6 storie di paura e horror da raccontare agli amici

Il falò e le storie da paura da raccontare davanti ad esso

Se avete mai visto dei film per ragazzi americani ambientati in estate, sapete bene che là esistono delle tradizioni, quasi dei riti, molto consolidate. Una di queste è il campeggio estivo. Complice la presenza di numerosi boschi, montagne e parchi naturali, la gioventù americana si forma anche tramite queste esperienze. Esperienze che hanno sempre al loro interno almeno una serata davanti al falò. Passata all’insegna di storie di paura da raccontare e da ascoltare.

Verità e paura

Ogni ragazzo porta le proprie, traendo ispirazione da racconti letti o da storie raccontate dai fratelli maggiori. Le si racconta attorno al fuoco, quando è già scesa la notte, e si sfruttano i rumori del bosco per creare la giusta atmosfera.

Si fa di tutto per far credere che queste storie siano vere, perché questo aumenta la paura, e si bada che siano corte ed efficaci. Perché quella delle storie di paura da raccontare agli amici è quasi un’arte, in cui molti si specializzano.

Da noi una tradizione del genere non esiste, anche se l’importazione di Halloween ci sta allenando a qualcosa di simile. E, quando si hanno davanti dei ragazzi delle medie, delle superiori o al limite anche dei bambini, avere una buona storia ad effetto pronta nella memoria può sempre tornare utile.

Per questo abbiamo selezionato per voi varie storie di paura da raccontare davanti a un falò o in qualsiasi altra occasione. Storie che abbiamo tratto dalle diverse leggende metropolitane che girano sul web e sui forum, e adattato all’Italia. Eccole.

 

1. Un pericoloso fuggitivo

Tra la statale e il distributore

Una ragazza sta guidando la sua macchina lungo la statale. È tarda sera e in giro ci sono poche auto. In macchina con lei non c’è nessuno, ma si sente l’autoradio che passa un po’ di vecchia musica rock. Ad un certo punto la musica s’interrompe per un notiziario. L’annunciatrice dà la notizia di un brutale omicidio, avvenuto a pochi chilometri da lì.

Il killer, ancora ignoto, ha barbaramente ucciso il personale di un ristorante lungo una strada secondaria. Gli inquirenti temono che l’assassino possa nascondersi lì attorno e avverte tutti di prestare molta attenzione.

Un fuggitivo in un distributore di benzina
La ragazza però ha un problema. La benzina nel suo serbatoio sta finendo e, se non vuole rimanere a piedi, deve per forza fermarsi a un distributore. Per fortuna ce n’è uno all’orizzonte e decide di entrare, cercando di fare tutto il più in fretta possibile.

Dopo quello che ha sentito alla radio, non le piace rimanere in giro. Alla pompa di benzina trova un uomo, vestito con la divisa della compagnia petrolifera. È vecchio e malridotto, oltre che brusco, ma non sembra pericoloso. Gli chiede di farle il pieno.

Il pieno di benzina

Lei rimane seduta dentro alla vettura, guardando di continuo gli specchietti retrovisori per tenere sott’occhio il benzinaio. Tutto appare normale, ma la ragazza non si fida di quel tipo. Attorno non sembra esserci nessun altro, anche se nell’edificio di fianco al distributore c’è una luce accesa e forse dentro c’è qualcuno.

I secondi sono interminabili mentre il serbatoio si riempie di benzina. La ragazza non riesce a staccare gli occhi dagli specchietti, mentre il benzinaio manifesta una noncuranza un po’ artefatta.


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Impaurita dal silenzio, la ragazza accende di nuovo l’autoradio. C’è un altro notiziario che dice che la polizia non riesce a trovare il killer. Non si hanno descrizioni né identikit, ma adesso si sa la macchina con cui è scappato.

È una Ford blu, un modello di qualche anno fa. La ragazza si guarda intorno rapidamente. Ora che le nota, ci sono un paio di auto parcheggiate di fianco all’edificio, in lontananza. Non riesce a vederle bene, e neppure se ne intende troppo, ma una è blu. Una è blu, di sicuro, e vecchia.

