
Quello tra sport e fascismo è un rapporto molto interessante da approfondire, che segna ed aiuta a capire una pagina importante e lunga della storia d’Italia. Perché il fascismo amò lo sport, o quantomeno cercò di sfruttarlo, e fu dallo sport ampiamente ricambiato.
Nell’arco del ventennio in cui Benito Mussolini dominò la scena italiana, i nostri atleti eccelsero infatti in varie discipline. Quello sportivo fu anzi il settore in cui il regime raccolse i più grandi successi, per certi versi anzi gli unici.
Vincemmo due mondiali di calcio, salimmo sul podio delle nazioni con più medaglie in due olimpiadi consecutive (quelle del 1932 e del 1936) e battemmo diversi record1.
E fu forse il periodo più florido per lo sport italiano anche dal punto di vista dell’attenzione mediatica, visto che i tifosi e i giornali seguivano quelle vicende con l’enfasi che di solito si riserva a eventi ben più gravi.
Perché però questa commistione tra sport e fascismo fu così forte? E come si legò alla politica del regime? Visto che il tema è molto interessante e però allo stesso tempo anche complesso, abbiamo deciso di preparare una scheda di approfondimento, che esamina tutte le cose più importanti in maniera speriamo ordinata e sintetica. Eccola.
Indice
1. Fascistizzare lo Stato, e soprattutto i giovani
Cerchiamo prima di tutto di capire perché il fascismo investì tutti gli sforzi che vedremo nello sport. Alla base di tutto non c’era un mero interesse agonistico, ma qualcosa di molto più concreto: la politica.
Come ricorderete, il fascismo salì al potere nel 1922, sfruttando lo scontento diffuso dopo la Prima guerra mondiale e la paura per i disordini operai che si erano concretizzati durante il cosiddetto “biennio rosso”.
La sua base, lo zoccolo più duro dei suoi sostenitori, era costituito dai reduci di guerra, dai giovani che avevano combattuto al fronte e che ritenevano che l’Italia si fosse dimenticata troppo in fretta dei loro sforzi.
Era quindi un movimento segnato in un certo senso dalla gioventù e dall’irruenza. I primi membri del partito erano quasi tutti ventenni e trentenni che amavano girare armati, menare le mani e vestire in divisa. Il più borghese era Mussolini, uno che aveva fatto la guerra ma che per il momento preferiva indossare giacca e cravatta.
Giunto al potere, fu proprio Mussolini a cercare di rinnovare e ammorbidire l’immagine del suo partito. I giovani squadristi furono presto convinti a diminuire le loro azioni – o ad agire più nascostamente – mentre il leader prendeva contatti con la grande industria, con la chiesa e con tutti i “poteri forti” per assicurarsi una lunga permanenza al potere.
Trasformare gli italiani
Mussolini non si accontentava però solo di essere uno fra i tanti governanti che avevano guidato per un certo periodo l’Italia. Lui voleva rimanere. E per rimanere sapeva bene che doveva trasformare con la forza la faccia dell’Italia.
Dal 1925 in poi l’obiettivo divenne infatti quello di fascistizzare l’Italia, come si diceva allora. Ovvero prendere gli italiani e cambiare loro identità, rinnovandoli. Da popolo di lavoratori che bene o male se la sapevano cavare, bisognava trasformarli in un popolo di combattenti.
Un’impresa quasi impossibile, se si pensava agli adulti, ormai irrigiditi nelle loro caratteristiche. Ma forse più facile se ci si rivolgeva si giovani, agli italiani del futuro. O almeno fu questo il ragionamento che fece il regime, puntando tutto sull’inquinamento e l’irreggimentazione dei giovani.
Trasformare gli adulti di domani in perfetti fascisti e in perfetti guerrieri avrebbe garantito continuità al regime ma anche potenza militare all’Italia. E per plasmare i muscoli degli italiani, ma anche la loro dedizione e lo spirito di sacrificio, lo sport era l’alleato ideale.
2. L’Opera Nazionale Dopolavoro e l’Opera Nazionale Balilla
Fu per tutti questi motivi che il fascismo investì notevoli sforzi nell’inquadrare i ragazzi e i lavoratori in strutture che erano un misto tra le società sportive, le organizzazioni giovanili e l’esercito.
