Pascoli, anche perché avvenne in circostanze misteriose: il padre Ruggero fu infatti ucciso mentre tornava a casa1.
Il giorno di San Lorenzo, in cui le stelle cadono, diventa quindi il simbolo del pianto del piccolo Giovanni, che vide la sua infanzia svanire all’improvviso. E le stelle, d’altra parte, sono anche questo: rischiarano la notte, ci permettono di esprimere desideri, ma ci ricordano anche di continuo che i desideri non sempre si avverano.

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
2. Trilussa – Stella cadente
Trilussa, per certi versi, scrisse in un periodo simile a quello di Giovanni Pascoli. Certo era più giovane di una quindicina d’anni, e soprattutto visse più a lungo: Pascoli si spense prima della Prima guerra mondiale, Trilussa arrivò a superare la Seconda.
Nonostante questa vicinanza cronologica, i due però erano distanti dal punto di vista dello stile. La poesia di Pascoli è legata al decadentismo e al simbolismo, inserita nelle più importanti correnti letterarie del tempo, ma anche segnata da idee chiare, come quelle del nido e del fanciullino.
Trilussa fu invece un poeta più istintivo e forse anche per questo più vicino alla gente. La sua scelta del dialetto romanesco lo rese estremamente popolare, come la volontà di occuparsi di temi quotidiani, dalla statistica all’amore. E, nella poesia che segue, parlò anche di stelle e dei desideri che si esprimono quando le si vede cadere.

Quanno me godo da la loggia mia
quele sere d’agosto tanto belle
ch’er celo troppo carico de stelle
se pija er lusso de buttalle via,
a ognuna che ne casca penso spesso
a le speranze che se porta appresso.
Perché la gente immaggina sur serio
che chi se sbriga a chiede quarche cosa
finché la striscia resta luminosa,
la stella je soddisfa er desiderio;
ma, se se smorza prima, bonanotte:
la speranzella se ne va a fa’ fotte.
Jersera, ar Pincio, in via d’esperimento,
guardai la stella e chiesi: — Bramerei
de ritrovamme a tuppertù co’ lei
come trent’anni fa: per un momento.
Come starà Lullù? dov’è finita
la donna ch’ho più amato ne la vita? —
Allora chiusi l’occhi e ripensai
a le gioje, a le pene, a li rimorsi,
ar primo giorno quanno ce discorsi,
a quela sera che ce liticai…
E rivedevo tutto a mano a mano,
in un nebbione piucchemmai lontano.
Ma ner ricordo debbole e confuso
ecco che m’è riapparsa la biondina
quanno venne da me quela matina,
giovene, bella, dritta come un fuso,
che me diceva sottovoce: — È tanto
che sospiravo de tornatte accanto! —
Er fatto me pareva così vero
che feci fra de me: — Questa è la prova
che la gioja passata se ritrova
solo nel labirinto der pensiero.
Qualunquesia speranza è un brutto tiro
de l’illusione che ce pija in giro. —
Però ce fu la mano der Destino:
perché, doppo nemmanco un quarto d’ora,
giro la testa e vedo una signora
ch’annava a spasso con un cagnolino.
Una de quele bionde ossiggenate
che perloppiù ricicceno d’ estate.
— Chissà — pensai — che pure ‘sta grassona
co’ quer po’ po’ de robba che je balla
nun sia stata carina? — E ner guardalla
trovai ch’assommava a ‘na persona…
Speciarmente er nasino pe’ l’insù
me ricordava quello de Lullù…
Era lei? Nu’ lo so. Da certe mosse,
da la maniera de guarda la gente,
avrei detto: — È Lullù, sicuramente… —
Ma ner dubbio che fosse o che nun fosse
richiusi l’occhi e ritornai da quella
ch’avevo combinato co’ la stella.
3. Vladimir Majakovskij – Ascoltate!
Spostiamoci ora in Russia. Non in quella di oggi, però, bensì in quella della Rivoluzione bolscevica di un secolo fa, quella carica di speranze e sogni che sarebbero presto stati disillusi dalla piega che il regime comunista avrebbe presto preso. Uno dei più importanti intellettuali di quei primi anni post-rivoluzionari fu Vladimir Majakovskij.
Poeta e rivoluzionario nelle arti così come nella vita, Majakovskij fu nei primi anni, a cavallo tra Lenin e Stalin, la voce artistica del regime. Aveva aderito già da giovane alla fazione bolscevica e fu per qualche tempo entusiasta degli esiti della rivoluzione d’ottobre. Poi, sotto Stalin, qualcosa iniziò a cambiare.
Le delusioni politiche e anche quelle amorose portarono quindi Majakovskij al suicidio nel 1930, a 36 anni. Un suicidio su cui si è molto discusso, perché qualcuno vi ha visto anche la longa manus di Stalin. Di lui però ci restano alcune splendide poesie, dal forte potere evocativo. Come questa Ascoltate!, in cui il poeta si interroga sul bisogno di fedi dell’umanità.