Toc toc

Toc toc. Si gira di soprassalto e vede il benzinaio che bussa al finestrino. Le prende il crepacuore, ma l’uomo non ha in mano nessuna arma. Anzi, le indica qualcosa, forse proprio quell’auto blu. Che avesse sentito anche lui il notiziario?

La ragazza tira giù il finestrino, lentamente. «Sì?», chiede. «Per pagare deve andare là dentro. La cassa è là», le spiega l’uomo. E, detto questo, va a sedersi su una sedia qualche metro più in là.

La ragazza prende la borsetta e scende lentamente dall’auto, guardandosi continuamente attorno. Ormai sta facendo buio e l’illuminazione è scarsa. Comunque, il fatto che il benzinaio non la stia accompagnando significa che là dentro c’è qualcun altro e che i due non sono soli. Quando entra, infatti, vede una vecchia signora – forse la moglie – alla cassa.


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Il posto funge anche da minimarket, però, e la ragazza si accorge che c’è un uomo sulla quarantina che si aggira tra gli scaffali. Lo fissa per qualche secondo, anche perché sembra non stia comprando nulla. «Deve pagare la benzina?», le chiede la signora alla casa, distraendola dai suoi pensieri. «Sì – dice la ragazza, girando le spalle all’uomo –. Quanto le devo?»

Poco dopo

Qualche minuto dopo nello stesso distributore entra un’auto. Procede molto lentamente. Alla guida c’è un ragazzo. Va alla pompa di benzina ma non vede nessun inserviente. Si chiede se si tratti di un distributore self-service, ma non vede la macchinetta in cui introdurre il denaro. C’è però un’altra auto ferma lì. Un’auto blu.

Prova a guardare dentro al finestrino ma l’abitacolo è vuoto. Decide allora di andare verso l’edificio a pochi metri di distanza, da dove arriva una luce.

 
Quando è quasi alla porta si vede piombare addosso un’ombra che sta uscendo di corsa. «Mi scusi, io cercavo…» La persona non risponde e corre via. Il ragazzo si tocca la spalla dove è appena stato colpito e vede una macchia di sangue.

A quel punto, ignaro del killer, entra nell’edificio. A terra, crivellati di colpi, vede l’anziana cassiera, il benzinaio e l’uomo che prima stava girando tra gli scaffali. Mentre la ragazza-killer, con la sua pistola nella borsetta, continua a girare per la statale.

   

 

2. La ragazza del sottopasso

Una sera di nebbia

Era una notte di novembre, una di quelle notti piene di nebbia, in cui si fa fatica a vedere. Un giovane uomo procedeva alla guida della sua auto, diretto verso casa. La strada era la solita, fatta milioni di volte. L’avrebbe potuta percorrere ad occhi chiusi.

Ed in effetti era come se la stesse attraversando senza guardare, perché la nebbia non gli permetteva di vedere molto davanti a lui. Per questo, comunque, stava guidando lentamente, con una certa prudenza.

All'entrata del tunnel
Ad un certo punto, dopo una curva, la strada imboccava un sottopassaggio. L’aveva attraversato molte volte, ma quella volta c’era qualcosa di diverso.

Appena imboccato il sottopasso, infatti, l’uomo alla guida vide una ragazza vestita di bianco in mezzo alla strada. Frenò di botto e riuscì a fermarsi poco prima di investirla. Non c’era traffico quella sera, ma era comunque da incoscienti stare lì.

«Hai bisogno di aiuto?»

L’uomo scese dall’auto. La ragazza sembrava molto confusa, forse ubriaca, anche se molto bella. Le si avvicinò: «Cosa… cosa fai qui? Hai bisogno di aiuto?», le chiese. «Sì», rispose lei, guardandosi incontro. «Puoi portarmi a casa?» «Certo, sì. È meglio che ci togliamo di qui. Vieni».