Negli anni ’20, nel pieno di questo sforzo di fascistizzazione degli italiani, furono fondate infatti quelle organizzazioni che avevano lo scopo di tenere le persone legate al fascismo.
Prima di tutto nacque l’Opera Nazionale Dopolavoro, che aveva il compito di fornire ai lavoratori dei momenti di svago coordinati dallo Stato.
Invece che bighellonare per la città, magari intenti a discutere di politica con qualche sobillatore, i lavoratori dovevano riunirsi in locali offerti dal Partito e darsi a varie attività ricreative, che li portavano ad agire di più e a pensare di meno.
In questi centri non mancavano giochi tipici dei bar italiani, come i ping pong o i biliardi, ma spesso si organizzavano anche gite sociali che permettevano alle famiglie di fare un po’ di movimento.
I ragazzi e i bambini
Ancora più efficiente era però l’Opera Nazionale Balilla, riservata ai bambini e ai ragazzi in età scolare. I vari raggruppamenti, divisi per età e per sesso, avevano il compito di formare i ragazzi allo sport e ad attività para-militari, o comunque propedeutiche al servizio militare.
Inoltre dovevano formare nei ragazzi l’identità di corpo, il culto dell’obbedienza, l’amore per la patria e soprattutto per il Duce.
Le organizzazioni giovanili dovevano formare nei ragazzi l’identità di corpo, il culto dell’obbedienza, l’amore per la patria e soprattutto per il Duce.
Proprio in questo ambito si formò il cosiddetto sabato fascista, un pomeriggio obbligatorio in cui tutti i ragazzi si dovevano radunare con loro compagni per svolgere vari esercizi ed essere contemporaneamente indottrinati al regime.
L’opposizione della Chiesa
Una cerimonia, in un certo senso quasi un rituale che contrastava con quelli che fino a quel momento erano stati tenuti dalla Chiesa cattolica. Nonostante i Patti Lateranensi del 1929, la cosiddetta luna di miele con le gerarchie ecclesiastiche non durò infatti moltissimo.
La Chiesa vedeva anzi come un affronto quasi personale il fatto che Mussolini volesse accaparrarsi i giovani italiani, rubandoli evidentemente alle parrocchie e alle varie organizzazioni giovanili cattoliche, come gli scout o l’Azione Cattolica.
Per questo motivo, durante il tutti gli anni ’30 si svolse una sorta di braccio di ferro tra il fascismo e la Chiesa per assicurarsi il tempo libero dei giovani e di lavoratori. Un braccio di ferro che fu in buona parte vinto dal regime che ebbe, se non per brevi momenti o per sparute eccezioni, vera e propria mano libera.
Queste strutture erano, d’altra parte, prima di tutto un mezzo di propaganda che si esplicava in particolare tramite la ginnastica e lo sport. E sulle quali non si poteva affatto cedere.
3. Mussolini lo sportivo
Il regime fascista non si accontentò però di far sudare i ragazzi, di farli marciare e di infondere in loro uno spirito di squadra che sconfinava in quello cameratesco. Voleva anche, come in parte abbiamo già detto, plasmare un uomo nuovo, un uomo forte, un combattente che portasse lustro alla stirpe, o, dal 1938 in poi, alla razza italiana.
In questo senso erano utilissime le varie organizzazioni, ma più di tutto poteva l’esempio. E chi meglio del Duce, cioè di Benito Mussolini, poteva rappresentare il modello di questo uomo nuovo che il fascismo doveva plasmare? Anzi, in un certo senso più che a un ideale astratto, gli italiani dovevano assomigliare proprio al loro condottiero.
Di per sé, in realtà, fino alla presa del potere e ai primi anni di governo, Mussolini non aveva mai esibito particolare prestanza fisica. Aveva fatto sì la guerra da volontario, ma era stato ferito quasi subito. Il suo corpo, d’altra parte, era particolarmente massiccio, poco propenso almeno apparentemente alla corsa e allo sport.
Perfino durante la Marcia su Roma, che per certi versi fu una sorta di grandiosa esibizione ginnica, Mussolini preferì restare a Milano a guardare i suoi uomini sfilare verso la capitale (anche per evitare l’eventuale arresto).
