Il significato di “empirico” e cinque importanti filosofi empiristi

Alla scoperta del significato di empirico (foto di Bill Tyne via Flickr)
Alla scoperta del significato di empirico (foto di Bill Tyne via Flickr)

La filosofia si fonda, com’è noto, su alcune parole specifiche, che ne identificano spesso i cardini. “Ontologia”, “metafisica”, “gnoseologia”, “logica” sono, ad esempio, i termini che vengono usati tradizionalmente per dare un nome ad alcune delle sue parti, ma allo stesso modo “sillogismo”, “necessità”, “razionalismo”, “sostanza”, “a priori” e così via sono espressioni specifiche, di cui è fondamentale conoscere il significato. Oggi, però, vogliamo soffermarci su un’altra parola, cioè sul significato di “empirico”, un termine che ha segnato una parte importante della storia della filosofia.

Il termine deriva dal greco ἐμπειρία (empeirìa)1, che indicava l’esperienza. Un’esperienza sensibile, concreta, realizzata appunto tramite l’utilizzo dei sensi. Empirico era quindi ciò che risultava alla vista, al tatto, all’udito.

Il problema, fin dai greci, è stato che la conoscenza empirica appariva spesso come meno solida di quella razionale. Mentre tutti sono d’accordo nel dire che 2+2 fa 4, su un certo odore o su un certo suono si può discutere e trovarsi più facilmente in disaccordo.

D’altra parte, anche i greci si rendevano conto che escludere i sensi dalla conoscenza era un’operazione ardita e pericolosa. Voleva dire, sì, andare al di là dell’apparenza, ma comportava dei rischi: e il rischio principale era quello di costruire una scienza completamente campata per aria, priva di qualsiasi aderenza alla realtà.

Anche per questo motivo, nel corso della storia sono emersi vari filosofi che hanno espresso profonda fiducia nei sensi e nell’esperienza sensibile. Presentiamo i principali.

La foto di copertina è di Bill Tyne (via Flickr)

 

1. Aristotele (e San Tommaso)

Solitamente, quando si vuole formulare un elenco dei filosofi empiristi si comincia da Aristotele (e, di conseguenza, anche da San Tommaso, che di fatto riprese la filosofia del maestro greco in chiave cristiana). A essere rigorosi, però, Aristotele non fu propriamente un empirista.

Lo si introduce in quest’elenco, quindi, più che altro perché, rispetto al suo maestro Platone, manifestò una maggior attenzione verso la natura e verso quello che i sensi gli dicevano. I sensi, per Aristotele, erano però solo un mezzo: alle conoscenze empiriche bisognava, se si voleva arrivare alla verità, sempre aggiungere l’intelletto.

Basti pensare, ad esempio, al discorso sulle premesse, fondamentali per il sillogismo. Queste premesse si possono infatti per Aristotele trovare anche per via induttiva, cioè tramite l’esperienza, ma per essere ritenute valide hanno comunque bisogno di un’intuizione razionale che permetta di cogliere, al di là dell’esperienza, la vera natura di ciò di cui si parla.

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2. Francesco Bacone

L’empirismo ha dato il nome, tra le altre cose, a una intera corrente filosofica: quella dell’empirismo inglese. La mentalità empirica si era però imposta nell’isola britannica già da qualche tempo, prima che questa corrente prendesse il sopravvento. E spesso la si fa risalire a Guglielmo di Ockham e, soprattutto, a Francesco Bacone.

Vissuto tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, Bacone fu fortemente influenzato dai cambiamenti della rivoluzione scientifica. E cercò di farli propri, usandoli anche per attaccare Aristotele. Lui proponeva infatti un nuovo tipo di induzione, che si basava su un’osservazione complessa e comparativa.

Lo scienziato, secondo Bacone, doveva osservare i fenomeni compilando delle specifiche tavole, chiamate della presenza, dell’assenza e dei gradi. Dopodiché, solo dopo questa minuziosa osservazione, si potevano formulare delle ipotesi e fare degli esperimenti, fino ad arrivare alla cosiddetta istanza cruciale.

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3. John Locke

Il padre dell’empirismo inglese – e forse il più famoso empirista in assoluto – fu però l’inglese John Locke, che operò verso la fine del Seicento. Anticipatore dell’Illuminismo, punto di riferimento del liberalismo inglese, era convinto che noi conoscessimo solo le idee che nascono dall’esperienza.

Al contrario di Cartesio (e di Platone), secondo lui infatti non esistevano idee innate. Tutte le idee – su cui lavoriamo per formare la nostra conoscenza – derivavano per forza dall’esterno, e cioè dai sensi. Queste prime idee (chiamate idee semplici) poi venivano ricombinate dal nostro intelletto per formare idee complesse.

Pertanto, per il filosofo inglese la nostra conoscenza è figlia di quello che percepiamo e non può mai andare oltre la percezione. Una percezione che trova, però, la sua sicura validità in quella che Locke chiamava la sensazione attuale, cioè nella forza con cui le cose si pongono davanti ai nostri sensi.

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4. George Berkeley

George Berkeley, vissuto pochi anni dopo Locke, riprese alcune tesi del pensatore inglese, portandole però alle estreme conseguenze. Irlandese di nascita, Berkeley infatti era convinto, con Locke, che l’uomo potesse conoscere solo ciò che i sensi gli fornivano; era però meno sicuro che i sensi cogliessero la realtà così com’era.

Noi, di fatto, conosciamo solo i dati che arrivano al nostro cervello. Ma non c’è nulla, secondo Berkeley, che ci assicuri che i dati che partono dalle mani, dagli occhi, dal naso o dalle orecchie siano affidabili. Potrebbe cioè anche darsi, per quanto ne sappiamo, che il mondo esterno non esista e che ci venga proiettato semplicemente nella mente.

Berkeley propende proprio per questa possibilità. Padre dell’immaterialismo, era convinto che la materia non esistesse affatto. Le percezioni che abbiamo della materia e dei corpi, quindi, non sarebbero altro che idee create da Dio e da lui rese percepibili a noi. Il tutto si sintetizza in un aforisma: Esse est percipi, “essere significa essere percepito”.

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5. David Hume

David Hume, terzo e ultimo dei grandi empiristi inglesi, era in realtà scozzese, e visse nel pieno Settecento (tanto che fu anche un illuminista). Anche secondo lui, come per Locke e per Berkeley, noi conosciamo solo le percezioni, o, come le chiama lui, le impressioni. Le idee, d’altra parte, non sono altro che il ricordo delle impressioni.

Il problema principale, però, è stabilire se le idee e le percezioni derivino davvero da qualcosa di esistente all’esterno di noi, o siano, come sosteneva Berkeley, pure illusioni. Hume, consapevole di quanto avevano già scritto i suoi predecessori, sostenne che la scelta più coerente era quella scettica.

Per Hume non c’è modo né per essere sicuri dell’esistenza del mondo esterno, né per negarla. Di fatto, su questo tema non ci si può esprimere e quindi riguardo al mondo esterno si può avere solo una credenza. Detta in altri termini, l’esistenza del mondo esterno non è certa, ma al massimo solo probabile. Un empirismo, insomma, che ha fiducia nelle percezioni, ma non troppa nei sensi.

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Ecco cinque filosofi che hanno dato peso al significato di empirico: vota il tuo preferito.

Note e approfondimenti

  • 1 Si consulti anche la definizione che ne dà la Treccani, qui.

 

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