La fece salire in macchina. Sembrava in trance, ma lo seppe comunque dirigere lungo la strada. Abitava in un quartiere non distante dal suo. Nel tragitto provò a chiederle qualcosa, senza particolare successo: «Come mai eri lì, da sola, in mezzo alla strada? È tardi, può essere pericoloso».

«Sono stata a una festa. Ero con il mio fidanzato, ma sulla strada del ritorno abbiamo litigato. Mi ha fatta molto arrabbiare. Gli ho chiesto di farmi scendere e sono rimasta lì». «Ma… ti senti bene?» «Sì – rispose lei –, tutto bene».


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In breve arrivarono davanti alla porta indicata dalla ragazza. Lui si fermò al bordo della strada, ma lei continuava a fissare avanti a sé. «Siamo arrivati, credo. È quella casa, no?» «Sì», fece lei, senza però scendere.

«Vengo ad aprirti», disse l’uomo, e scese, girando attorno all’auto per aprirle la portiera. Quando giunse dall’altra parte e la spalancò, però, trovò il sedile vuoto.

Si guardò subito attorno, pensando che la ragazza fosse scesa mentre lui faceva il giro. Ma non la vide da nessuna parte. Guardò ancora in macchina, ma era vuota. C’era molta nebbia, però, e magari la ragazza era già andata verso casa senza che lui se ne accorgesse.

Si diresse, quindi, verso la porta e provò a bussare. Nessuna risposta. Guardò ancora in giro, senza scorgere nulla. Decise di suonare il campanello, anche se effettivamente era tardi.

Una signora coi capelli bianchi

Dopo un paio di minuti la porta si aprì. Davanti a sé il giovane uomo aveva ora una signora coi capelli bianchi. «Mi scusi, signora. Io… io ho portato qui una ragazza vestita di bianco. Era stata a una festa, l’ho trovata all’inizio del sottopasso. Mi ha detto che abitava qui ma, non so, l’ho persa di vista. È entrata, per caso?»

La signora non sembrava sorpresa: «Sì, so a cosa si riferisce. Quella ragazza era mia figlia. È morta cinque anni fa in un incidente, proprio all’ingresso del tunnel. Stava tornando a casa da una festa. Oggi sono cinque anni esatti. Ogni anno, in questa sera, compare a un ragazzo e tenta di tornare a casa, ma non ci riesce mai».

   

 

3. Non accendere la luce

Una delle migliori storie di paura da raccontare a chi va all’università

Lisa e Francesca condividevano la stessa stanza nel dormitorio universitario. In occasione della fine dell’anno accademico era stata organizzata una grande festa, e le due ragazze avevano ovviamente intenzione di andarci prima di fare ritorno alle rispettive case per le vacanze.

D’accordo con le amiche, avevano progettato la serata nei minimi dettagli. Prima un aperitivo in città. Poi l’appuntamento in zona universitaria con una serie di amici dotati di auto e lo spostamento verso la festa. Rientro previsto attorno alle 2 del mattino, o anche più tardi, se le cose fossero andate bene.

Ragazze allegre prima di diventare protagoniste di storie di paura da raccontare agli amici
E così fecero: assieme ad altre quattro amiche andarono in un bar del centro; poi tornarono verso il dormitorio, pronte a raggiungere i ragazzi che erano già lì ad attenderle.

Il tesserino

Stavano salendo sulle auto quando, all’improvviso, Lisa si ricordò di non avere con sé il tesserino universitario, necessario per entrare alla festa. Mentre le ragazze si sistemavano nelle varie macchine, disse loro di attenderla un attimo e salì in camera a prenderlo.

Fece di corsa le scale, perché il vecchio edificio non era dotato di ascensore, e arrivò davanti alla porta trafelata e sudata. Sapeva che tutti, giù, aspettavano solo lei e magari brontolavano per la sua ennesima dimenticanza. Per fortuna, avrebbe fatto in fretta: sapeva benissimo dov’era il tesserino e ci avrebbe messo un minuto.