Il corpo del Duce
Dalla fine degli anni ’20 in poi, però, la propaganda cominciò a martellare sempre più pesantemente su un Mussolini prestante e dotato fisicamente. Non c’era occasione in cui non lo si fotografasse, a petto scoperto, a lavorare, a correre o a giocare, mostrando tutta la virilità di cui il popolo italiano doveva dotarsi.
Lo si vedeva a raccogliere il grano ma anche a nuotare, a tirare di scherma e perfino a giocare a calcio, quello sport inglese che il Duce non amava particolarmente, ma a cui si doveva applicare per compiacere i gusti degli italiani.
Un possibile rivale nell’aria
Non è un caso che gli unici problemi di rivalità nel cuore degli italiani Mussolini li ebbe proprio con quei fascisti che primeggiavano negli sport. In particolare, per una certa fase l’uomo che sembrò in grado di oscurare almeno in parte la sua stella fu Italo Balbo, più giovane di lui e sicuramente più ardito di lui.
L’uomo, ferrarese, era stato uno dei fascisti della prima ora, addirittura uno dei quadrumviri che avevano guidato i fascisti su Roma durante la Marcia del 1922, quando aveva appena 26 anni. Aveva avuto subito anche incarichi governativi, ma si era fatto notare soprattutto per le sue imprese aeree.
Appassionato aviatore, guidava l’aereo – e in particolare gli idrovolanti – come fossero auto da corsa, compiendo imprese e battendo record che esaltavano l’entusiasmo degli italiani.
Fu proprio per non venire offuscato dal suo prestigio che Mussolini decise, già nel 1933, di spedirlo in Africa come governatore della Libia. Un incarico di prestigio, che serviva però soprattutto a tenerlo lontano dall’Italia.
Il caso Italo Balbo
Balbo, d’altra parte, era forse il principale oppositore di Mussolini all’interno del Partito Fascista. Nonostante non lo si potesse dire in pubblico, nelle riunioni segrete criticò spesso l’avvicinamento del Duce alla Germania e la scelta di entrare in guerra al fianco di Hitler.
Fu inoltre fortemente contrario alle leggi razziali, visto anche che proveniva da una città, Ferrara, in cui la componente ebraica era importante e tra l’altro legatissima al fascismo.

Da aviatore visse e da aviatore pure morì, durante la Seconda guerra mondiale. Fu abbattuto infatti in Libia, assieme ad altri suoi uomini, per errore dalla stessa contraerea italiana.
La vedova sostenne a lungo che non ci fosse errore, e che quell’incidente fosse una scusa per toglierlo di mezzo. Ricerche accurate compiute anche di recente, però, fanno propendere effettivamente per l’errore umano.
4. Gli sport prediletti
Ma quali furono gli sport che il fascismo fece propri, o che comunque finì per esaltare per fini propagandistici? In generale possiamo dire che l’intento dei vari funzionari che furono assegnati a quest’ambito si rivelò oscillante nel corso degli anni.
Da un lato infatti il regime voleva esaltare gli sport di squadra e fisici, funzionali all’idea di una stirpe di guerrieri. Come abbiamo detto, d’altra parte, il movimento fascista era nato come diretta evoluzione dei gruppi di combattenti, che agivano in squadra per raggiungere l’obiettivo comune.
Il regime voleva esaltare gli sport di squadra più fisici, funzionali all’idea di una stirpe di guerrieri.
Ben presto, però, il fascismo dovette venire a patti con la realtà. Erano infatti altri gli sport che maggiormente conquistavano i favori del pubblico. E il regime cercò di cavalcarli, trasformando i vari campioni in elementi di propaganda.
Il ciclismo, sport nazionale
Nei primi anni del secolo lo sport più amato dagli italiani era indubbiamente il ciclismo. Uno sport, questo sì, che si sposava abbastanza bene con l’estetica fascista. C’erano la fatica, lo sforzo, la lunga salita, la dedizione. C’era anche l’idea del gregario che si sacrifica per il leader. C’era, inoltre, l’idea stessa di velocità.