Se accendono le stelle,
vuol dire forse che a qualcuno servono,
che qualcuno desidera che esse siano,
che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi?
E, forzando
le bufere di polvere del meriggio,
si spinge fino a Dio,
teme d’essere in ritardo,
piange,
gli bacia la mano nodosa,
implora
– ha bisogno di una stella! –
giura
che non può sopportare questo martirio senza stelle!
E poi
cammina inquieto,
fa finta d’esser calmo.
Dice a qualcuno:
“Allora, adesso, stai meglio?
Non hai paura?
No?!”.
Ascoltate!
Se accendono
le stelle,
vuol dire forse che a qualcuno servono,
che è indispensabile
che ogni sera
sopra i tetti
risplenda almeno una stella?
4. Hermann Hesse – Così vanno le stelle
Hermann Hesse visse gli stessi sconvolgimenti sociali e politici di Majakovskij, anche se anche in questo caso abbiamo un poeta più vecchio di una quindicina d’anni. Ma quei cambiamenti li visse in Germania, un paese ben diverso dalla Russia zarista, in cui i problemi sociali portarono all’emergere non del comunismo ma del nazismo.
Hesse, da parte sua, ne fu sempre un fiero avversario, tanto da farsi portatore invece di ideali pacifisti e da rifugiarsi, in una sorta di esilio volontario, in Svizzera già durante la Prima guerra mondiale. Interessato alla filosofia di Schopenhauer e Nietzsche ma anche al pensiero orientale, cercò sempre una propria via verso la felicità.
Nella poesia che vi proponiamo, intitolata Così vanno le stelle, Hesse sembra sottolineare proprio questa lotta tra la caducità della vita terrena e la speranza in un mondo superiore, rappresentato dalle stelle e dalla loro luce. Un contrasto che ci genera, come direbbero gli esistenzialisti e i romantici, una sorta di nostalgia dell’infinito difficile da sopportare.

Così per la lor via vanno le stelle,
incomprese, immutabili!
Tu, mentre noi ci dibattiamo in vincoli,
di luce in luce ascendi.
Tu, la cui vita è tutta di splendore!
E se dalle mie tenebre
devo tendere a te braccia nostalgiche
sorridi e non m’intendi.
5. Giuseppe Ungaretti – La notte bella
Concludiamo – prima di un regalo, una sorta di bonus track finale – ritornando in Italia con un’altra lirica scritta nel nostro paese. Rispetto a quella di Pascoli con cui abbiamo aperto il nostro elenco dobbiamo però spostarci un po’ avanti, almeno fino alla Prima guerra mondiale.
La notte bella fu infatti composta da Giuseppe Ungaretti in trincea, assieme ad una serie di altre liriche che sono entrate nella storia della nostra letteratura. Scritta nel 1916, descrive le sensazioni provate dal poeta guardando un cielo stellato, cielo che gli consente, quasi inaspettatamente, di sentirsi in contatto con la natura.
Sapere che fu composta durante la guerra, in mezzo a giornate in cui l’unica compagna era la morte, le dà un effetto più potente. Perché è proprio nei momenti più bui, quando sembra che nulla abbia senso e che la vita sia solo dolore, che la natura – con magari uno straordinario cielo stellato – ci risveglia l’idea di qualcosa di più grande.

Quale canto s’è levato stanotte
che intesse
di cristallina eco del cuore
le stelle
Quale festa sorgiva
di cuore a nozze
Sono stato
uno stagno di buio
Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio
Ora sono ubriaco
d’universo
Un bonus non richiesto: Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi
Con le cinque poesie che vi abbiamo presentato finora ci sembra di avervi dato una buona panoramica sul tema delle stelle. D’altronde, ne abbiamo mostrate alcune che le vedono ottimisticamente e altre che invece provocano nostalgia o malinconia.
Non abbiamo però citato quella che forse è la più famosa poesia mai scritta sulle stelle e sul cielo notturno, almeno in Italia. Si tratta del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composto da Giacomo Leopardi tra il 1829 e il 1830 e contenuto nei Canti.
In esso, come ricorderete, il poeta recanatese – tramite appunto la figura di un pastore – si rivolge in realtà alla luna, ma le stelle fanno spesso capolino. E ci sembrava quindi brutto dimenticarlo e lasciarlo fuori dalla nostra lista, anche se chiaramente questa lunga poesia è più complicata da citare o dedicare.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
– A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono? –
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
– Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? –
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
E voi, quale poesia sulle stelle preferite?
Note e approfondimenti
- 1 Su chi fossero gli esecutori e i mandanti dell’omicidio si è discusso a lungo. E si discute ancora oggi, come dimostra questo recente articolo.