Una volta trovata la chiave aprì la porta e si precipitò dentro, senza neppure accendere la luce. Tanto conosceva a memoria la stanza. Arrivò alla mensola e trovò subito, a tastoni, il tesserino. Si precipitò fuori in fretta e furia, non dimenticandosi di dare un giro di chiave alla porta. In meno di un minuto era giù, pronta a salire in auto.


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La festa fu divertente ma anche stancante. Il capannone scelto dagli organizzatori era troppo piccolo per quella massa di gente, e la musica era assordante. Francesca si stufò presto di quell’ambiente, mentre Lisa invece incontrò un suo compagno di corso molto carino.

Fu per questo che la compagna di stanza la salutò presto, cogliendo al volo l’occasione di un ragazzo che, con l’auto, tornava verso la zona universitaria: «Vado avanti e mi metto a letto. Sono stanchissima. Ci vediamo domani», disse Francesca a Lisa.

Il rientro al dormitorio

Quest’ultima invece rimase alla festa fino a tardi e poi si trattenne a passeggiare con l’amico. Rientrò verso il dormitorio solo alle 3 di notte passate. Davanti alla porta dell’edificio, però, trovò tre macchine della polizia coi lampeggianti accesi: «Cos’è successo?», chiese, preoccupata, all’agente che piantonava l’entrata. «Non c’è niente da vedere», rispose lui brusco.

«Ma io dormo qui – riprese Lisa –. Cos’è successo?» «In che stanza dorme, signorina?» In breve fu fatta salire al suo piano. Doveva parlare con un investigatore, ma visto che tutti erano troppo impegnati riuscì a sgattaiolare fino alla sua stanza. C’era un viavai incredibile, ma la porta era spalancata.

«Signorina! Dove va? Non entri!», sentì urlare. Ma ormai era già dentro. Vide il sangue per terra e poi sui muri. E sul grande specchio una scritta, fatta proprio col sangue: «Non sei contenta di non aver acceso la luce?»

   

 

4. Non c’è campo

Una delle migliori storie di paura da raccontare quando si è in un posto isolato

Una giovane coppietta era alla prima vacanza insieme. Visto che avevano pochi soldi, i due avevano deciso di risparmiare, andando in qualche campeggio. Ma non avevano prenotato, e giunti nella zona in cui avevano pensato di dormire avevano trovato i campeggi tutti pieni.

L’alternativa era andare in albergo spendendo qualcosa in più, ma i ragazzi erano giovani e fiduciosi: decisero quindi di accamparsi con la tenda in un bosco lì vicino. Erano troppo eccitati per pensare ai rischi di una cosa del genere. Lasciarono la macchina e si addentrarono tra gli alberi, camminando a lungo.

Neppure in campeggio si può stare tranquilli
Trovarono quindi un posto adatto. Misero giù gli zaini, tirarono fuori la tenda e iniziarono a montarla. La ragazza scattò qualche foto col cellulare e, così facendo, si accorse che nella zona non c’era segnale. Erano davvero isolati.

Poco dopo, però, si accorse anche di una cosa strana. Lo smartphone captava un segnale wifi. Erano abbastanza distanti da qualsiasi casa o centro abitato, eppure la connessione era lì, chiamata semplicemente “Libero”. Provarono entrambi a connettersi e scoprirono che internet funzionava bene: poterono postare un selfie su Instagram e scrivere un post su Facebook.

Un hotspot?

Dopo aver montato la tenda, però, al ragazzo sorse una curiosità. Se c’era una rete wifi, voleva dire che da qualche parte lì nel bosco c’era qualche altro campeggiatore, magari con un piccolo hotspot.

Loro non vedevano nessuna rete 3G, ma magari quest’altro amante dei boschi aveva un abbonamento con un operatore migliore. Sarebbe stato simpatico trovarlo e fare conoscenza. Ma come fare?


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Al ragazzo venne in mente un’idea. Bastava muoversi in una direzione contando i passi fino a quando la rete non fosse diventata irraggiungibile. Poi, una volta tornati alla tenda, muoversi in altre due direzioni diverse e ripetere l’operazione.