Il Giro d’Italia si correva già dal 1909 e aveva via via guadagnato sempre più consensi. Anche perché a correrlo erano alcuni dei più grandi campioni italiani di tutti i tempi, da Costante Girardengo ad Alfredo Binda, fino anche, negli ultimi anni del regime, a Gino Bartali e Fausto Coppi.
I motori
Sulla stessa falsariga si sviluppò anche l’amore per i motori e in particolare per le auto. Il fascismo era infatti un movimento conservatore dal punto di vista ideologico, ma anche affascinato dai miti della modernità. Si proponeva non a caso come rivoluzionario e aveva inglobato al proprio interno anche parti dell’estetica futurista.
Così, mentre esaltava le famiglie numerose italiane che vivevano nelle campagne, non disdegnava neppure il progresso tecnico. Ad esempio, investì molto nelle imprese dell’aria, sia col già citato Balbo, sia anche coi dirigibili di Umberto Nobile.
Per quanto riguarda l’automobilismo, non era ancora l’epoca della Formula 1, ma già dall’inizio del secolo erano sorte diverse gare di caratura internazionale. Nel 1922 era stato costruito, ad esempio, il circuito di Monza, il primo nell’Europa continentale. Inoltre Alfa Romeo e Maserati dominavano i vari Gran Premi con le loro vetture.
La corsa di maggior successo durante l’epoca fascista fu però indubbiamente la Mille Miglia, la cui prima edizione si disputò nel 1927. Per tutti gli anni ’30 essa attirò autisti e soprattutto spettatori, che passavano ore in strada per vedere passare le vetture.
Ma la Mille Miglia fu una gara segnata anche da sciagure. Come quando, nel 1938, a Bologna una Lancia Aprilia uscì di strada uccidendo 10 spettatori.
Il pugilato e la scherma
In breve tempo però il fascismo cercò di impossessarsi anche degli sport individuali indoor. Lo fece un po’ controvoglia, per la verità, a causa soprattutto del successo di alcuni campioni che ottenevano ottimi risultati.
Ad esempio, così fu per il pugilato, in cui le vittorie di Primo Carnera – di cui parleremo nel prossimo punto – entusiasmarono tutta la nazione. Questo sport, di per sé, poteva ben conformarsi con l’ideale fascista, ma il rischio era quello di andare incontro a sonore figuracce.
Il caso di Carnera in questo senso è emblematico. Dopo essere diventato campione del mondo nei pesi massimi nel 1933, perse il titolo l’anno successivo in un match contro l’americano Max Baer, un pugile ebreo. Non erano ancora gli anni delle leggi razziali, almeno non in Italia, ma perdere contro un ebreo non era una cosa che il regime gradiva.
Meglio andò con la scherma, uno sport poco popolare e quasi nobile, che però affascinava Mussolini. L’Italia è tradizionalmente molto forte in questa disciplina – tanto è vero che ancora oggi è la nazione col maggior numero di medaglie olimpiche – e si comportò molto bene nelle varie Olimpiadi disputate durante il fascismo.
Il fioretto maschile individuale portò all’Italia l’oro e il bronzo sia nel 1932 che nel 1936, mentre in quello a squadre arrivarono rispettivamente un argento e un oro. Similmente andò nella spada, con il record del 1936 in cui tutto il podio maschile fu occupato da atleti italiani.
E il calcio?
Abbiamo tenuto per ultimo lo sport più amato dagli italiani, il calcio. E l’abbiamo fatto perché merita un discorso a parte. Come sapete, il football era praticato in Italia già dalla fine dell’Ottocento, importato dagli inglesi. Ma proprio qui stava il suo difetto.
A differenza degli altri sport, che avevano un’origine diffusa o poco chiara, il calcio aveva una evidente patria d’origine, l’Inghilterra. E per quanto negli anni ’20 l’Italia fosse stata vicina, in politica estera, alla Gran Bretagna, nel corso del decennio successivo i rapporti con l’isola si raffreddarono notevolmente.
Il calcio era insomma uno sport troppo britannico, che non piaceva neppure a Mussolini. Non per nulla sul finire degli anni ’20 il segretario del Partito Nazionale Fascista, Augusto Turati, si inventò un nuovo sport, “puramente italico“, con l’obiettivo di sostituire il calcio e gli altri sport stranieri nel cuore degli italiani.
Questo sport fu chiamato Volata e il fascismo si impegnò nel creare squadre e campionati, perché si diffondesse. Il regolamento mescolava regole del calcio e del rugby, con squadre composte da 8 giocatori e la possibilità di usare sia le mani che i piedi. Ovviamente fu un flop: si assegnò un solo scudetto e poco dopo il progetto fu abbandonato.
Le vittorie mondiali
Nonostante i desideri del regime, gli italiani preferivano nettamente il calcio. Anche perché finalmente le squadre del nostro paese cominciavano ad esibire un bel gioco e ad ottenere importanti risultati. Come è noto, nel 1934 e nel 1938 anzi la Nazionale conquistò addirittura due titoli mondiali.
A quei successi si era però arrivati per gradi. Il fascismo aveva cominciato ad allungare le mani sul calcio sul finire degli anni ’20, grazie soprattutto ai potenti Lando Ferretti e Leandro Arpinati, che crearono la Serie A sul modello del campionato inglese.
In breve anche la Nazionale trasse giovamento da queste riforme e soprattutto dal talento del suo commissario tecnico, l’esperto Vittorio Pozzo. Nel 1928 arrivò ad esempio il bronzo olimpico ad Amsterdam, mentre tra il 1927 e il 1930 l’Italia conquistò la Coppa Internazionale, antesignana dei moderni Europei, davanti alle fortissime squadre danubiane.

Così, finalmente convinto dalla popolarità crescente dello sport, Mussolini chiese di organizzare un Mondiale. Nel 1934 la Coppa Rimet giunse quindi in Italia, e vi rimase, visto che gli Azzurri sconfissero in finale la Cecoslovacchia.
Ancora meglio andò, quattro anni più tardi, in Francia, quando la nostra Nazionale si dimostrò ancora più forte e conquistò il secondo titolo consecutivo.
5. I grandi atleti
Lo sport durante gli anni del fascismo non fu seguito però solo a livello di successi di squadra. Furono anzi soprattutto alcuni grandi campioni ad infiammare la fantasia degli appassionati. Tra i tanti, ne abbiamo scelti quattro che dominarono la scena e di cui vale la pena di approfondire la storia.
Si tratta di Primo Carnera, grande campione del pugilato che abbiamo già citato; di Costante Girardengo, forse il più famoso tra i ciclisti del periodo; di Tazio Nuvolari, l’asso dell’automobilismo; e di Giuseppe Meazza, il grande attaccante dell’Inter e della Nazionale italiana.
Primo Carnera, il gigante buono
Friulano, classe 1906, Primo Carnera proveniva da una famiglia molto povera. Da bambino, mentre il padre era impegnato nella Prima guerra mondiale, era stato costretto anche a mendicare. E nel dopoguerra, per fame, emigrò in Francia, lavorando come carpentiere.
A 19 anni aveva già un fisico imponente e fu quindi ingaggiato da un circo, che lo faceva esibire come fenomeno da baraccone. Durante una delle lotte sotto il tendone venne notato dall’ex campione di boxe Paul Journée, che lo convinse a passare al pugilato.

Esordì nel 1928 e disputò vari incontri tra la Francia, l’Italia e l’Inghilterra, ottenendo molte vittorie. Così l’anno dopo sbarcò in America, dove inanellò una serie impressionante di vittorie. Su molte di esse aleggiava però il sospetto della combine e della mafia italoamericana.
Comunque, nel 1933 Carnera sfidò a New York il campione del mondo Jack Sharkey, riuscendo a mandarlo al tappeto e conquistando il titolo. Mussolini lo volle subito dopo a Roma, mostrandolo dal celebre balcone di Piazza Venezia in camicia nera. E il Minculpop si premurò di diramare direttive affinché non si mostrassero mai foto col campione al tappeto.
Il declino del pugile
Nell’ottobre dello stesso anno, questa volta a Roma, Carnera difese il titolo contro lo spagnolo Uzcudun, vincendo ai punti e aggiudicandosi così anche il titolo europeo. Sotto all’accappatoio, prima del match, mostrò la camicia nera.