Così, contando i passi, si poteva fare una triangolazione e trovare una zona indicativa. Ci misero mezz’ora a fare il tutto ma, una volta giunti sul posto individuato dai loro calcoli, non trovarono nulla. Il ragazzo esaminò bene il terreno, pensando che magari un precedente campeggiatore avesse perso il suo router. Nulla.

Senza wifi

Poi, all’improvviso, la rete wifi si spense. Il ragazzo e la ragazza si guardarono stupiti e non riuscirono a darsi una spiegazione. Decisero comunque di tornare alla tenda, visto che ormai stava facendo buio. Quando arrivarono sul posto, però, trovarono qualcosa di inaspettato. I loro zaini erano stati aperti e svuotati e la tenda distrutta.

Non c’erano più coperte, né viveri. Iniziarono a guardarsi attorno, preoccupati. Cos’era successo? Non poteva essere stato un animale, perché le cose rimaste erano disposte in modo molto ordinato.

Impauriti, decisero di correre alla macchina e andare in un albergo. Rifecero al contrario la strada percorsa poche ore prima, ma con un’ansia crescente. Arrivarono al luogo in cui avevano lasciato la macchina e si accorsero che non c’era più. Qualcuno aveva rubato anche l’auto.

D’altronde, le chiavi erano nello zaino. Oppure si erano semplicemente persi? La ragazza si impose di star calma e di chiamare qualcuno, visto che ora probabilmente il segnale era tornato. Ma appena accese il telefono si accorse che c’era un’altra rete wifi, lì. Il nome, però, non era più “Libero”. Era “Correte”.

 

5. A casa da sola

Quando i tuoi sono fuori a cena

Giulia era una ragazzina di 14 anni. Figlia unica, fin da piccola in casa aveva avuto un solo compagno di giochi: il fedele cane Bobby. Lui non la lasciava mai. Perfino quando andava a dormire, si accovacciava sul tappetino ai piedi del letto e lì rimaneva tutta la notte.

Così, quando Giulia si svegliava per via di un incubo, lo trovava sempre lì a rassicurarla. Le bastava sporgere la mano al di fuori del letto e lui gliela leccava, facendola stare tranquilla.

Una ragazza e il suo cane
I suoi genitori, comunque, c’erano sempre. Per tutta l’infanzia avevano rinunciato alla loro vita sociale per stare con lei e non lasciarla mai sola.

Ora che aveva 14 anni, però, avevano deciso di ricominciare ad uscire. E così una sera avevano accettato l’invito a cena di alcuni amici. Non lo facevano da tempo, ma ora Giulia sembrava abbastanza grande da poter passare qualche ora a casa da sola, anche di sera.

Un film e a nanna

Giulia in realtà aveva una certa paura. Di notte faceva ancora gli incubi, di tanto in tanto, e sapersi da sola fino a tarda notte non la rassicurava. I suoi genitori comunque le spiegarono che sarebbero rientrati entro le 2 e lei non sarebbe rimasta da sola a lungo.

Le consigliarono di guardarsi un bel film, magari una commedia, e poi andare tranquillamente a letto. Tanto loro avevano le chiavi.

Giulia seguì il consiglio dei genitori. Guardò un film e alle 23 si preparò per andare a letto. Si infilò il pigiama, si lavò i denti e spense le luci di casa.

Era molto stanca perché quel giorno aveva avuto vari impegni a scuola e, nonostante le rimanesse addosso un filo d’inquietudine, non smetteva di sbadigliare. Si infilò sotto le coperte e presto fu trascinata tra le braccia di Morfeo.


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Fu però svegliata pochi minuti dopo. Non capì che cosa fosse stato. Forse era stato il rumore di un’auto dalla strada. Forse qualcosa che aveva solo sognato. Spaventata, mise la mano fuori dal letto e se la sentì leccare da Bobby. Tutto andava bene finché lui era lì con lei. Attese qualche secondo ma non sentì nulla. Quindi riprovò a dormire.