In realtà, però, al pugile friulano della politica importava molto poco. Per certi versi era ingenuo, sicuramente una persona semplice, e si prestava al ruolo che il regime gli aveva assegnato. Almeno fino a quando arrivarono le vittorie.
Nel 1934, come anticipato, Carnera perse infatti il titolo a New York contro Max Baer, un pugile ebreo che combatteva con la Stella di David cucita sui calzoncini. Quello fu un duro colpo per la carriera di Carnera. Tentò di rifarsi dopo una tournée in Sud America sfidando l’afroamericano Joe Luis, che però ebbe facilmente ragione di lui.
Nel dopoguerra si dedicò per qualche anno al wrestling, ottenendo anche la cittadinanza americana. Continuò a combattere fino ai primi anni ’60, concedendosi nel frattempo anche una discreta carriera cinematografica, nel ruolo ovviamente del forzuto. Tornò in Italia negli ultimi mesi di vita ed è sepolto in Friuli.
Costante Girardengo, il campionissimo, e gli altri ciclisti
Costante Girardengo era invece nato nel 1893 e divenne un campione in uno sport ben diverso, il ciclismo. In carriera vinse due volte il Giro d’Italia e sei volte la Milano-Sanremo, ma la maggior parte dei successi la ottenne nel primissimo dopoguerra, prima che il fascismo salisse al potere.
Ad ogni modo negli anni ’20 venne ribattezzato “Campionissimo“, il primo del nostro ciclismo (sarebbe stato seguito da Coppi). Forse anche per questa sfasatura temporale, non ebbe particolari problemi col regime. Ne ebbe molti di più Sante Pollastri, il ladro della celebre canzone Il bandito e il campione di De Gregori.
Secondo la leggenda, lui e Girardengo erano amici, solo che il primo aveva scelto la malavita e il secondo la bicicletta. In realtà si conoscevano perché originari dello stesso paese e si erano incontrati a Parigi, ma probabilmente non avevano altri legami. Pollastri, anarchico e ladro, ebbe però parecchi problemi col regime e finì anche in carcere.
Antifascisti in bicicletta
Il mondo del ciclismo, comunque, pullulava – almeno per l’epoca – di antifascisti. Ottavio Bottecchia, il primo italiano a vincere il Tour de France, secondo molte testimonianze non nascondeva la sua avversione al regime. E quando fu misteriosamente trovato morto, a 33 anni d’età, qualcuno ipotizzò che la matrice della morte fosse politica.
Gino Bartali, il campione che emerse sul finire degli anni ’30, è famoso, invece, per aver rifiutato di fare il saluto romano dopo la vittoria del Tour nel 1938. Durante la guerra, poi, trasportò con la sua bicicletta documenti falsi per moltissimi ebrei, che grazie a lui trovarono la salvezza.
Tazio Nuvolari, il più veloce
Oltre che per il ciclismo, negli anni ’20 e soprattutto negli anni ’30 gli italiani cominciarono a manifestare un grande interesse anche per un altro tipo di corsa: quella delle automobili. Come detto, in giro per l’Italia e per l’Europa cominciavano a comparire autodromi che sarebbero divenuti leggendari, ma si correva anche sulle strade normali.
Il campione più memorabile di quell’epoca fu sicuramente il mantovano Tazio Nuvolari. Classe 1892, per tutto il periodo giovanile corse in realtà in motocicletta, arrivando alle auto relativamente tardi. Ma fu proprio sulle 4 ruote che riuscì a guadagnare una fama imperitura.
Già sul finire degli anni ’20 colse alcuni importanti risultati, ma fu soprattutto nel decennio seguente – associato alle auto dell’Alfa Romeo – che entrò nella leggenda. Si aggiudicò decine di gare, ma divenne famoso soprattutto per la sua capacità di resistere ad ogni inconveniente.
Nelle gare più lunghe riusciva infatti a superare quasi ogni tipo di incidente, riparando la vettura alla meno peggio e riprendendo la corsa, fino a concludere in condizioni anche molto precarie. Anche per questa sua tenacia fu presto ammirato da intellettuali e appassionati: e tra i suoi fan figurava perfino Gabriele D’Annunzio.