Prima che si fosse riaddormentata sentì un altro rumore, questa volta piuttosto chiaro, anche se lontano. Sembrava che qualcuno stesse grattando, o raschiando qualcosa.

Guardò l’ora sulla radiosveglia: le 23:30. Mancava ancora molto prima che i suoi tornassero, e magari era solo la sua fantasia a lavorare. Mise di nuovo la mano fuori dal letto e se la sentì leccare da Bobby. Si tranquillizzò.

I vari rumori

Dopo pochi minuti, però, sentì ancora un rumore. Stavolta era diverso, sembrava il guaire di un animale. Forse erano semplicemente i gatti in amore, come era successo altre volte. Anzi, doveva essere sicuramente così. Magari, litigando, avevano fatto cadere un bidone in strada, come era già successo altre volte. Magari erano loro, prima, a raschiare una porta.

E probabilmente erano sempre loro, ora, a cantare alla luna. Non c’era niente di cui preoccuparsi. Giulia mise di nuovo la mano fuori dal letto e se la sentì ancora una volta leccare da Bobby.

Era ormai tranquilla e rideva tra sé pensando a quanto scema era stata a farsi venire quelle paure. Poi, quando ormai le si stavano chiudendo le palpebre, sentì un altro rumore, l’ultimo. Era un cane che abbaiava. Ma non un cane qualsiasi.

Quell’abbaiata Giulia la conosceva bene. Era quella di Bobby. A raschiare e ululare era sempre stato Bobby, fuori di casa, fin dall’inizio. L’aveva lasciato chiuso fuori. Non fece neppure in tempo a gridare.

 

6. Nella casa di riposo

Una storia bonus

Rosie aveva da poco trovato lavoro alla casa di riposo. Non era un’infermiera qualificata, ma il direttore dell’istituto le aveva fatto un favore, visto che conosceva suo padre, e aveva deciso di assumerla ugualmente. Non poteva però metterla a star dietro agli anziani, e pertanto le aveva proposto di lavorare in cucina.

Il lavoro era duro e pesante, ma Rosie ne era contenta. Spesso si trovava da sola a preparare i piatti o a ripulire, e a volte doveva rimanere fino a tarda sera per rimettere tutto a posto, ma la paga era buona e la ragazza aveva assolutamente bisogno di un lavoro.

Senza Jessica

Una sera aveva fatto particolarmente tardi, perché l’altra ragazza che ogni pomeriggio veniva a darle una mano – Jessica – era malata e quindi era rimasta da sola a lavare tutti i piatti. Era quasi mezzanotte quando si trovò ad asciugare le ultime stoviglie. Stava quasi per togliersi la traversina quando sentì un rumore in corridoio.

Si affacciò sulla porta per guardare, ma non vide nulla. A quell’ora gli ospiti della casa di riposo erano già tutti a letto da un pezzo, e rimanevano solo le infermiere di guardia, ma ai piani superiori. Lì, nel sottosuolo, non c’era di solito nessuno. Eppure era sicura di sentire ancora dei passi, in lontananza.

Provò a chiedere: «C’è qualcuno?» Nessuno rispose, ma i passi si facevano via via più intensi e Rosie cominciò ad avere paura. Non sapeva neppure bene dove si trovavano gli interruttori, in quel corridoio, perché non ci passava quasi mai. «Chi è?», chiese ancora, senza risposta.

Tentò di rinchiudersi dentro alla sua cucina, ma il cuore le pulsava a mille. Anche dietro alla pesante porta continuava a sentire i passi che si avvicinavano. Alla fine si fermarono proprio davanti alla porta e il respiro di Rosie divenne affannoso. Si guardò intorno in fretta e l’occhio le cadde su un coltello. Lo prese e si rintanò in un angolo.

Una cucina che è quasi sala operatoria
Forse quella paura era assurda, esagerata, però Rosie continuava a pensare che lì giù nessuno l’avrebbe sentita urlare. La porta si aprì assai lentamente, cigolando. Rosie ansimava e il coltello le tremolava pericolosamente in mano. Nella fretta aveva fatto l’errore di mettersi nell’angolo cieco della stanza, quindi non vedeva, con la porta spalancata, chi ci fosse sulla soglia.