Le vittorie e la fine
Tra le sue vittorie più memorabili bisogna menzionare, almeno, le Mille Miglia del 1930 e del 1933, il Gran Premio di Tripoli del 1928 (che per la prima volta lo impose all’attenzione internazionale) e la 24 Ore di Le Mans del 1933.
Nel 1935, inoltre, si aggiudicò il Gran Premio di Germania dopo una poderosa rimonta, contrariando i dirigenti nazisti che già contavano nella vittoria dei piloti tedeschi. Fu lui stesso a fornire la bandiera italiana per la premiazione, che si era portato da casa sicuro di poter trionfare.
Nel dopoguerra fu assillato da numerosi problemi di salute e si spense nel 1953. Ai suoi funerali, a Mantova, parteciparono decine di migliaia di persone, oltre a vari campioni dell’automobilismo di allora, tra cui Alberto Ascari e Juan Manuel Fangio.
Meazza, il Balilla
Abbiamo spiegato all’inizio che lo sport, sotto il fascismo, veniva praticato anche nelle organizzazioni giovanili, e soprattutto all’interno dell’Opera Nazionale Balilla, che inquadrava i giovani in età scolare. Ma c’era un atleta che proprio per via della sua giovane età era addirittura soprannominato “il Balilla”: Giuseppe Meazza.
Il grande campione nacque a Milano nel 1910 da una famiglia piuttosto umile. Orfano di padre, che era morto nella Prima guerra mondiale, fu scoperto giovanissimo mentre giocava con gli amici nei campetti di periferia, e sottoposto a un provino col Milan. Scartato per via del fisico gracile, passò all’Inter, dove riuscì ad imporsi.
Grazie alla stima dell’osservatore Fulvio Bernardini, esordì in prima squadra già a 17 anni, venendo appunto battezzato Balilla dai compagni di squadra. In breve però dimostrò che l’età non era un problema, visto che già alla seconda stagione siglò 33 reti (su 29 presenze) e alla terza trascinò i nerazzurri allo scudetto.
Esordì già nel 1930 anche in Nazionale, subito con una doppietta, e fu soprattutto con la maglia azzurra che incantò gli appassionati dell’epoca. Sotto la sua guida in campo, assieme a quella di Vittorio Pozzo dalla panchina, la Nazionale infatti inanellò una serie di risultati incredibili.
I grandi successi in Nazionale
Memorabile, già alla sua quarta presenza, fu la prestazione degli Azzurri a Budapest contro i campioni dell’Ungheria. La nostra selezione si impose infatti per 5-0 contro la squadra che era ritenuta una delle più forti del mondo. Di quei 5 gol, 3 erano firmati da Meazza, che esibiva un dribbling micidiale e un grande fiuto del gol.
Tra il 1934 e il 1938, come detto, la Nazionale vinse due titoli mondiali, sempre con Meazza in campo, anche se col passare del tempo la sua posizione arretrò. In gioventù giocava sempre centravanti, mentre poi venne schierato come mezzala e infine anche come centrocampista.

Partecipò, nel 1934, anche alla celebre Battaglia di Highbury, durante la quale la Nazionale campione del mondo andò a sfidare gli inglesi a casa loro. La squadra di Pozzo perse per 3-2 giocando in inferiorità numerica per gran parte della partita, ma i due gol italiani furono firmati entrambi da “Peppino”.
Chiuse la carriera con 33 reti in azzurro, che è ancora oggi il secondo miglior record dopo quello di Gigi Riva. Con l’Inter conquistò anche 3 scudetti e una Coppa Italia, e per tre volte si aggiudicò anche il titolo di capocannoniere del campionato.
Col fascismo non ebbe mai molto a che fare, se non per le consuete cerimonie con cui il regime celebrava le varie Nazionali. Fu però il primo sportivo a diventare una sorta di idolo popolare, visto che anche la sua vita privata veniva spesso ritratta dai rotocalchi.
E voi, quale aspetto del rapporto tra sport e fascismo preferite?
Note e approfondimenti
Bellissimo lavoro anche se manca tutta la parte femminile, la condizione della donna, Ondina Valla ecc…
Grazie mille
Elena Carmagnani
Sì infatti potete mettere la parte femminile