Avrebbe dovuto di nuovo chiedere chi era? O avrebbe dovuto sperare che l’uomo in questione – perché, dal passo pesante, doveva di sicuro trattarsi di un uomo – pensasse che la cucina fosse vuota e se ne andasse?

Dopo un interminabile minuto “l’invasore” penetrò nella stanza, non accorgendosi di Rosie e dirigendosi invece verso il grande frigorifero. Era un vecchietto in vestaglia, apparentemente innocuo, ma dal passo ugualmente pesante, a causa di assurde scarpe nere. Rosie si sentì sollevata. Appoggiò il coltello su un bancone, senza fare rumore, e poi si rivolse all’uomo.

«Mi scusi», gli disse. Il vecchio sussultò, spaventato. Forse era anche un po’ sordo e forse era stato proprio per questo che prima non aveva risposto. Rosie si sentì molto stupida ad aver avuto così tanta paura. «Non può entrare in cucina di notte», gli disse.

Un pacchetto di crackers

«Oh – rispose il signore –, avevo un po’ di fame. Pensavo che magari…» «Guardi, dal frigo non posso darle niente. Se vuole, però, posso darle un pacchetto di crackers».

I due si sedettero al bancone della cucina e Rosie aspettò che l’uomo mangiasse. Aveva una fame vorace, sembrava quasi che fosse a digiuno da giorni. «Non le è piaciuta la cena di stasera?», gli chiese. «Non l’ho mangiata», rispose l’uomo. «Lo vedo. Però farebbe bene a mangiare quello che le passano le infermiere. Le fa bene».

Una volta finiti i crackers il signore si alzò lentamente e si scrollò di dosso le briciole. «Vuole che la accompagni alla sua stanza?», chiese Rosie. «No, non c’è bisogno. Non stasera. Magari domani sera». «Domani sera?», chiese lei, stupita.

«Sì, domani tornerò di nuovo a mangiare un po’ qui. Spero di trovarla. È stata gentile. E così domani sera posso portarla a vedere dove dormo. Oggi è ancora presto, ma domani…». Il discorso le sembrò un po’ assurdo, ma era tardi e Rosie non aveva voglia di discutere: «Ok, allora a domani, signor…?» «Oscar. Oscar Case».

Il giorno dopo

L’uomo se ne andò lentamente. Rosie spense le luci, si mise il cappotto e scappò a casa. Il giorno dopo tornò al lavoro, quasi dimenticandosi di Oscar. Jessica era ancora malata, così a darle una mano in cucina arrivò un’infermiera, Carla, che lavorava lì da molti anni.

Il lavoro era comunque tanto e Carla doveva tornare al piano, quindi Rosie avrebbe di nuovo fatto tardi. «Finirà – disse parlando a voce alta – che pure stasera riceverò la visita di Oscar». «Di chi?», chiese Carla sulla soglia, mentre la salutava dirigendosi verso il piano.

«Oscar Case, un signore che è passato qui a mangiare un pacchetto di crackers». «Ah, il vecchio Oscar. Poveretto, che peccato…» «Poveretto?», chiese Rosie incuriosita. «Sì, quello che gli è successo…» «Cosa gli è successo? Non ne so nulla».

«Ah, scusa, credevo lo sapessi – commentò Carla, quasi rassegnata, mentre si incamminava lungo il corridoio e spegneva le luci –. Due settimane fa si è tagliato la gola con una lametta da barba. Pensa: l’hanno trovato in vestaglia e con le scarpe eleganti, nere, in un mare di sangue. Pace all’anima sua».

Rosie rimase immobile, come paralizzata, mentre Carla percorreva gli ultimi metri che la portavano alle scale per salire ai piani superiori. Si ridestò solo quando, all’improvviso, cominciò a sentire nel corridoio, alle sue spalle, dei passi, in tutto simili a quelli della sera precedente.

 

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